Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 19 - OTTOBRE 1996


Una partenza frenata
Renzo Moschini
Intendiamo soffermarci sui primi atti del governo ed in particolare del nuovo ministro dell'ambiente per esprimere alcune prime osservazioni, formulare e rinnovare qualche proposta, manifestare talune critiche e riserve sulle quali gradiremmo poter finalmente aprire un confronto diretto e franco con un Ministero risultato fino ad ora indisponibile (e indisponente) a qualsiasi dialogo. Anzi tra le nostre aspettative, come dicemmo alla festa di San Rossore, nei confronti del nuovo ministro vi era e rimane anche quella di un riconoscimento del ruolo della rappresentanza dei parchi e della loro associazione. Pensiamo infatti che sarebbe grave e poco sensato continuare ad ignorare, come è avvenuto in passato, le nostre ripetute richieste di incontro, alle quali fino a questo momento purtroppo neppure il nuovo ministro inspiegabilmente ha inteso rispondere. Avremmo anche desiderato pubblicare un'intervista del ministro al quale avevamo sottoposto alcune precise domande: ma non ci sono pervenute le risposte che avrebbero sicuramente potuto contribuire a chiarire talune posizioni sulle quali intendiamo in ogni caso discutere in questa nota. Detto questo, vorremmo premettere che a nostro giudizio la novità politica più rilevante non risiede tanto nel fatto che al Ministero dell'ambiente oggi siede un ambientalista, perché già in passato quel dicastero ha avuto ministri ambientalisti ed anche "verdi". Da questo punto di vista si potrebbe dire semmai, e taluno lo ha fatto, che l'attuale ministro ha sicuramente una lunga esperienza e competenza ambientale che ad altri faceva difetto. Pur trattandosi perciò di fattori importanti da non sottovalutare, riteniamo che la novità più significativa - come lo stesso ministro ha sottolineato nella sua prima audizione alla commissione ambiente della Camera - è che l'impegno per una politica ambientalista è oggi assunto dal governo nella sua collegialità, di cui fanno fede le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio dinanzi al Parlamento. Qualche esponente ambientalista ha manifestato al riguardo un certo scetticismo considerando queste dichiarazioni di "rito". Ma precedenti presidenti del consiglio avevano addirittura negato valore a questi temi ritenuti anzi pretestuosi, mentre altri li avevano relegati per ragioni "tecniche" ai margini del loro impegno. Insomma le dichiarazioni possono anche prendersi con beneficio d'inventario ma meritano comunque una seria considerazione dal momento che rompono con ritualità e indirizzi di segno del tutto diverso e contrario. Per la prima volta insomma gli intenti di un ministro ambientalista discendono dagli impegni programmatici di una compagine governativa e non esclusivamente da sensibilità personale. Resta ovviamente il dovere di verificare nel concreto se a questa nuova impostazione seguirà un'effettiva svolta nei comportamenti e nelle scelte del Govemo e del ministro. Ed è quanto intendiamo fare. Diamo atto innanzitutto al senatore Ronchi di avere scrupolosamente rispettato l'impegno assunto alla nostra festa di presentare - dopo un buco di alcuni anni - la relazione sullo stato dell'ambiente. Ciò consente di riprendere, sulla base di una documentazione non esaustiva ma notevole, una riflessione a tutto campo su temi troppo spesso elusi o trascurati. Più avanti accenneremo alla parte riguardante le aree protette che merita più di un chiarimento. Ad attirare però maggiormente l'attenzione dell'opinione pubblica sull'operato del nuovo ministro più che la relazione presentata al Parlamento, assai apprezzata peraltro nei commenti di stampa, è stata soprattutto la condotta del ministro sulla vicenda del parco dell'Arcipelago toscano. La decisione di procedere a spron battuto preannunciata alla festa di San Rossore, dove aveva già suscitato un coro di proteste e molte perplessità specie a livello istituzionale in quanto riduceva tempi e spazi per una più accorta e necessaria mediazione con le amministrazioni locali, al di là dello specifico, ha confermato quanto il ministro va manifestando nelle più diverse sedi e occasioni e cioè una malcelata 'diffidenza' nei confronti degli Enti locali e delle stesse Regioni. Nel caso in questione, ma anche in altre situazioni critiche attualmente in discussione, non possono naturalmente essere ignorate le non lievi responsabilità di molti Enti locali per i ritardi con cui si è pervenuti ad una decisione tanto travagliata. E tuttavia l'impressione che si ha a leggere le interviste, gli articoli e gli interventi parlamentari del ministro è quella di un fastidio, talvolta di una vera e propria insofferenza verso una problematica che piaccia o non piaccia richiede ben altra disponibilità, flessibilità e soprattutto capacità di "ascolto". Nella relazione sullo stato dell'ambiente, ad esempio, I'argomento cruciale e controverso del consenso alla istituzione dei parchi è praticamente liquidato con qualche interrogativo retorico e un po' provocatorio del tipo: fino a che punto possiamo discutere con sindaci ed amministratori i quali per motivi specifici, caccia, attività edilizia e altro sono contrari al parco? Ci vuol poco a vedere come qui, oltre ad una sbrigatività assolutamente inaccettabile, si ricorra ad un assemblaggio di motivazioni chiaramente non equiparabili, che in qualche intervista si sono accompagnate all'accusa pesantissima ai sindaci di complicità con gli speculatori. Accuse che, era facile prevederlo, hanno costretto nel caso dell'Arcipelago il presidente della Regione Toscana,che pure con i sindaci aveva avuto animate e vivaci polemiche, a respingere quella che è apparsa un'inammissibile criminalizzazione del dissenso. Alla Camera, rispondendo ai numerosi parlamentari intervenuti nel dibattito, il ministro è stato non meno perentorio invitando tutti a pronunciarsi con chiarezza su un punto: e cioè se la difesa dell'ambiente e di determinati ecosistemi rappresenta o no un interesse nazionale. Se questo interesse è o no preminente su altri. Posta la domanda in questi termini il ministro ha risposto senza esitazioni che le cose stanno esattamente così e che pertanto gli Enti locali possono sì essere coinvolti ma debbono scordarsi "il concerto e la cogestione". Va bene la partecipazione ed il coinvolgimento, ma è bene stare in guardia nei confronti dei furbi e dei trucchi di chi vuole approfittare delle procedure democratiche per perseguire altri fini. Ora, ciò che colpisce e sconcerta di queste dichiarazioni è che esse contraddicono clamorosamente in primo luogo con gli sforzi che il governo sta facendo con apprezzabili risultati per avviare una seria politica di decentramento, di valorizzazione delle Regioni e degli Enti locali ai quali si intende attribuire o delegare nuove competenze, ridurre i controlli burocratici, snellire le procedure farraginose di una pubblica amministrazione ormai alla paralisi. E' fin troppo evidente, e non può sfuggire a nessuno,che queste esternazioni del ministro si discostano vistosamente da quelle di altri suoi colleghi. Infatti, mentre alla conferenza Stato-Regioni si aggiunge ora quella Stato-Città, ossia nuove sedi ufficiali in cui gli organi dello Stato d'intesa con le rappresentanze ufficiali delle Regioni e degli Enti locali dovranno mettere a punto una nuova strategia incardinata sullo spostamento dei poteri verso il basso, il Ministero dell'ambiente sembra intenzionato a procedere sui vecchi binari, rivendicando per sé e solo per sé poteri e ruoli che neppure la legge 394 prevede, dal momento che essa parla chiaramente, come ha tante volte ricordato la Corte costituzionale, di "leale collaborazione". Il che significa appunto "concertazione e cooperazione" che il ministro invece pare escludere e temere come un intralcio, anzi un rischio se non un imbroglio. Tutto ciò colpisce e forse spiega anche perché il Ministero tardi tanto a riconoscere il ruolo della rappresentanza istituzionale dei parchi e della loro associazione. Riesce in ogni caso difficile capire per quali ragioni gli Enti locali e le Regioni siano sempre più costantemente sentiti e consultati da vari ministri e i parchi siano invece accuratamente ignorati. E non fa ben pensare neppure la dichiarazione del ministro in una intervista a "terra nuova", in cui preannuncia la istituzione di un ufficio di raccordo con le associazioni ambientaliste, quando sarebbe assai più urgente e doveroso assicurare il regolare funzionamento degli organi istituzionali previsti dalle legge, consulta tecnica e comitato per le aree protette, verso i quali peraltro il ministro rivolge critiche di "scarsa operatività", dimenticando stranamente che il Ministero in questi anni li ha deliberatamente snobbati, grazie anche ai comportamenti assolutamente censurabili degli uffici centrali che anche per questo sarebbe bene e urgente rivedere, operando avvicendamenti ed altro, come si sta molto opportunamente facendo in altri ministeri anche contigui a quello delI'ambiente. Il ministro Ronchi, in occasione delle polemiche sulla variante di valico, ha rivolto una severa critica a certi settori del governo la cui cultura - a suo giudizio - sembra inidonea a misurarsi e fronteggiare le nuove sfide ambientali. Ma non ci sembra sia una cultura istituzionale adeguata a queste nuove sfide neppure quella che finora emerge dalle posizioni del ministro. Alla Camera, Ronchi ha insistito molto sull'interesse nazionale il quale non verrebbe meno neppure negli Stati federali i quali accettano l'esistenza di parchi non demandati alle autonomie locali. Ma è proprio qui che il ministro appare meno convincente, confondendo l'interesse nazionale con quello dello Stato apparato. Quasi che questo interesse scomparisse d'incanto per un ambiente o un monumento gestito dalle Regioni o dagli Enti locali. Quasi che una città, perché amministrata dal Comune, perdesse quell'interesse nazionale che non discende e non dipende evidentemente dal fatto che i titolari amministrativi risiedano a Roma od altrove. In sostanza l'interesse nazionale non presuppone forme di gestione e titolarità esclusivamente e neppure principalmente statali. Forse l'interesse nazionale di un parco come quello dell'Etna o delle Apuane viene meno perché la sua gestione è regionale e non nazionale? D'altronde oggi per molti di questi beni e patrimoni vi è un interesse internazionale e comunitario che non comporta evidentemente una titolarità sovranazionale. Non è un caso d'altronde che l'Unione europea ispiri la sua azione proprio al principio di "sussidiarietà", in base al quale non si deve fare ai livelli superiori quello che allo stesso modo o meglio può essere fatto a livelli più bassi. Sorprende perciò che proprio dal Ministero dell'ambiente, titolare di una normativa considerata pressoché unanimemente tra le più centralistiche, non venga quella spinta, che registriamo invece in altri settori di governo, ad un decentramento istituzionale. Ma stupisce ancor più il l`atto che a giudizio del ministro (vedi intervista ad Airone) tanto l'una che l'altra opzione - centralismo o federalismo - nulla cambierebbe per il suo Ministero essendo chiaro che la titolarità dell'ambiente rimane nazionale. Un'affermazione del genere non soltanto ignora quei problemi sui quali ci siamo soffermati, ma lascerebbe intendere che il ministro considera tutta questa discussione sulle riforme istituzionali e sui nuovi assetti dello Stato una pura perdita di tempo. A meno che volesse dire che, anche se una riforma dovrà cambiare le cose, questo non riguarderà il suo Ministero. Il che francamente appare non meno assurdo.

Insomma da tutti questi segnali, che non intendiamo ancora considerare espressione compiuta di una linea generale già definita, emergono preoccupanti conferme rispetto al passato piuttosto che novità per il futuro. Rimaniamo quindi in fiduciosa attesa ma non possiamo nascondere la nostra delusione. Il ministro Ronchi chiede, ad esempio, e giustamente, una conferenza per i trasporti perché i programmi di intervento del Governo in questo comparto strategico siano valutati e decisi collegialmente e non in base a vecchie logiche ministeriali. E' una richiesta legittima e condivisibile; del resto giustamente ne sono state promosse e previste altre, come quella sull'occupazione in cui collegialmente il Governo e le forze sociali affrontano grandi tematiche. Ci chiediamo: non vi è uguale e non minore urgente necessità di una conferenza sulle aree protette dove il Ministero dell'ambiente, oltre che con Regioni ed Enti locali, possa definire con i Ministeri dei lavori pubblici, dell'agricoltura, della marina mercantile, del lavoro della pubblica istruzione, eccetera, programmi e progetti? Ha senso, è realistico, tanto per citare un caso, continuare a parlare della possibilità di impiegare 20.000 persone direttamente o tramite l'indotto nel settore delle aree protette, se non saranno messi a punto intese e raccordi con gli impegni di quei Ministeri che intervengono e spendono nelle attività agricole, della formazione e così via? I1 primo piano triennale delle aree protette '91/'93 è stato approvato nel '93 per un ammontare di 350 miliardi; il secondo, quello del '94/'96, è stato approvato nel dicembre del '95 per un totale di 205 miliardi cui soltanto 49 alle aree protette regionali. Dei risultati di questi due piani, varati come abbiamo visto con gravissimo ritardo e con traversie note che rendono estremamente difficile ai parchi di mettere a frutto risorse tutto sommato modeste, si sa poco o niente. Si pensa davvero che una politica di rilancio anche dell'occupazione nei parchi possa avvenire utilizzando in questa maniera gli strumenti previsti dalla legge? Ronchi ha detto in un'intervista che lui per l'agricoltura biologica può soltanto attivare i fondi previsti dall'Unione europea. Ma i 100 miliardi che a suo tempo furono cori grande spolvero stanziati per l'agricoltura biologica dei parchi nazionale (e chissà perché solo per quelli) si riuscirà mai a sapere che fine hanno fatto? Negli allegati presentati alla commissione ambiente della Camera di questo non c'è traccia, tanto è vero che riguardo al Ministero dell'agricoltura ci si limita a segnalare che l'intesa sul corpo forestale dello Stato non si è riusciti a definirla dopo mesi e anni di polemiche. Ma della riforma del corpo e cioè di una sua regionalizzazione, ad esempio, non si dice niente. Nei documenti presentati dalle direzioni del Ministero e risultanti agli atti parlamentari il direttore della conservazione della natura annota senza commenti che le istruttorie per l'istituzione delle aree protette marine procede, sia pure con qualche difficoltà, sul piano finanziario. Poche pagine più avanti però, nella relazione di un altro direttore, si dice che lo schema di piano del mare approntato fin dal dicembre 92 è rimasto bloccato a seguito del trasferimento dell'Ispettorato centrale della difesa del mare al Ministero dell'ambiente "ove fino ad oggi è prevalsa una diversa linea politico-amministrativa sulla filosofia di fondo del piano, basata sulla concezione della gestione integrata della zona costiera sotto il profilo della conservazione e del risanamento". Perciò si ritiene opportuno portare il piano all'attenzione delle Regioni come elemento di confronto. Come si vede non si tratta di quisquilie, ma non risulta che di questo qualcuno si sia fatto carico né per consultare le Regioni, che sia detto tra parentesi nella relazione dell'ingegnere Agricola manco sono rammentate, né per capire in cosa consista questa diversa filosofia. Vi sono naturalmente altri aspetti sui quali una verifica collegiale con altri Ministeri, istituzioni e altri soggetti ormai si impone se non vogliamo che il tema delle aree protette resti alla fin fine relegato tra i fenomeni simbolici, espressione senz'altro nobile di una volontà, piuttosto che il terreno concreto su cui mettere a confronto strategie e scelte operative. Si pensi, tanto per fare un altro esempio, alla montagna, alla convenzione delle Alpi, ai nuovi indirizzi comunitari in campo agricolo, eccetera. Ha senso oggi una programmazione dei parchi, e non ci riferiamo unicamente - sia chiaro - a quelli nazionali, che non tenga conto delle leggi, degli strumenti, delle risorse riguardanti i territori montani che costituiscono parte così cospicua e importante delle aree protette? Nei parchi nazionali, regionali, locali come potranno raccordarsi, integrarsi sinergicamente quelle politiche pensiamo in particolare al sud - che oggi dipendono in misura rilevante e crescente anche dalle normative e dai finanziamenti comunitari? Con questi esempi appena abbozzati non intendiamo certo indicare una "agenda" puntuale che potrà essere messa a punto soltanto in quelle sedi collegiali indicate. Vogliamo però prospettare un'esigenza, un percorso obbligato di cui non abbiamo trovato significativi riferimenti e ipotesi nel dibattito finora svoltosi e nelle numerose dichiarazioni e interviste del nuovo ministro, che ci sono sembrate volte soprattutto a rivendicare puntigliosamente e neppure sempre fondatamente ruoli e titolarità piuttosto che a delineare per chi opera in questo settore impegni chiari per il futuro. E a proposito delle Regioni, che sembrano appartenere ad un altro pianeta, a leggere certi documenti, e di cui non possono essere taciuti - è chiaro - ritardi e inadempienze, va aggiunto che non è più sostenibile, anche se fortemente voluto e perseguito da taluni uffici ministeriali, un atteggiamento che rifiuti il confronto su tutta una serie di delicati problemi tuttora aperti. Se la Regione Lombardia cerca di non pregiudicare sue importanti conquiste nella costruzione di un robusto sistema regionale di parchi, e per farlo deve forzare talune norme della 394, non basta trincerarsi dietro la legge per rispondere picche. E così per quanto riguarda la Regione Toscana che ha posto l'esigenza di rivedere qualche norma della legge-quadro. La difesa della legge va bene, ma non può trasformarsi in un tabù. E i suoi adempimenti non possono esaurirsi, come è avvenuto finora, in valutazioni e conteggi di tipo quantitativo perché dietro il numero dei parchi e delle superfici che crescono (ed è positivo) ci stanno problemi, novità, difficoltà con le quali finora il governo nazionale non si è misurato. Ecco perché sarebbe ora di prendere in attenta considerazione la proposta avanzata dal Coordinamento dei parchi per la convocazione di una conferenza nazionale. Conferenza alla quale oltre alle istituzioni centrali e decentrate dovrebbero partecipare insieme alle associazioni ambientaliste anche le rappresentanze delle l`orze economiche e sociali .

Anche qui c'è un t`atto nuovo che deve essere attentamente riconsiderato, e cioè il ruolo non soltanto dell'associazionismo ambientalista, il cui inserimento peraltro negli organi di gestione delle aree protette merita qualche verifica più puntuale sulla base di un'esperienza fatta non solo di luci. Ci riferiamo a quelle associazioni di categoria che in alcune Regioni, ad esempio, sono rappresentate anche negli enti parco. In Piemonte quelle degli agricoltori, in Liguria anche il provveditorato degli studi. Sono tutti segnali di una situazione in movimento e cambiamento che conferma sempre di più come i parchi rappresentino ormai una realtà istituzionale complessa non riducibile a vecchi schemi. Che confermano inoltre che se si vuole davvero costruire un sistema nazionale dei parchi c'è bisogno di una nuova articolazione e assetto dei poteri istituzionali e un'accresciuta capacità di dialogo e di confronto del sistema istituzionale con tutti i soggetti culturali, sociali ed economici che non possono più essere considerati esclusivamente dei potenziali avversari delle aree protette.

Dal ministro ci aspettavamo qualche segnale nuovo anche per quanto riguarda l'informazione. Il Ministero dell'ambiente si è dimostrato incredibilmente refrattario a queste esigenze al punto che, per usare le parole di Patrizia De Angelis vice direttore del servizio conservazione e natura pronunciate in occasione della presentazione della Gazzetta ambiente, oggi vi è un abisso tra le finalità della 241/9() sulla trasparenza e l'operato del Ministero. Ne sappiamo qualcosa anche noi che in questi anni non siamo mai riusciti ad avere di prima mano alcuna informazione, su nessuna delle decisioni del Ministero, su nessuno di quelle migliaia di atti che sembrano tanto importanti a certe direzioni ministeriali, le quali evidentemente misurano l'azione politica con il registro del protocollo. Vorremmo infine, a conclusione di queste osservazioni su una situazione che ci appare ancora poco chiara, accennare appunto alla condizione degli uffici ministeriali. Non saremo certo noi a disconoscere che l'attuale struttura operativa centrale non dispone di personale e di risorse adeguate. Ma anche qui bisogna forse intendersi bene per non ridurre tutto a distacchi e dotazioni visto che le pratiche aumentano. Il direttore Agricola ci ricorda infatti nella sua relazione alla Camera che dal '91 al '96 i protocolli trattati annualmente sono passati da 6.000 a 20.000 ed il numero degli atti in "uscita" da 1.800 a 6.000. Cifre che mostrerebbero una crescita fisiologica alla quale non si può che rispondere con un proporzionale aumento di personale. Ma è proprio questo binomio pratiche-personale che ha carattere patologico che va una volta per tutte spezzato. Non c'è ragione perché a Roma continuino ad andare atti, protocolli, certificazioni in un crescendo rossiniano. La discussione sul decentramento, che a taluno appare poco più di una perdita di tempo, ha esattamente questo significato e obiettivo: verificare non solo quali atti possono essere senza danno, anzi con sicuro vantaggio eliminati, ma anche in quali altri sedi possono essere gestite meglio, più rapidamente e con minore spesa. Ha detto Sabino Cassese che per ogni nuova legge che si approva 50 dovrebbero essere abrogate. Ma ciò è ancor più vero per i protocolli e gli atti in uscita. Il Ministero non è e non deve essere lo sportello dei Comuni, delle Province, delle Regioni, dei parchi e chi più ne ha più ne metta. Non si deve più essere costretti ad andare a Roma in pellegrinaggio per piatire decisioni spesso banali per le quali si deve aspettare mesi e anni. Sarebbe il caso, ad esempio, di verificare come stanno le cose per le piante organiche dei parchi nazionali, per i regolamenti, per i direttori e così via. Ben altre sono le cose davvero importanti e qualificanti da fare a Roma e che finora non sono state i`atte e neppure impostate. Prendiamo la Carta della natura che l'ingegnere Agricola ci dice sarà pronta a fine anno. Ad essa ci stanno lavorando - informa la relazione - i rappresentanti dei Ministeri interessati, i servizi tecnici nazionali, dell'Istituto geografico militare nonché due rappresentanti delle Regioni. Tutto ciò, ammesso che ci si stia davvero lavorando visto la l`ine che hanno fatto precedenti impegni, avviene senza alcun raccordo, coinvolgimento di istituzioni, di istituti di ricerca, di parchi. Anziché ricercare una collaborazione che avrebbe potuto servire anche a dare puntuali e rapide risposte in quelle situazioni contrassegnate da pesanti polemiche sulle ragioni che stanno alla base della istituzioni dei nuovi parchi, si è preferito al solito agire per linee inteme, burocratiche, senza alcuna possibilità di controllo e senza alcuna trasparenza. Eppure recentemente nel convegno di Gargnano dove è stato ricordato Valerio Giacomini e al quale il Ministero non ha preso parte, proprio su questo punto sono state fatte precise proposte da autorevoli studiosi e importanti istituzioni. La stessa cosa potremmo dire sull'osservatorio delle Alpi, di cui abbiamo appreso l'Italia ha la presidenza. Da anni ci sono associazioni, parchi, il coordinamento e tanti altri che stanno lavorando, prendendo iniziative su questi problemi. Possibile che nessuno a Roma sia sfiorato dall'idea che sarebbe forse utile coinvolgerli? E' più facile evidentemente piangere sulle carenze di organico. Siamo tornati così da dove eravamo partiti; una nuova politica per le aree protette richiede non più decisionismo a Roma, ma una maggiore apertura e capacità di coinvolgimento intorno a idee e programmi che per ora stentiamo a intravedere. Non dimentichi il ministro che nei parchi (tutti) vi è disagio, insofferenza per come vanno le cose, per la difficoltà, anzi l'impossibilità di interloquire 'politicamente' e non burocraticamente con gli organi di Governo.

Prima di concludere vorremmo però dedicare qualche rapidissima annotazione alle Regioni, per lo più ignorate e talvolta mal sopportate come abbiamo visto da comportamenti e "umori" tipici di strutture e apparati assolutamente insensibili a quelle esigenze di "collaborazione" su cui dovrà incardinarsi invece uno Stato federale. E' recente un nostro Dossier interamente dedicato all'argomento al quale ovviamente rimandiamo per un'informazione più ampia. In questo stesso numero tra l'altro il lettore troverà interessanti contributi su alcune esperienze regionali e commenti sulle nuove leggi regionali di recepimento della 394, recentemente approvate dai Consigli regionali dell'Abruzzo e del Friuli-Venezia Giulia. E' noto che l'esperienza regionale nel suo complesso, e non soltanto naturalmente in riferimento alle aree protette, è considerata non esaltante proprio perché sembra avere ricalcato troppo nei suoi aspetti più negativi quella dei poteri centrali. Questo giudizio non può ovviamente far dimenticare che anche quello delle Regioni non meno di quello degli Enti locali è un fronte estremamente variegato dove, accanto ad esperienze e comportamenti poco brillanti anche per quanto riguarda i parchi, ve ne sono di assai più positive ed interessanti. Fatte queste doverose distinzioni, è un l`atto tuttavia che la discussione sul federalismo sconta non poche riserve e dubbi sulla et`l`ettiva capacità delle Regioni (ed anche degli Enti locali) di farsi carico di nuove, importanti competenze, non ultime quelle in materia ambientale. Argomento che, come abbiamo visto implicitamente, ritroviamo anche nelle posizioni del ministro Ronchi che vede nel bastone di comando del centro una garanzia specialmente in ordine alle aree protette. Potrebbero essere ricordati al riguardo i ricorrenti richiami, vere e proprie invocazioni da parte dell'associazionismo ambientalista, a ricorrere più di quanto concretamente si sia fatto e si faccia ai poteri sostitutivi che però come è noto si sono rivelati un'illusione proprio perché, al di là della loro opportunità o "correttezza" costituzionale, assolutamente impraticabili a causa innanzitutto della "inefficienza" e debolezza di un "centro" che più si gonfia di poteri più scoppia. Ma senza nulla togliere anche al più severo dei giudizi sull'operato delle Regioni è chiaro che quando si parla di fallimento, di paralisi di un potere accentrato ci si riferisce a qualche cosa che si riverbera, e non ideologicamente ma concretamente, a cominciare dalle disfunzioni della pubblica amministrazione, sull'insieme delle istituzioni. In questo senso la riforma federalista non si configura come nel passato quale operazione di decentramento, ossia di puro e semplice trasferimento di competenze da una sede ad un'altra, ma come un ripensamento, un vero e proprio rimescolamento complessivo di carte sia in fatto di titolarità di competenze legislative che di funzioni amministrative. Non basta cioè, come in passato, individuare nuove linee di confine tra le varie competenze dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che non avevano assolutamente risolto il problema delle sovrapposizioni e della conflittualità. Questa volta si dovrà procedere rimodellando sì competenze e funzioni, muovendo però dall'assunto che, non essendoci più una sovrapposizione gerarchica e a cascata dei poteri, dovrà funzionare un modello "cooperativo" la cui espressione e sede istituzionale dovrà essere una Camera delle Regioni così come esiste e funziona negli Stati federali, e tutta una serie di strumenti operativi e gestionali imperniati sul "concerto" e la cooperazione. Abbiamo voluto aggiungere queste considerazioni t`orse del tutto scontate perché deve essere chiaro che un nuovo assetto dello Stato non significa, nella maniera più assoluta, ridimensionamento e indebolimento del governo nazionale a vantaggio di altri livelli decentrati. La crisi dell'attuale potere centrale - e potremmo prendere come esempio anche quello delle aree protette - non sta nel t`atto che esso fa troppo, ma che non riesce a fare pur pretendendo di ricondurre a Roma tutto. Noi al Ministero dell'ambiente non rimproveriamo di i`are troppe cose, che forse sarebbe meglio facessero altri. Rimproveriamo di non riuscire a fare quello che dovrebbe. Si prenda il caso del piano triennale. Abbiamo detto dei ritardi nella loro approvazione e nell'erogazione dei finanziamenti previsti. Ma dopo due piani triennali, c'è qualcuno che è in grado di dire come sono stati effettivamente spesi questi soldi, cosa hanno rappresentato, quali effetti hanno prodotto i progetti realizzati, quali e quante persone hanno attivato? E tra i due piani c'è connessione? Al sud i piani hanno innescato o no una inversione di tendenza rispetto al passato, quello tristemente noto per il suo assistenzialismo? Sempre che non si considerino "novità" la gestione ministeriale dell'allocazione di 2000 cassa integrati nei lavori socialmente utili, perché questo è proprio uno di quegli esempi che grida vendetta. Ecco un'importantissima funzione tipicamente nazionale di cui gli organi del governo centrale (non soltanto il Ministero dell'ambiente) debbono farsi carico per esercitare correttamente, efficacemente il loro ruolo. Ma di questo non vi è traccia - che a noi risulti - da alcuna parte. Certamente non c'è traccia nei documenti presentati alla Camera. Eppure ai fini del Governo del Paese sono queste le cose importanti e qualificanti che contano. Molto di più dell'approvazione di una pianta organica, di un regolamento che qualsiasi parco è in grado di farsi molto meglio e molto prima da solo senza tanti visti e timbri che non arrivano mai. Non ci sono insomma istituzioni, livelli istituzionali da degradare ed altri da premiare. Ci sono istituzioni che debbono tutte essere messe nelle condizioni di poter far fronte ai nuovi compiti di un Paese sempre più inserito in Europa. Queste considerazioni conclusive abbiamo voluto non casualmente inserirle sotto il titolo Regioni perché da qui passa uno snodo fondamentale soprattutto per due ragioni. La prima è che funzioni anche centrali (più che "nazionali" perché su cosa sia l'interesse nazionale ci si è sbizzarriti anche in sedi autorevolissime senza addivenire quasi mai a definizioni "spendibili") possono e in molti casi dovranno essere allocate sul piano amministrativo presso le Regioni. Il che significa per il centro competenze ma non apparati burocratici elefantiaci, bensì strutture agili e leggere di altra natura (agenzie, eccetera). La seconda è che quelle funzioni promozionali e di coordinamento, che anche nella relazione di Agricola alla Camera ricorrono ad ogni piè sospinto, riferite alle più diverse tematiche (attività di ricerca e di sperimentazione tecnico-scientifica sugli aspetti conservativi dell'ambiente, delle specie naturali, eccetera, nonché definizione di criteri e di indirizzi in vari campi e materie) richiedono tutte, o meglio richiederebbero - appare persino banale ricordarlo - collaborazione con istituzioni di vario tipo, parchi inclusi. Ma come abbiamo ripetutamente sottolineato in questa nota ciò non si è mai verificato. Tra i compiti del Ministero, come è noto, vi è quello di elaborare norme generali di indirizzo e di coordinamento per la gestione delle aree protette di carattere regionale e locale. A parte il fatto che, come è stato recentemente ricordato, gli atti di indirizzo e di coordinamento, sebbene previsti in centinaia di leggi, si contano sulle dita di una mano, a conferma del fallimento delle leggi-quadro o cornice (almeno sotto questo profilo) rivelatesi uno strumento astratto nella maggior parte dei casi, è chiaro che anche atti meno ambiziosi di quelli stabiliti enfaticamente dalle leggi richiedono una "promozione" concreta di iniziative, una ricerca di contatti e di rapporti, insomma una disponibilità e una volontà che finora è mancata. Come si vede i problemi aperti, specie alla luce del dibattito istituzionale in corso, sono numerosi e tutti rilevanti.

Noi vorremmo poterli discutere non soltanto sulla rivista ma anche in sedi politiche nelle quali si possano avere non soltanto scambi di idee ma anche prendere finalmente decisioni in grado di cambiare le cose.