Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 52 - GIUGNO 2008



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Clima, politica ed economia: le nozze a tre sono alle porte

La Conferenza di Bali pone basi importanti per il dopo Kyoto.
Le borse illuminate dal sole lasciano ben sperare per il futuro del pianeta.
Sarà paradossalmente l'economia a salvarci? Sicuramente non da sola, ma potrà fare la sua parte lasciandosi guidare dal clima, da un ritorno della politica internazionale e dal buon senso. Le aree protette tra i primi luoghi dove sancire questo inatteso matrimonio a tre.

La "Bali roadmap" per il "dopo Kyoto"
Il 15 dicembre 2007 a Bali, in Indonesia, si è conclusa con ventiquattrore di ritardo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambio del Clima. Tredici giorni di tensioni, limature e negoziati sul filo di lana, con un finale rocambolesco e teatrale: il ritorno precipitoso del Segretario Generale dell'Onu per un appello alle coscienze, la commozione quasi disperata di Yvo de Boer, segretario esecutivo dell'Unfccc organizzatore della Conferenza, il ritiro all'ultimo minuto dei tempi supplementari della caparbia opposizione degli Stati Uniti e l'approvazione tra gli applausi dell'Assemblea della "Bali roadmap" (così è stato chiamato l'accordo raggiunto).
Un documento non così forte com'era lecito sperare, ma probabilmente destinato ad entrare nella storia, secondo quanto suggerisce la frase ad effetto pronunciata con sollievo nel suo discorso finale dallo stesso de Boer: "il muro di Berlino del cambiamento climatico è crollato".
Viste le premesse sicuramente un successo, così come trapela dalle parole del cancelliere tedesco Angela Merkel e del nostro ministro Pecoraro Scanio, fervidi sostenitori della posizione europea che richiedeva un impegno serio ed immediato. Vediamo i punti salienti del documento che costituisce la base per costruire il "dopo Kyoto".
In primis, l'impegno entro due anni di stilare la strategia per la riduzione delle emissioni di CO2 che dovrà entrare in vigore nel 2012 alla scadenza naturale del Protocollo di Kyoto. L'appuntamento per l'adozione di "Kyoto2" è fissato quindi per Copenhagen 2009, non a caso forse, dopo le prossime elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Secondo elemento portante dell'accordo di Bali è l'estensione dell'impegno per il clima praticamente a tutto il pianeta. I 190 paesi presenti, infatti, sottoscrivendo la roadmap, hanno condiviso per la prima volta una comune preoccupazione per il surriscaldamento della Terra e concordato sul percorso di azioni da intraprendere insieme per contrastarlo. Un bel passo avanti rispetto a Kyoto che prevedeva l'impegno dei soli paesi industrializzati (e neanche tutti dal momento che gli Stati Uniti non l'hanno ratificato) e lasciava senza obblighi i "paesi in via di sviluppo" (etichetta anacronistica che accomuna paesi come la Cina e il Bangladesh) fino al 2020.
Altro tassello positivo è il riconoscimento che «saranno necessari forti tagli alle emissioni globali di gas serra» e l'esplicita citazione del lavoro scientifico dell'Ipcc come punto di riferimento che non lascia più alcuno spazio a dubbi in merito alla realtà del cambio del clima.
Vediamo ora i punti deboli della roadmap; non sono infatti pochi i passaggi che sono stati stemperati, soprattutto a causa della riluttanza ed opposizione degli Stati Uniti, ma anche di Giappone e Russia. Innanzitutto il depennamento dei limiti numerici, fortemente voluti dall'Europa che pretendeva una riduzione delle emissioni tra il 25 ed il 40 % entro il 2020, così come pare ragionevole pianificare da quanto emerge dal Quarto Rapporto dell'Ipcc. La quantificazione è stata spostata in una nota a piè pagina e la forbice è stata notevolmente ampliata verso il basso, con un obiettivo di riduzione entro il 2020 tra il 10 ed il 40%.
In secondo luogo, la Bali roadmap ha recepito lo spirito della linea Bush in merito a "volontarietà e flessibilità": l'esatto opposto di quello di Kyoto che, tuttavia, è bene ricordare che da molti paesi non sarà onorato nei tempi previsti. Si legge tra le righe del documento di Bali che i "paesi sviluppati" decidono di ridurre le emissioni «con impegni oppure azioni appropriate a ogni nazione […] tenendo conto delle rispettive circostanze». Una formula un po' ambigua che lascia troppo spazio alle contingenze, sempre pronte a spuntare al momento opportuno per giustificare comportamenti non in linea con lo sforzo di ridurre le emissioni.
Speriamo quindi che da Copenhagen emergano limiti più chiari e tangibili con margini tali da garantire che le eccezioni non diventino regola o scusa per non adempiere agli impegni presi.

L'Europa alla guida di una nuova politica internazionale?
Dalla caduta di Berlino in poi, la politica ha vissuto tempi difficili.
Dopo l'11 settembre 2001, poi, il terrorismo e la reazione alla sua minaccia da parte del mondo occidentale hanno inferto una ferita difficile da rimarginare alla politica mondiale, nonché un colpo mortale alla possibilità di far nascere un diritto internazionale degno di tal nome. Il problema del cambio del clima sembra un'occasione preziosa per iniziare a rimarginare tale profonda lesione, ponendo nuove basi di cooperazione e dialogo che possano ridare un po' di credibilità ed autorevolezza al ruolo della politica su scala planetaria. Sono non pochi i segnali importanti che sono emersi di recente in tal senso. Innanzitutto la crescente preoccupazione per l'incidenza di disastri legati al cambio del clima, così come la decisione di assegnare il premio nobel all'ex vicepresidente americano Al Gore ed all'IPCC (International Pannel for Climate Change), sono a testimoniare che il problema del surriscaldamento globale ha assunto il ruolo di spicco che gli compete, e non è più solo un "prurito" di pochi estremisti della tutela dell'ambiente. In questo contesto l'Europa, dopo aver giocato un ruolo politico-diplomatico fondamentale per la ratifica del protocollo di Kyoto, si è riconfermata a Bali leader politico all'avanguardia nella battaglia al "global warming". Una realtà che si traduce anche in impegni ed obiettivi numerici concreti che speriamo siano da tutti degnamente onorati, come quello di far salire entro il 2020 al 20% l'energia prodotta da fonti rinnovabili. A puntare più in alto sono i paesi del nord: la Svezia mira ad essere indipendente dai combustibili fossili nel 2020, e la Norvegia punta all'obiettivo emissioni zero entro il 2050. Fermezza e compattezza delle posizioni delle nazioni europee nel braccio di ferro con il fronte, meno compatto, composto da Stati Uniti, Giappone, Canada, Australia e Russia che premeva per rinviare obiettivi impegnativi per la riduzione dei gas serra, sono state determinanti per il risultato positivo di Bali. L'Europa ha dimostrato in una situazione difficile di saper esercitare un ruolo trainante: la sua influenza ha toccato il mondo intero, persino gli Stati Uniti, schierati dal 2001 a capo del vecchio fronte industrialista che tanto ha osteggiato il protocollo di Kyoto. La Casa Bianca, incredibilmente ingessata su posizioni volte a tutelare ad oltranza una ben nota fetta di interessi industriali nazionali, ha dovuto cedere per non capitolare. L'atteggiamento di chiusura infatti, nel corso della Conferenza di Bali, ha portato gli Stati Uniti ad un isolamento forse senza precedenti, stigmatizzato quando un applauso scrosciante ha avvallato le parole pesanti che il rappresentante del Sudafrica ha rivolto a quello americano: «Se vi opponete a tutto, perché non uscite da quest'aula e ci lasciate approvare il documento all'unanimità?».
Un'influenza, quella europea, che si fa sentire anche e soprattutto tramite la voce di un'altra America che "dal basso" dà forti segnali di preoccupazione e voglia di cambiare. In un sondaggio della CNN "dopo Bali" il 66% dei cittadini americani ha chiesto al governo di agire prontamente per arginare il surriscaldamento del pianeta e contenere le emissioni di CO2. Sono tante poi le grandi e piccole città e gli Stati federali, sia sotto la guida dei democratici che sotto quella dei repubblicani, che stanno portando avanti con convinzione azioni e misure di contenimento dei gas serra. Come ha comunicato Al Gore, nel suo discorso a Bali, «metà degli Stati americani, 700 città, 150 grandi aziende e la maggior parte dei candidati alla presidenza vogliono impegni vincolanti contro le emissioni serra».
Anche Terminator non ha perso l'occasione, non priva di interessi, di farsi paladino. La California di Schwarzenegger, infatti, a capo di altri 14 Stati federali, ha aperto un'azione legale nei confronti del governo centrale perché, in mancanza di leggi e provvedimenti di Washington, gli Stati possano avere carta bianca nel decidere come condurre la battaglia al surriscaldamento, imponendo i limiti che ritengono opportuni alle emissioni di inquinanti serra.

Borse ed economia: il sole all'orizzonte
La dipendenza della politica dall'economia non è cosa di cui ci si libera facilmente. Anche la sottoscrizione da parte dei "paesi in via sviluppo" del documento di Bali non è estranea a questo meccanismo. Sicuramente gli aiuti economici prospettati dall'Europa e dagli altri "paesi sviluppati" ed il promesso trasferimento delle tecnologie atte a ridurre le emissioni ed a produrre energia da fonti rinnovabili costituiscono un boccone ricco ed appetibile per molti paesi e, pur non essendone l'unico motore, hanno contribuito notevolmente alla decisione di aderire alla Bali roadmap.
C'è da dire che per certi versi l'economia oggi sta rispondendo inaspettatamente bene, anche se con ritardo eccessivo, al problema climatico ed energetico. Paradossalmente quindi, sembra possa essere proprio l'economia a scardinare alcuni vecchi interessi, soprattutto quelli legati allo sfruttamento del petrolio e dei suoi derivati, che hanno tenuto (e tuttora in parte tengono) sotto scacco la politica del mondo. Vediamo anche in questo settore di leggere alcuni segnali, a mio parere confortanti.
Dal 2006 il panorama americano si è arricchito di un indice specifico il "Nasdaq Clean Edge" per misurare le performance delle compagnie che producono, sviluppano, distribuiscono e installano le nuove tecnologie in grado di produrre energia pulita. Un riconoscimento ufficiale e non da poco da parte del "Ghota" delle borse mondiali del peso economico emergente del settore.
Ad un solo anno di distanza, nel 2007 che si è appena concluso, l'indice si è piazzato largamente al primo posto tra gli indici statunitensi registrando un rialzo del 66,67% (basti pensare come termine di paragone che il Nasdaq Composite Index ha registrato una performance positiva del 9,81%). Un successo guidato dalla First Solar, azienda del Colorado che produce pannelli solari a basso costo, che a inizio 2007 era quotata intorno ai 25-28 dollari ed è oggi intorno ai 250, ovvero ha decuplicato in un anno la sua valutazione (il che corrisponde ad un rialzo record del 900%). Performance economiche di cui si fatica a trovare precedenti anche nei casi più eclatanti di boom delle tecnologie internet. Per esempio la rapida ascesa delle azioni di Google dalla loro quotazione in borsa le aveva viste triplicarsi in un anno, guadagnando il 200%. In Europa le due ditte più grandi che producono pannelli solari, le tedesche Q-cells e Solar World hanno guadagnato nel 2007 rispettivamente circa il 260% e il 160%, e sembrano avere ancora ampio margine di crescita, risultando tra i migliori investimenti sul mercato europeo.
Anche sul mercato cinese, l'emergente Trina Solar, presentatasi in borsa a dicembre del 2006 intorno ai 20 dollari, è salita molto rapidamente fino a maggio per attestarsi in seguito, dopo varie fluttuazioni, intorno ai 50 dollari (+150%).
Si può quindi constatare una certa omogeneità di risposta dei mercati mondiali che lascia ben sperare sugli investimenti futuri di risparmiatori grandi e piccoli nella direzione delle energie rinnovabili ed in particolare di quella solare.
Una recente intervista ha messo in luce inoltre come più della metà delle aziende europee più "energivore" guardi all'European Union Emission Trading Scheme (EU ETS) (1) come ad uno dei fattori primari che influenzano i loro investimenti e decisioni a lungo termine. Un'ulteriore indicazione che conferma l'interesse del mondo finanziario e produttivo a quanto accade in relazione al cambio del clima.

Cosa si può fare in pratica? E quanto costa?
Su un piano tecnico e pragmatico, una volta compresi meccanismi, segnali e conseguenze del cambiamento climatico in corso (cfr. Parchi n.51, pp.41-64) ed appurato che contenere le emissioni di CO2 e ridurre il conseguente surriscaldamento globale terreste è una necessità impellente, non resta che rispondere fondamentalmente a due quesiti: attraverso quali misure e con quali costi si può operare una tale riduzione? Una risposta chiara a queste due domande dovrebbe porre politici e decisori nella posizione di agire consapevolmente e rapidamente, senza ulteriori scuse o tentennamenti, se non quelli dovuti ad una irresponsabile superficialità o cattiva fede.
In primo luogo è bene ricordare che queste domande si possono porre su scale diverse, dando luogo a risposte diverse, che implicheranno la formulazione di strategie a loro volta differenti. Tuttavia la procedura ed i fattori da considerare per rispondere risultano molto simili che ci si stia occupando dell'intero pianeta, di un'unica nazione o anche solo del territorio di un ente parco. Proviamo qui a rispondere su scala globale ad entrambe le domande senza separarle, rimandando ad un prossimo intervento la trasposizione di tale analisi su scala locale. Mantenere unite le risposte ai due quesiti ci permette di non soffermarci a dibattere soluzioni oggi tecnicamente possibili, ma non sensate o attuabili dal punto di vista economico.
Un bilancio obiettivo della "convenienza" economica su scala globale dell'operare misure di contenimento dovrebbe tenere conto delle spese per rimediare alle catastrofi ambientali che è lecito supporre si sarebbero verificate senza tali azioni.
Purtroppo però la valutazione di questo fattore di spesa è estremamente difficile, se non impossibile allo stato attuale, per diverse ragioni. In primis la globalità del problema del surriscaldamento non permette di associare localmente il vantaggio di un provvedimento con il conseguente comportamento climatico, per cui ciò è realizzabile solo in un ottica davvero planetaria, ancora molto lontana dai nostri modi di pensare, agire e calcolare. In secondo luogo è estremamente difficile e complesso fare previsioni in merito a entità, tempi e luoghi degli eventi catastrofici. Inoltre ancor più complesso e difficile è stimarne il danno economico, che dipende non solo da entità, localizzazione geografica e momento temporale, ma anche da una serie di conseguenze e ricadute politiche e sociali assolutamente imprevedibili.
Un autorevole rapporto elaborato nel 2006 per il governo britannico prevede che una completa "non azione" nei prossimi 10 anni per il contenimento delle emissioni produca più di 200 milioni di profughi, e un danno economico valutabile in quasi 4000 miliardi di sterline. Cifra apocalittica che dovrebbe quanto meno far riflettere, ma di cui è sinceramente difficile "pesare" l'attendibilità.
Una situazione questa che testimonia, così come innumerevoli altre, che nella nostra realtà ordinaria non tutto è misurabile, per cui le decisioni non possono e non devono essere sempre tutelate o giustificate dai numeri (altrimenti il mondo sarebbe meglio lasciarlo in mano alle macchine che sotto questo punto di vista risultano molto più affidabili di noi).
Volendo proseguire nel compito di delineare una valutazione economica attendibile delle misure da adottare dovremo limitarci ad un calcolo molto più parziale, senza dimenticare che tale stima è largamente "per difetto" poiché non tiene conto del fattore niente affatto trascurabile: "disastri risparmiati".
Per stilare un bilancio della singola misura possiamo allora prendere il costo per metterla in atto, sottrarre i vantaggi economici diretti che si ottengono attuandola (per esempio in termini di risparmio energetico) e dividere il tutto per il numero di tonnellate di CO2 che evitiamo di immettere nell'atmosfera.
In tal modo otteniamo una stima di quanto costa evitare l'emissione in atmosfera di una tonnellata di CO2 con la specifica misura in esame. Pare evidente che, se i vantaggi economici diretti di attivare la misura sono molto significativi, il valore ottenuto potrà essere anche negativo: ciò significa che operando in tal modo, non solo evitiamo l'emissione di CO2, ma risparmiamo anche denaro.
Il calcolo, tutt'altro che semplice per i diversi fattori da valutare (2), è stato presentato su scala mondiale in uno studio pubblicato nel 2007 da un gruppo di ricercatori (3) della McKinsey, celebre ditta di consulenza americana. Il risultato si può apprezzare in forma estremamente sintetica e semplificata nella Fig.2, che è ricca di informazioni.
Ogni parallelepipedo, infatti, corrisponde ad un intervento specifico (per esempio "l'isolamento degli edifici"): l'altezza rappresenta la stima -calcolata secondo quanto accennato precedentemente- del costo annuo di abbattimento (4) misurato in Euro per tonnellata di CO2 equivalente (Euro/tCO2e), e la base il "potenziale di abbattimento annuo" (5) da qui al 2030 misurato in gigatonnellate di CO2 equivalente (GtCO2e). L'area del parallelepipedo, intesa come prodotto dei suoi lati, corrisponde quindi alla spesa totale per realizzare l'intervento in tutto il suo potenziale (nel caso in cui il prodotto risulti negativo, si tratterà come già accennato non di una spesa, bensì di un risparmio).
Pare evidente e stupefacente come un buon numero di misure risulterebbero consistenti sul piano dell'abbattimento delle emissioni e convenienti su quello economico. Sono sostanzialmente quelle legate al risparmio energetico: isolamento degli edifici, miglioramento dell'efficienza di utilizzo dei carburanti nei veicoli commerciali e non, sistemi di illuminazione, riscaldamento dell'acqua e condizionamento.
Salendo di costo, troviamo alcune tecnologie per la produzione di energia (nucleare, eolica, biomasse, etc…), una serie di misure per migliorare l'efficienza dei processi industriali, le quote derivanti dalle tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS – "Carbon Capture and Storage"), ma soprattutto un grande potenziale di abbattimento legato alla protezione delle foreste tropicali, alla sospensione della deforestazione e ad azioni mirate di riforestazione.
Un dato, questo, particolarmente significativo. Se infatti consideriamo il potenziale di abbattimento annuale per settori, vediamo che con una corretta gestione forestale possiamo risparmiare ogni anno fino a di 6,7 GtCO2e, ovvero più di quanto non si possa fare sia con misure di efficienza e CCS nei processi industriali (6,0 GtCO2e), che con nuovi meccanismi di produzione energetica (5,9 GtCO2e).
Una situazione che pone in particolare risalto il ruolo delle aree protette su scala planetaria per arginare il problema del "global warming".
Un ruolo diretto di azione sul territorio, ma anche politico nel far rilevare e riconoscere l'entità del contributo forestale al contenimento delle emissioni, dal momento che la politica nazionale ed internazionale resta maggiormente concentrata su produzione industriale ed energetica. L'analisi proposta in Fig.2 fornisce ancora alcune informazioni interessanti rispetto alle soglie necessarie di abbattimento della CO2 in rapporto agli scenari che vedono la stabilizzazione della sua concentrazione in atmosfera rispettivamente a valori di 400, 450 e 500 ppm (cfr. Parchi n.51, pp.52-53).
In particolare, la figura mostra come sia possibile raggiungere la quota necessaria di abbattimento di 26,7 GtCO2e prevista dallo scenario di stabilizzazione a 450 ppm, soltanto tramite misure che non costino più di 40 Euro/tCO2e. Inoltre, la spesa media complessiva per attuare tutte le misure in Fig.2 sarà prossima a zero, come si deduce visivamente dal fatto che le due aree al di sopra e al di sotto della linea dello zero siano quasi equivalenti. E' naturale chiedersi allora, per quale motivo non si agisca immediatamente, per lo meno dando il via a quelle misure che presuppongono un vantaggio sia per il clima che per il portafoglio. La risposta è complessa ed ha più di una ragione. In parte deriva da fattori di tempo e disponibilità economica: talvolta mancano le capacità di investimento nell'immediato, dal momento che la spesa si recupera solo in un secondo tempo attraverso un successivo risparmio. In parte deriva dalla "distribuzione" dei costi: se chi "spende" non è anche più che compartecipe dei "benefici", evidentemente non lo fa.
Queste osservazioni sono valide sia che si parli di nazioni, che di fasce sociali, di gruppi di interesse, o anche solo di singoli individui.
In parte ancora la causa è un'immobilità politica volta a tutelare interessi differenti, oppure una profonda ignoranza e incapacità di previsione, e molto altro ancora.
Altro dato da rilevare è che tre quarti del potenziale di abbattimento deriva da misure indipendenti dalla tecnologia oppure legate a tecnologie consolidate, e non è da imputarsi alle nuove frontiere della ricerca ed a loro sviluppi futuri. Ciò è in parte dovuto alla volontà di prendere in considerazione solo misure il cui costo sia inferiore alla soglia stabilita. Tuttavia tale constatazione conferma la possibilità concreta dal punto di vista "tecnico" di agire nell'immediato.
E' anche da rimarcare come il ruolo dei paesi in via di sviluppo risulti cruciale per una serie di motivazioni: la loro grande popolazione, la concentrazione nella fascia tropicale delle grandi foreste e la possibilità di abbattere più facilmente le emissioni avviando nuove attività, piuttosto che riconvertendo situazioni già esistenti.
Analizzando il potenziale di abbattimento delle emissioni per grandi comparti territoriali troviamo infatti che delle 26,7 GtCO2e sopra menzionate, l'"Europa dell'Ovest" (6) rappresenta appena il 9,4% (con 2,5 GtCO2e) e quella "dell'Est" il 6,0% (1,6 GtCO2e), gli Stati Uniti una quota più alta intorno al 16,5%, ma sono superati dalla Cina con il 17,2%. Se consideriamo ora i paesi rimanenti, "stravincono" quelli "in via di sviluppo" il cui contributo assomma al 41,6%, contro appena il 9,3% per i rimanenti "sviluppati". Una seria di cifre che danno maggior rilievo al risultato di Bali per aver coinvolto nella battaglia contro il clima per la prima volta proprio i paesi il cui potenziale è maggiore.

Nucleare, solare e biodisel: il buon senso oltre i numeri
Quello di Enkvist, Nauclér e Rosander è uno dei possibili approcci economici per analizzare la situazione ed ottenere indicazioni preziose per decidere le misure da attuare. Tuttavia è essenziale non accettare per buone in modo scontato e semplicistico le indicazioni che derivano solo da questo tipo di valutazione economica. Sarà invece necessario considerare ogni singolo settore d'intervento anche sotto altri profili, ad esempio sociali e ambientali che non necessariamente sono tenuti in conto dal suddetto sistema. Alcuni esempi significativi in tal senso si ottengono considerando due settori di produzione dell'energia (nucleare e solare) e la produzione di bio-carburanti.
Nello studio della McKinsey il nucleare risulta un ottimo investimento, perché effettivamente i reattori sono oggi forse più sicuri e meno costosi e permettono di produrre un elevato quantitativo di energia.
Sarà questa forse una delle basi su cui si è costruita la posizione dell'amministrazione Bush che ha già più volte fatto riferimento al rilancio del nucleare negli Stati Uniti, quando è dagli anni '70 che in America non si costruiscono nuove centrali.
Parlando di nucleare vi sono, però, altri fattori da prendere in considerazione, alcuni dei quali non economicamente valutabili, altri forse semplicemente trascurati dallo studio in questione.
In primis due problemi irrisolti: la sicurezza e lo smaltimento delle scorie.
Sulla sicurezza, che molti oggi sembrano sentirsi in grado di garantire, è più che lecito conoscendo il meccanismo di funzionamento dei reattori a fissione sollevare grandi dubbi, specie pensando che ci aspetta un periodo climatico caratterizzato da alcuni eventi atmosferici catastrofici in grado di creare smottamenti, inondazioni, etc...
Resta poi completamente irrisolto il problema dello smaltimento delle scorie che hanno tempi di decadimento comparabili con migliaia di generazioni della nostra specie e costituiscono, ovunque vengano "nascosti", una minaccia per la salute di ogni essere vivente che vi si avvicini.
Ma i problemi connessi con il nucleare sono anche la produzione massiccia e puntuale di energia e la scarsa modulabilità dei ritmi di produzione. Concentrare puntualmente una grande produzione di energia rende infatti necessario il suo trasporto per lunghi tratti, e comporta, quindi, infrastrutture impattanti e grandi dispersioni che minano alla base l'efficienza totale del sistema.
Il lavoro in continuo dei reattori fa sì invece che siano scarse le possibilità di "regolare" i ritmi di produzione su quelli di consumo, rischiando di avere surplus energetici non utilizzati e di incentivare sistemi molto "energivori" per consumare tali eccedenze (ne è esempio la situazione francese, dove per questo motivo il riscaldamento di molte case è elettrico: un sistema a bassa efficienza ambientale).
Tali considerazioni mi pare rendano evidenti i motivi per cui un rilancio del nucleare a fissione sia oggi una scelta decisamente non auspicabile.
Ben diverso sarebbe sviluppare piccoli reattori a fusione, ma purtroppo tale direzione non ha mai goduto dell'attenzione politica e finanziaria adeguata ed oggi, del vecchio e promettente Progetto Ignitor impostato fin dal 1975 all'MIT dal fisico italiano Bruno Coppi, quasi più nessuno si ricorda.
Consideriamo ora "il solare". Esso praticamente non compare in Fig.2, probabilmente per il fatto che la quota con costo di abbattimento inferiore alla soglia stabilita non è significativa, anche se gli autori non si prendono la briga di specificarne le ragioni, né di affrontare la questione.
Resta il fatto innegabile che sulla Terra, a parte l'uomo, tutti gli altri esseri viventi utilizzino direttamente o indirettamente solo l'energia del sole di cui disponiamo in grande abbondanza. Inoltre, come abbiamo visto nel numero scorso (cfr. Parchi n.51, p.62-63), l'equipe di Nathan Lewis del Caltech ha dimostrato che, con le attuali capacità di rendimento, basterebbe appena lo 0,16% della superficie terrestre a pannelli solari per produrre una quantità totale di energia doppia rispetto a quella prodotta complessivamente oggi.
Il sole è anche la fonte "locale" per eccellenza, dal momento che i suoi raggi raggiungono ogni parte del pianeta e quindi il suo utilizzo minimizza infrastrutture per il trasporto e relative dispersioni.
I segnali positivi registrati da tutte le borse del mondo verso le tecnologie solari fanno poi presupporre nei prossimi anni un loro ulteriore sviluppo ed una relativa sensibile riduzione del costo diretto dei pannelli. Un cambiamento che renderà tale soluzione appetibile e competitiva anche per le piccole installazioni private.
Tutto ciò mostra come il solare abbia tutte le carte in regola per essere una delle chiavi risolutive del problema energetico e dei gas serra, per cui va tenuto indubbiamente in considerazione. E' quanto pensa anche il decano dell'ecologia americana, Barry Commoner, che intervistato in occasione della conferenza di Bali ha detto: «senza la rivoluzione solare nessuna conferenza riuscirà a raggiungere il suo risultato».
La produzione di biocarburanti pone problemi ancora più complessi di carattere economico, sociale e ambientale che il lavoro di Enkvist, Nauclér e Rosander, non prendono in considerazione, segnalandola come una delle migliori opportunità da intraprendere. L'appetibilità del mais e delle altre colture (girasole, canna da zucchero, etc…) per produrre carburanti ha comportato diverse articolate conseguenze. Ha fatto aumentare sul mercato di molti paesi del mondo il costo del granoturco e di tutti i suoi derivati diretti e indiretti (olio, farina, lecitina, lievito, mangimi per il bestiame, etc…) facendo levitare molti prezzi di prodotti alimentari di base e rinvigorendo in vaste aree lo spettro della fame.
Molti produttori, poi, attratti da facili profitti stanno riconvertendo le loro coltivazioni; il che determina una forte destabilizzazione economica di tutto il settore agricolo. Ne è un esempio la crescita del prezzo del grano in tutta Europa. Un fenomeno che ha toccato anche la pasta italiana che, come ha denunciato l'Unipi (Unione dei produttori italiani di pasta), ha visto nel 2007 salire notevolmente il suo prezzo.
Proprio per queste ragioni l'Unione Europea ha fatto recentemente un passo indietro rispetto all'obiettivo di sostituire il 20% dei carburanti convenzionali con quelli biologici. Ha dichiarato in merito il Commissario Europeo per l'Ambiente, Stavros Dimas: «Abbiamo visto che i problemi ambientali e sociali causati dal boom di produzione del biofuel sono più gravi di quanto supponessimo. Per questo è necessario affrontare la questione con cautela. Dobbiamo adottare criteri di sostenibilità ambientale e giustizia sociale».
La ricerca di nuove estensioni coltivabili per produrre carburanti dà anche impulso alla deforestazione di nuove aree delle foreste pluviali, andando quindi a contrastare un fattore che abbiamo visto essere determinante per il contenimento della CO2.
Senza contare il fatto, come fa osservare saggiamente il presidente di Slowfood Carlo Petrini, che la conversione di grandi estensioni di coltivi accelera quel processo di omologazione dell'agricoltura che impoverisce i suoli e determina la scomparsa di molte varietà vegetali che, con fatica, si cerca di tutelare.
In pratica il buon senso rimane l'ingrediente più importante.

Contesti locali e conclusioni
Irriverente o irrealizzabile l'idea di celebrare un matrimonio a tre che vede protagonisti l'economia, single impenitente ed egoista, la politica, vecchia meretrice in crisi, e il cambio del clima, giovane problematica di carattere ambientale?
Pare proprio di no. Molti segnali sembrano segnalare che i tempi sono maturi per questo sposalizio, da cui ci attendiamo un futuro carico di nuovi stimoli, nuove speranze e nuove energie. E chissà che tale unione non possa inaugurarsi in piccolo e a carattere dimostrativo proprio in quei luoghi privilegiati di tutela e sperimentazione che sono le aree protette. In tal senso, nonostante quanto è stato messo in evidenza nel paragrafo precedente, il lavoro della McKinsey resta un punto di riferimento utile e interessante che dimostra la possibilità di valutare fattibilità e costi delle diverse misure per contenere le emissioni di CO2.
La metodologia utilizzata, infatti, con un po' di buona volontà può essere adattata anche a situazioni locali, interessando particolarmente le aree protette che per sensibilità, compiti e filosofia sono in prima linea per contenere le conseguenze dei cambiamenti climatici. Sarà necessario disporre di alcuni dati statistici di base, e limitare l'indagine ai settori significativi e governabili a livello locale, ma lo sviluppo di un tale calcolo potrà fornire preziose valutazioni di "costi-benefici", rivelandosi talvolta carta vincente per ottenere adeguata attenzione politica ed opportuni finanziamenti.

Giulio Caresio

(1) Ricordiamo che l'EU ETS è il più grande sistema internazionale di commercio di quote di emissione di gas serra approntato dall'Unione Europea in relazione al Protocollo di Kyoto (cfr. http://www.climatecorp.com).
(2) Come base per lo studio qui esposto sono state utilizzate le proiezioni per la crescita economica –paradigma "business as usual"– formulate da International Energy Agency (IEA) e da US Enviornmental Protection Agency (EPA).
(3) Per-Anders Enkvist, Tomas Nauclér and Jerker Rosander
(4) Per esempio il costo di abbattimento dato dallo sviluppo dell'energia eolica è da intendersi come il costo addizionale di produzione dell'energia rispetto al più economico sistema di produzione energetica da combustibili fossili.
(5) Ovvero la possibilità effettiva di abbattimento con la specifica misura, dettata dalle condizioni reali e in rispetto di una soglia massima di spesa fissata in 40 Euro/tCo2e.
(6) Ovvero EU25 più Islanda, Norvegia, Turchia e Svizzera