Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 14 - FEBBRAIO 1995


Aspetti etici, falsi miti e problemi reali della caccia in Italia e della gestione faunistica nei parchi
Franco Perco *

La caccia è uno degli aspetti possibili della gestione faunistica, intendendo per "gestione faunistica" quanto viene espresso dall'efficace termine inglese "Wildlife Management". Secondo Giles ( 1979), la gestione faunistica è "la scienza, la tecnica e l'arte di prendere delle decisioni e di agire per manipolare la struttura, la dinamica e i rapporti di popolazioni animali, ambiente e uomini, per raggiungere obiettivi umani specifici per mezzo delle risorse fornite dagli animali selvatici".
In questo quadro la caccia rappresenta una delle opzioni possibili. La finalità venatoria è sicuramente da collocare fra quelle ricreative oggi, almeno in Europa. La sua evoluzione culturale solo l'Uomo "caccia" in senso stretto - è avvenuta con l'evoluzione delle società umane, tanto che le prime testimonianze a questo proposito sono testimonianze di caccia.
Ma non bastano le "nobili" e sicure origini per giustificare il protrarsi di questa attività. La caccia dei primitivi era economica vera e propria e più che di legame è bene parlare di identità: si caccia per mangiare, per coprirsi. Con una sua propria produzione culturale, dovuta anche agli aspetti sociali connessi alle attività di procacciarsi il cibo.
In senso moderno la caccia è altra cosa, anche quando essa mantiene profonde connessioni con la società e le tradizioni, sia di quelle più ritualizzate e "colte" (le germaniche, per esempio) che di quelle più semplici, prive di riferimenti "dotti" (in Italia, le centro-italiche e le alpine).
Una buona definizione di cosa si intenda per caccia oggi è la seguente: (la caccia è) "una forma di gestione della fauna selvatica basata su tradizioni e costumi rurali e/o nobiliari ma con presupposti tecnici fondati sulla biologia delle specie cacciate ed esercitata per finalità ricreative, quindi con regole e tecniche sue proprie ("sportive") pur avendo notevoli ricadute (anche non desiderabili) di tipo economico, socio-culturale ed ecologico".
Per completare il quadro, va ribadito che la caccia non è la forma più importante di gestione faunistica. La finalità ricreativa sua propria la avvicina alla gestione faunistica fatta per motivi "turistici". Il Birdwatching, l'osservazione dei grandi mammiferi sono gestioni con finalità ricreative.
Né va dimenticato che le finalità economiche sono pur sempre presenti (animali da carne, animali da pelliccia, eccetera) anche nelle forme meno evidenti quali quelle di "evitare i danni alle attività produttive".
La storia della caccia e i nostri rapporti con gli animali hanno poi generato altre situazioni in cui si potrebbe parlare di finalità (prevalenti) di tipo "storico-culturale". Certe forme di caccia sono buoni esempi di come nel loro esercizio prevalga oggi la tradizione e non altro, sia nel senso "nobiliare" (le cacce a cavallo) che locale (la caccia "simbolica" al Beluga nell'estuario del S. Lorenzo). Anche la corrida, certe forme di esposizione tradizionale e i circhi, al limite anche i rodeos, sono - senza entrare nel merito - forme socio-culturali di gestione della fauna (selvatica e "brada").
Esiste poi, ed è questa la grande novità del ventesimo secolo, la gestione "conservativa". Qui, la finalità (è sempre bene parlare di finalità prevalente o principale) è di mantenere un ecosistema ad un determinato equilibrio, con particolare riguardo agli interventi faunistici da effettuare. O anche alle attività umane da controllare, indirizzare, vietare, agli ambienti da ripristinare eccetera. Da ultima, la gestione scientifica, nelle sue classiche due suddivisioni: la ricerca e la conservazione dei reperti (musei).
Ma non basta. A partire dagli anni ottanta in Italia, e altrove almeno un decennio prima, si è fatta strada una finalità ben diversa: "la gestione etica della fauna". Posto che gli animali (e anche i selvatici) non dovrebbero essere utilizzati per fini umani - (cfr. Singer 1989, Regan 1990), il movimento animalista è giunto sino a porsi persino il problema se un atto pianificatorio nei loro confronti - sia pure a fin di bene - non sia espressione di atteggiamenti umani sbagliati, quindi da rifiutare: la gestione "etica" della fauna (cfr. anche, ma con altri obiettivi, il "Progetto grande scimmia") deve tener conto dei diritti degli animali. E' evidente che, soprattutto nell'ultimo caso, la finalità venatoria, finalità ricreativa estrema, si può trovare a disagio. Non può infatti essere sottaciuto che la caccia viene praticata per "divertimento". Trarre piacere dalla morte di un organismo vivente non appare, agli occhi di molti, una bella cosa.
E' bene però non fermarsi alla apparenze. L'indiscutibile godimento che esiste nell'avventura venatoria non è tanto nella morte dell ' animale ma nel complesso delle attività, tanto che una caccia senza contorno (fatica, avventura, rituali, tecniche, eccetera) viene ritenuta dagli stessi appassionati una specie di massacro. Vi è per esempio un giudizio critico assai severo nei confronti di quelle forme "sportive" (definite aberranti) di abbattimento di selvatici liberati ad hoc, di norma alcune ore prima. La condanna dei "veri" cacciatori è in genere unanime anche se le conseguenze e l'atteggiamento pratico non mancano di doppiezza (ciò non è nuovo né paradossale, basta vedere cosa si pensa o si fa a proposito della prostituzione). Risolto il fatto che non è l'uccisione - che potrebbe essere semplificata e resa meno... faticosa - ad essere appagante ma l'avventura di caccia, pur certo con la morte alla fine, diremo che la caccia non è la sola in tutto ciò. Una prova? Il numero dei vegetariani.
Obiettivamente, chi mangia carne, lo fa per motivi gastronomici. Gli piace. E' vero che il buongustaio non uccide. Paga altri. Che lo faranno al suo posto. In termini "etici" - se il discorso deve essere questo - anche il gastronomo trae piacere dall'uccisione degli animali. Non lo uccide direttamente: è vero. Tuttavia è complice in un atto. E si potrebbe disquisire sulle responsabilità dei mandanti e degli esecutori, sull'ipocrisia più o meno latente del non vegetariano anti-caccia. Vale però la seguente considerazione. Un animale ha comunque diritto ad un trattamento non crudele (vorrei dire... "umano"). I cacciatori condividono questo principio. E, sia pure per motivi egoistici, tengono molto alla privacy della fauna cacciabile (non affronterò qui le complesse questioni se tali cacciatori siano pochi o tanti, minoranza significativa o irrisoria: chiediamo solo
uno sforzo di buon senso nell'interpretare quanto detto a proposito di categorie, queste ed altre, i cui componenti non sono clonati ma ben differenti!).
Dal punto di vista delle possibili scelte, un animale macellabile preferirebbe di gran lunga essere cacciato piuttosto che allevato. Un altro elemento a sfavore della gastronomia e della messa in schiavitù degli animali, per il nostro piacere. Tuttavia, non a favore della caccia.
Anche se in una graduatoria delle attività "immorali" nei confronti della fauna la caccia non sarebbe certo ai primi posti (la caccia, una sorta di predazione culturale, si avvicina all'ecosistema molto più dell'addomesticamento) resterebbe una pratica da eliminare in una società futura. Futura e perfetta. Anche possibile?
Tutto è possibile. E non ci priveremo del fascino dell'utopia. Un mondo di "onesti", di "puri", senza guerre, senza sopraffazioni, senza torture. O almeno, senza povertà. Questo è l'obiettivo per il quale noi, ogni giorno, ci impegnano (o dovremmo farlo). Ovviamente, con compromessi, aggiustamenti, piccoli passi: alla rivoluzione (personalmente) non crediamo più. C'è posto, in questa società futura, anche per una liberazione degli animali dai condizionamenti umani? Lo possiamo pensare, certo. Ma non sono, queste, ipotesi di poco conto, da liquidare in fretta.
Alcune considerazioni allora.
L'esistenza "civile" dell'uomo significa insediamenti ed energia. E comporta allora distruzione di ambienti naturali e di fauna. L'esistenza di una società umana presuppone la morte di altre società, quelle animali. Su base locale e ridotta, se si vuole. Ma senza eccezioni. L'elettricità e le materie plastiche: possiamo rinunciare ad esse, in una società del futuro, Oggi, pare di no.
Bisognerebbe essere tutti vegetariani e senza animali domestici. Né un cane, né un gatto. E neppure cavalli, pecore, mucche.
Ma esistono visioni meno radicali. Il problema della "teoria dei diritti (degli animali)" non è direttamente e, soprattutto immediatamente, contro le varie opzioni tradizionali di gestione faunistica. Scrive Regan (cit.: 465)"... la scomparsa di queste attività economiche sarà graduale, non immediata; e l'economia nazionale e mondiale avrà il tempo di adattarsi al mutare delle consuetudini dietetiche. Nondimeno, il principio morale resta fermo: nessuno ha il diritto di essere tutelato nei propri interessi mediante la prose-
cuzione di una pratica ingiusta, di una pratica che viola i diritti degli altri".
Non è da rifiutare dunque un approccio graduale alla società perfetta. Questa considerazione ci sembra assai importante perché consente, volendola interpretare, un approccio operativo e pratico.
Personalmente rimango però abbastanza freddo nei confronti di questa società di buoni, anche nei confronti degli animali. I motivi? Mainardi ha sostenuto recentemente (1995) che essere moderatamente carnivori "...significa anche non tradire le proprie origini biologiche...". Il vegetarianesimo mi pare più una (utile) provocazione che una scelta... per tutti. La riduzione progressiva della componente animale nell'alimentazione umana, l'abolizione della zootecnia e della caccia sfiorano la discussione da salotto, a livello globale e in presenza di un aumento terrificante della popolazione mondiale.
Che un filosofo o altri si occupino di etica, va benissimo. E ci serve. Tuttavia, sarebbe opportuno che un numero sempre più alto di persone, tra le quali mi ci metto volentieri, non perda tempo a progettare utopie ma si occupi di cose concrete. Oggi e subito. Anche per spostare in là nel tempo una decisione. Una decisione che sia però garantita dalla sopravvivenza della fauna selvatica. In tal senso, l'abolizione della caccia è un falso mito. Tra l'altro fuorviante, in Italia, come si è verificato con i recenti referendum perduti dalle associazioni ambientaliste. L'errore tattico compiuto da esse non sarà mai abbastanza sottolineato. Era evidente a tutti che in un confronto radicale, del tipo "di vita o di morte" le associazioni venatorie (e l'industria interessata) si sarebbero opposte duramente e in modo unitario. Ma le associazioni ambientaliste non avevano come obiettivo quello di migliorare la gestione faunistica. Semmai e piuttosto, quello di imporre la propria etica a tutti: vietare la caccia.
E' un po' il dilemma che si verifica oggi a proposito di molte altre questioni, quando si parla di nuove norme e di regole migliori. Deve lo Stato, che non può che operare in difesa dell'interesse collettivo, accettare una "sola" posizione (etica) a riguardo e su quella costruire un sistema normativo vincolante per tutti, per tutti, - si dice anche per chi appartiene ad altre confessioni religiose, ad altre ideologie o per chi si arricchisce di un codice etico che non è quello della maggioranza?
L'errore è quello di porre a sproposito la questione etica. Nella sua accezione normale l'etica non ha bisogno di dimostrazioni. L'etica si autogiustifica, autoalimentandosi. Ma non ne abbiamo sempre bisogno, quando vogliamo usare la ragione. Perché scomodare un'etica... "della conservazione"... quando, in modo ben più realistico, convincente, piano, dialettico, accattivante, duraturo e dimostrabile potremmo sostenere che conservare significa salvare la nostra qualità di vita? Scomodare l'etica ad ogni piè sospinto è inutile. E pericoloso. L'etica crea avversari o nemici al posto di alleati.
Affermare come spudoratamente si fa oggi e troppo volentieri... "sono contro la tal cosa per motivi etici" (o di principio) significa perdere la possibilità di convincere. E di lavorare assieme. Per lavorare assieme non è necessario cambiare la testa degli altri (e quando non si possono cambiare, le teste, si sa, vanno... tagliate!). Anche se i miei principi non sono quelli di un ambientalista ortodosso, per quale motivo quest'ultimo dovrebbe rinunciare alla mia collaborazione nella difesa dell'orso?
Il motivo per cui gli ambientalisti non hanno fatto un serio tentativo di migliorare la gestione venatoria in Italia, è un motivo etico e non un atto di sfiducia fondato sulla prassi. Infatti. Non sono ignoti i buoni esempi di gestione venatoria accettabile. E non sono ancora da scoprire i presupposti tecnici e biologici per una corretta gestione. Sapremmo come fare, dunque.
L'ambientalista radicale (posto che esista davvero: sarò perdonato per le semplificazioni?) sa bene che migliorare la gestione venatoria significa conservare la caccia. Allontanare cioè, forse per sempre, la sua scomparsa. E' bene dunque, anzi preferibile - così pensa - peggiorarla, per poterla meglio distruggere oppure, in caso di probabile sconfitta, per poter rimanere puro ed eticamente corretto (= incorrotto). In questo scontro, la parte peggiore dei cacciatori gode. Finalmente sono identificati i cattivi: gli ambientalisti tutti. E finalmente, oppressi dalla necessità di vincere e di non dividersi, possono giustificare o dimenticare le cose peggiori della caccia, come viene oggi concretamente gestita, in Italia.
Il problema reale della gestione faunistica e della caccia deve andare allora oltre il falso mito dell'etica che, almeno per noi che non supereremo il 2060, non va bene. Gli etici facciano pure la loro parte, ma noi vorremmo vedere qualcosa di cambiato, in meglio ed entro breve tempo. Non oltre il 2000 dunque. Parafrasando Brecht, "in certi momenti, parlare di etica è un delitto".
Il Wildlife Management soffre in primo luogo di un non piccolo svantaggio. Il valore della fauna. Questo valore, come quello dell'aria, dell'acqua e dei beni naturali in genere non è stimabile o lo è difficilmente, in quanto non ha un prezzo di mercato. Investire sulla fauna non rende comunque milionari: ed è difficile lavorare per un qualche cosa sul quale troppi hanno morali opposte. Un bene difficilmente valutabile - e non cambia dire che non ha prezzo! - è facile preda di supposizioni a tecniche. Se a ciò si aggiunge la circostanza che dalla fauna si trae diverso e conflittuale piacere, ne consegue che il ruolo dei tecnici è di fatto superfluo. Sia i cacciatori che gli ambientalisti sanno bene tutto ciò. Proseguendo con le semplificazioni, ad entrambe queste categorie il tecnico dà fastidio. Non si schiera... fino in fondo. Non dimostra l'abiezione dei nemici. Anche l'opinione pubblica sottostima il tecnico. Prima di tutto perché facendo un lavoro che "diverte" è come se non lavorasse (e allora perché pagarlo?). Secondariamente, perché tutto sommato il tecnico non è utile. Quanto vale il 10% in più di cervi? Gli animali? Basta lasciarli in pace!Perché spendere? Che bella cosa i buoni sentimenti! Il vero problema è allora il ruolo dei tecnici, sia nella gestione venatoria che in quella faunistica generale e nelle aree protette.
Per sintetizzare gli obiettivi di fondo, è bene restringere il campo a poche semplici situazioni.
La gestione venatoria è un ambito primo di riferimenti tecnico-scientifici. La legge nazionale non obbliga a fare i censimenti (propedeutici al prelievo). Tutte le questioni tecniche sono lasciate nel vago: lo stesso elenco delle specie cacciabili e dei relativi periodi è censurabile, avendo i parlamentari disatteso le indicazioni più volte fornite dall'Istituto nazionale della fauna selvatica. Nella programmazione, posto che vi sia, hanno via libera tutti. E tutti sono esperti.
L'obiettivo di una qualsiasi revisione di questa legge potrebbe essere limitato a questo: qualsiasi atto gestionale (di prelievo o di manipolazione) dovrebbe essere soggetto ad un vero e proprio piano faunistico firmato da un tecnico laureato specifico, con valore di legge. Sarebbe questo un passo minimo indispensabile per riavvicinare la gestione della fauna, la "selvicoltura", alla gestione del bosco, la "selvicoltura". Ricordiamo che, a parte il taglio del ceduo, qualsiasi operazione forestale è vietata in assenza di un piano "economico" firmato, che ha appunto valore di legge.
Questo requisito potrebbe valere non solo per la gestione venatoria ma anche per gestioni faunistiche di altro tipo: attraversamenti stradali, prevenzione dei danni, difesa dell'erpeto fauna, eccetera. Nelle aree protette il discorso dovrebbe è ovvio - essere identico ma con una importantissima precisazione. In effetti, il Wildlife Management nei parchi e nelle riserve naturali soffre in modo schizofrenico della seguente contraddizione. Come conciliare la fruizione faunistica (ricreazione, ecoturismo) con la conservazione? La maggior parte delle situazioni viene risolta in modo alquanto miope e solo difensivo. Le zone di pregio (o a rischio) vengono sottratte - quando si può - al turismo. Dove questo è assestato e tradizionale, esso viene tollerato oppure, se possibile (non lo è mai), represso. Odiato sempre. In casi limitati vengono buttate in pasto ai turisti le zone meno pregiate (e di ciò ci si rallegra). Il parco è dunque come la Rivoluzione... "che i figli suoi divora".
Questa strategia difensiva mostra la corda non solo perché non è "attiva", ma anche perché affronta il problema al suo divenire, senza prevenirlo. Il miglior turista sarebbe, per i tecnici di un parco, quello che sostiene l'area protetta, la finanzia anche, ma se ne sta a casa (propria).
Questa strategia va modificata. E il cambiamento dovrà essere nel senso - alcune aree protette già spontaneamente si stanno avviando in questa direzione - di pensare la gestione faunistica nelle zone fruibili come un progetto anche "educativo". Al gusto, alla sensibilità, ai valori della fauna e dell'economia.
Vorrei però affermare che un progetto di questo genere è ben diverso dalla buona segnaletica, sia pure della migliore e con le integrazioni delle visite guidate. In primo luogo è raro che le guide posseggano vere specializzazioni in questo campo. In secondo luogo, il percorso, l'attività, il complesso della fruizione faunistica in un parco dovrebbero essere organizzati in forma tali da trasmettere valori, da comunicare sensibilità, da stimolare la riflessione. E' da battere il concetto di parco con attività "riminizzatrici" cioè di puro intrattenimento. Queste non sono le opzioni di un'area protetta.
Nel parco, la fauna è - si dice - protetta. Protezione, per l'opinione pubblica, significa astenersi da azioni dannose non meglio identificate. In genere, tutti i provvedimenti di controllo faunistico vengono ritenuti dannosi poiché sconvolgono il libero assestamento della fauna. Come è noto non è così. Vi sono provvedimenti indispensabili (per esempio il contenimento del cinghiale); altri, solo opportuni. E 1 'opportunità può non essere solamente di tipo ecosistemico (riduzione del cervo per danni al bosco) ma economica o persino... sociale.
Conosco già l'obiezione: il controllo della fauna (= prelievo) è giustificato, in un'area protetta, solo per motivi scientifici (ecologici) o economici (al massimo). Al bando le motivazioni "politiche" (quelle definite più sopra sociali).
L'obiezione non ha fondamenti tecnici. Ne può avere di etici (anche se in un'area protetta è preferibile non far "etica" ma lavorare). E ne può avere di immagine: l'opinione pubblica non lo vuole. Ma l'opinione pubblica può anche chiedere cose abbiette. E non sempre i suoi desideri sono i migliori (pagare le tasse? No, grazie!). Va criticata e giudicata. E se necessario e possibile, anche modificata.
Ma quali possono essere i motivi "sociali" per un prelievo in un'area protetta? Stabilito che se non vi sono le condizioni oggettive per farlo, perché ciò significherebbe per esempio la messa in pericolo di una specie, ci si deve astenere; è da discutere se "sociale" significa "politico". Oggi in Italia, agire per motivi politici vuol dire per vantaggio personale e/o di partito a danno altrui e della collettività. Quindi per fini personali. Non condivido questa interpretazione del termine "politico". Tuttavia, per facilitare il discorso, politico è diverso da sociale.
Un'area protetta è interessata da attività umane. Quindi da desideri umani. Da egoismi, se si vuole. Quando questi desideri, questi egoismi vengono da chi vive o lavora nel parco, che fare? Un'attività tradizionale lesiva del bene natura va modificata o (progressivamente) cancellata. Questo è giusto. però nel verbo "modificare" e nell'avverbio "progressivamente" si possono cogliere tutta la prudenza che va tributata quando si interferisce con la tradizione. La zootecnia crea problemi alla fauna selvatica. In genere, dicono alcuni tecnici, per molti parchi di montagna sarebbe opportuno un suo contenimento se non la sua scomparsa. Gli ungulati selvatici hanno tutto da guadagnare dalla scomparsa della zootecnia (sto facendo un esempio limite). Eppure, la zootecnia non si tocca. Per motivi politici, cioè spregevoli? No, per motivi sociali, perciò nobili. E non solo nobili ma tali da assicurare a quell'area protetta il necessario consenso, la soddisfazione di un egoismo (quello dei valligiani allevatori e non) integrato con la conservazione.
Ecco, l'integrazione e non la somma degli egoismi. Questa la chiave per una buona gestione faunistica di un'area protetta. La zootecnia integrata con la conservazione. Una zootecnia non esattamente identica a prima. Ma diversa, anche profondamente modificata. Caricata anche di altre funzioni: estetica, ecologica, di memoria storica, economica indiretta. Una zootecnia naturalistica, come esiste la selvicoltura naturalistica.
Chi, se non un fanatico, sarebbe contro una zootecnia siffatta (l'allevamento è sempre una riduzione in schiavitù di specie animali per fini umani) adducendo "motivi di principio" o "etici"? Un'etica non moderata dalla prassi e non giustificata dal punto di vista tecnico vale poco. Ed è pericolosa.
Partendo dal sociale si è giunti a trovare una compatibilità della zootecnia con la conservazione.
Bene. Basta modificare il termine "zootecnia" in "prelievo di tipo venatorio" ed il discorso può essere identico. Nessun prelievo se vi sono rischi. Di eccessiva timidezza dei selvatici. E anche di immagine. Ma se vi è un forte e tradizionale interesse locale, un egoismo integrabile con il contesto della conservazione, perché no? Se questo (ridotto) prelievo può esser fatto anche con altre funzioni, e può risolvere per sempre il problema del bracconaggio locale, perché no?
Per motivi etici.
Bene. Via con le bombe sugli autobus! (Nel nostro caso, aree protette poche e conflittuali). Gli etici sono contenti (tanto, basta partecipare...).

Bibliografia

- Giles R. H., Wildlife management, Freeman - Co., S. Francisco: IX-I-416, 1979.
- Mainardi D., Animali e uomo. Adattamenti biologici e adattamenti culturali. In Perco Fr. eds "Uomini e animali. Un rapporto difficile" (titolo provvisorio, in preparazione), 1995.
- Regan T., I diritti animali, Garzanti, Milano, pp. 564, 1990.
- Singer P., Etica pratica, Liguori, Napoli, pp. 92, 1989.

* Esperto di gestione faunistica