Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 11 - FEBBRAIO 1994


Le aree protette: uno o tanti ruoli?
Ippolito Ostellino*

A vent'anni dalla fioritura della politica di protezione dell'ambiente attraverso le aree protette dobbiamo porci una serie di domande sul loro, significato e, per così dire, sullo stato dell'arte. L'attuale stretta economica ed istituzionale nella quale ci troviamo suggerisce a molti di noi di volgere lo sguardo all'indietro, non per cedere alle difficoltà che sempre più si frappongono all'agire politico e culturale, ma piuttosto per capire quanto è stato fatto, cercando di scorgere i motivi più profondi e le reali motivazioni che hanno spinto a realizzare una serie di iniziative di protezione del territorio.
In primo luogo l'esperienza delle aree protette ha rappresentato il tavolo di laboratorio sul quale sono state sperimentate una serie di azioni sul territorio che hanno lasciato ancora insoluti alcuni nodi di base che riguardano:

  • le tipologie d'azione da progettare per salvaguardare il territorio
  • il valore del suo recupero e del suo uso equilibrato.
    Se infatti tentiamo un bilancio qualitativo dell'esperienza fatta ci accorgiamo che le aree protette hanno ancora di fronte a loro due nodi di fondo:
  • il loro ruolo istituzionale non ancora definito, che si accompagna con la mancanza di una loro azione gestionale realmente efficace
  • la mancata soluzione dei loro problemi di integrazione con il territorio nel quale sono nate su proposta di organismi centrali ed in disaccordo con gli Enti locali (tendenza parzialmente in modificazione in questi ultimi anni ma non per cause interne).
    In secondo luogo tali difficoltà sono oggi analizzate con studi di settore, d'origine sociologica ed antropologica, che non possiamo considerare marginali, in quanto basati proprio sulla verifica delle difficoltà accennate più sopra.
    Il caso più emblematico è quello del professor
    Osti che con le sue indagini nei territori protetti ha aperto una serie di considerazioni dando significato metodologico e quindi analitico al problema, presupposto fondamentale per iniziare a percorrere la via della ricerca di una sintesi nuova dalla quale poter ripartire. Non credo proprio che l'interessamento sociologico debba essere letto come un tentativo d'esercizio intellettualistico, tutto sommato estraneo al nostro tema. Anzi, la verifica di una serie di problemi irrisolti invece di essere affrontata con l'attesa di una utopica ripresa generale, deve spronare alla ricerca di tutti i terreni possibili in grado di fare più luce. Credo che da queste nuove ricerche stia conseguendo che il valore dell'istituzione parco ed il suo ruolo istituzionale sono due aspetti per essa focali; ma se i problemi sono di tale natura allora la loro mancata soluzione deve avere:
  • una origine lontana, di carattere culturale ed etico, che deve essere ricercata nella radice comune che i parchi hanno con il problema dell' ambiente nel nostro Paese
  • una causa recente, di carattere operativo e politico, legata al modo di operare di coloro che per professione o per fede culturale oggi sostengono tale politica del territorio.

Il subconscio del parco
Perché un'origine lontana. Se proviamo a seguire un percorso parallelo pensando ai temi dell'ambiente più generali, scopriamo che anche per questi le difficoltà sono da ricondursi a problematiche di base e di tipo culturale. Esiste un ruolo istituzionale che abbia saputo affrontare con decisione i problemi dell'ambiente? Esiste una integrazione fra i comportamenti individuali rispettosi dell'ambiente ed il senso comune dei cittadini delle grandi città?
Spesso si dimentica che l'azione sull'ambiente è lungi da avere un carattere consolidato, soprattutto se pensiamo che in Italia il Ministero dell'ambiente nasce nel 1986, che la legge-quadro delle aree protette nasce nel 1991, che la politica delle aree protette regionali in larga scala nasce nel 1980.Diviene quindi immediato pensare come sia possibile che nel solo volgere di 10 anni una azione complessa di gestione del territorio abbia avuto il tempo materiale di formarsi ed irrobustirsi. Non si deve poi dimenticare anche che in questo decennio sono stati lanciati tanti segnali da chi non crede nel valore del territorio. La giovinezza dell' istituzione pare quindi assomigliare di più ad una infanzia terribilmente difficile che ad un normale processo di crescita.
Scopriamo quindi che esistono delle dinamiche culturali e sociali profonde che regolano l'efficacia della politica ambientale, che si intrecciano con il significato che il senso comune attribuisce alla natura.
Ma se guardiamo all'esperienza dell'esperimento parco, non leggiamo proprio questa problematica? Ecco allora nascere proprio nei parchi quel ruolo educativo e culturale che fu scritto nelle finalità istitutive di tutte le aree protette, ma che oggi, nell'esperienza quotidiana dei parchi, sta assumendo un significato concreto di azione che deve essere intesa in tutto il suo significato. Quando infatti parliamo di scuole che vanno nel parco non stiamo parlando di una esperienza fine a se stessa, ma spesso di un processo di apprendimento che ha fra i suoi passaggi il contatto con la natura, con un modello di territorio in cui l'elemento naturale, dominio dell'irrazionale e del selvaggio o dell'inatteso, predomina sul controllo dell'uomo sulla razionalità, sulla prevedibilità.
Questo processo è avviato dai parchi stessi che si sono accorti nella loro esperienza che le scuole, gli insegnanti, e spesso molti visitatori richiedono proprio anche questo tipo di approccio all'area protetta.
L'esperienza dei parchi ci sembra quindi suggerire che attraverso la legittimazione culturale del loro operato passa altresì il riconoscimento del valore etico della salvaguardia del territorio come presupposto di salute e benessere per noi e per chi ci seguirà.
E questo un terreno di approfondimento che necessita di ben altro spazio, ma che non deve essere lasciato in disparte, a mio modo di vedere, in quanto cardine sul quale si deve continuare a consolidare le basi dell'esperienza delle aree protette. Anche se non rappresenta certo un collante a presa rapida, la sua lenta solidificazione consente -e qui ne vedo il grande valore- di far di nuovo aderire la tradizione culturale e storica di tanti territori con il mondo di oggi, che è proprio alla ricerca di riferimenti culturali contraddistinti da un valore d'immanenza.

I problemi contingenti
E le sue cause recenti? Su queste vorrei soffermarmi più a lungo, anche perchè sono più immediate, e pertanto più vicine alle nostre possibilità di incidere realmente per la salvaguardia del territorio.

L'integrazione con la realtà locale
Il primo aspetto di cui abbiamo parlato era quello della mancata integrazione con la realtà locale, che si può affemmare solamente in presenza di un gruppo locale che crea consenso verso l'azione del parco. Qui è necessario premettere che la situazione territoriale è nettamente differente fra realtà di pianura e montano-collinare. In pianura esiste un ceto che sostiene l'idea del parco, ovvero esiste una classe che ritiene giusto destinare una parte del territorio a "mausoleo" della natura. Questo atteggiamento deriva dalla provenienza e dalle condizioni socio-economiche di tale classe, che trae origine dai grandi centri urbani, nei quali la divisione fra naturale e sociale è netta, e dalle quali si considera necessario partire per costruire al loro intemo una fascia di rispetto, di verde, eletta a terreno di ricreazione.
In montagna o nelle aree abbandonate, come in ambienti collinari, ciò non accade, essendo mancanti i centri urbani e le problematiche collegate già ricordate.
Ora, questa fase di difficile integrazione si dovrebbe superare in quanto si stanno verificando due processi, che sono completamente nuovi.
Il primo, di carattere passivo, riguarda il ritomo di un ruolo importante della provincia, che si accompagna ad un trasferimento ormai sensibile di popolazione dalle città alla campagna od alla bassa montagna, essendo ormai cambiate le dina-
miche e gli interessi dei cittadini, che non sono più disposti, per dirla in una battuta, a mettere a repentaglio la loro salute per poter andare al cinema di prima visione che hanno sotto casa appena ne hanno voglia. A questo trasferimento fisico si sta però accompagnando uno di tipo culturale, in quanto la nuova mentalità di chi lascia la città non è quella del concepire la natura come oggetto intoccabile, ma al contrario come un soggetto da rispettare funzionalmente alle proprie esigenze.
Il secondo, di carattere invece attivo, riguarda l'azione di cambiamento dell'idea di parco che si sta facendo strada fra gli addetti ai lavori e fra l'opinione pubblica più attenta a questi argomenti, che si può riassumere nel passaggio dal modello "mausoleo" al modello di "comunità", ovvero da territorio statico a territorio dinamico di un'area protetta.
Il risultato di queste due tendenze in atto è che da un lato si sta creando una base sociale nuova di consenso, costituita da cittadini che affidano un significato importante al rispetto della natura, mentre dall'altro, in contemporanea, l'idea del parco muta, incontrando questa volta una coincidenza di interessi con i nuovi cittadini e quindi anche con le comunità che da sempre risiedono ai confini o all'interno delle aree protette.
In tale processo diviene fondamentale che le associazioni ambientaliste comprendano il significato di una dinamica di tale tipo. La cultura ortodossa dell'ambientalismo deve quindi aggiornare le proprie visioni, riconoscendo un ruolo positivo alla componente antropica del territorio, ovvero a quei tessuti sociali che si intrecciano con quelli naturali in un territorio protetto, dedicandogli insomma più tempo e più attenzione.

La dinamica istituzionale
La seconda problematica con cui ci si scontra quotidianamente, e che ha le sue radici nella legislazione degli ultimi 20 anni in tema di parchi, è quella del ruolo giuridico-istituzionale dell'ente parco che non ha ancora assunto un significato consolidato.
Anche qui la realtà si sdoppia in due situazioni ben differenti fra di loro: quella delle Regioni e quella dello Stato.
Nelle Regioni le leggi hanno spostato l'asse della gestione sempre più verso enti di carattere autonomo, eliminando quelle gestioni delegate a Comunità Montane o Comuni che difficilmente brillavano per la loro efficienza. Tuttavia il modello individuato è stato quello dell'Ente strumentale, ovvero di una istituzione che rappresenta il braccio diretto della Regione sul territorio, pur essendo costituito da organi con rappresentanti delle comunità locali.
Con il recente riordino delle autonomie locali, che in teoria ha corrisposto sostanzialmente ad un maggiore riconoscimento, per ora formale, dei loro ruoli, anche le istituzioni come i parchi sono state uniformate, solamente a tratti, alla legislazione operante in materia, meglio conosciuta come legge 142. Si è così realizzata una situazione classicamente italiana, dove la legislazione si sedimenta su se stessa, portando raramente alla razionalizzazione della dottrina precedente. I parchi, pur non essendo enti locali, lo sono in parte divenuti, sottostando a norme valide per questi ultimi.
Il problema nasce nel momento in cui si scopre che i parchi hanno solo alcuni elementi degli enti locali, senza aveme giammai i poteri e le competenze. Ecco che così si è di fronte ad un organo nella sostanza derivante da una istituzione programmatoria, quale è la Regione, con compiti che spesso sono di carattere gestionale.
Qualche cosa di nuovo ci si aspettava dalla legislazione quadro nazionale in materia che avrebbe dovuto dare un ruolo più specifico a queste creature delle Regioni. Spesso si nota invece che le previsioni relative agli enti di gestione dei parchi regionali assomigliano a frettolosi adattamenti delle norme previste per i parchi di carattere nazionale, guarda caso avendone raramente i benefici.
Per quanto riguarda lo Stato le cose potranno andare un pò meglio con l'entrata in vigore della legge-quadro, anche se la miriade di competenze affidate al parco nazionale rischiano di mettere questa figura in grave difficoltà, soprattutto laddove non si prevede la struttura gestionale di personale idonea per gestire una tale moltitudine di settori d'attività.
In sostanza l'ente di gestione di un'area protetta
può svolgere la sua azione solamente se è messo in grado, tramite adeguati poteri riconosciuti, di far valere le proprie ragioni, dovendo mediare in modo particolare fra le esigenze di una miriade di componenti territoriali sia naturali che antropiche. In caso contrario è sufficiente affidare tale compito ad appositi consorzi pubblici-privati che devono seguire precisi piani di gestione e programmazione del territorio, nei quali ogni elemento istituzionale mette a disposizione le proprie competenze che continueranno a rimanere tali. Tale metodo è però alquanto di difficile applicazione, almeno nell'immediato, e pertanto si rende necessario dare un ruolo più preciso all'ente di gestione.
Questo aspetto, si badi bene, non ha un valore solamente di carattere statutario, ma porta con sé una serie di conseguenze fondamentali, fra le quali cito un caso ad esempio: la vigilanza.
Il ruolo della vigilanza dei parchi è assolutamente sottodimensionato alle loro reali funzioni, essendo rappresentati da corpi di polizia giudiziaria, estraniati in tutto o in parte dall'applicazione delle norme statali in diverse materie, quali il controllo della viabilità e delle attività venatorie. Ciò deriva dalla collocazione della vigilanza all'interno di enti di carattere strumentale alla pianificazione regionale.
In sostanza dalle due considerazioni prima svolte il parco deve riuscire ad adeguare:
- la propria visione gestionale del territorio accettando la propria componente mista di territorio contenitore di valori sacri della natura e di valori sociali della stessa, nel quale il ruolo dell'uomo ha un significato pari a quello delle altre componenti;
- il ruolo nei confronti della propria immagine giuridica, equilibrio senza il quale è impossibile immaginare una possibilità di futuro.
A questi due obiettivi ritengo utile aggiungere che nuova strada è possibile percorrere anche se si continuerà sul fronte culturale prima accennato, che si potrà approfondire in altra occasione, e se si saprà cogliere in positivo quanto la nuova legge-quadro ha definito in tale materia. Le leggi sono certo solo sulla carta, ma sostenuti dalle idee scritte è possibile affermare nei fatti idee e modi di concepire l'azione sociale, ed in questo caso ambientale.

Un pensiero per chiudere
Certo il parco rischia di essere diviso nel suo operare fra il suo ruolo culturale e quello gestionale, fra la specializzazione e la globalità. Ma non è altro che il problema che si crea sui tavoli di laboratorio, dove nel piccolo ed in poco spazio si alternano eventi e fatti che non sono altro che parti di più grandi processi, la cui scoperta apre nuove prospettive d'azione, che potranno sempre crescere a condizione che i laboratori e la voglia di sapere siano nelle condizioni di continuare la loro indispensabile opera.
La nostra attuale situazione è purtroppo caratterizzata dalla mancanza di un terreno esterno al laboratorio dove dare corso reale ad una serie di esperienze maturate nel parco. Le difficoltà delle aree protette sono quindi insite nel loro isolamento, nell'averle messe in condizione di operare in condizioni anomale. E quindi soprattutto il modo di operare che governa all'esterno delle aree protette che deve cambiare, e non solo quello che regola l'interno del parco.

* Direttore Parco Alta Val Pesio