Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 20 - FEBBRAIO 1997

Conservazione della fauna nelle aree protette
G. Tosi * e Scherini **


1. Premessa
Con il termine di conservazione della fauna selvatica si intende l'insieme delle strategie che7 sulla base di elementi derivanti da un approccio interdisciplinare alla conoscenza della componente animale di un ecosistema, possono essere messe in atto per un'azione di protezione, riqualificazione ovvero anche di utilizzo sostenibile della componente stessa. Nell'ambito di tali strategie la tutela in situ, realizzata mediante l'istituzione di aree protette, rappresenta senz'altro la soluzione "più datata", ma ancora oggi sicuramente valida per il mantenimento della fauna su estensioni più o meno ampie di territorio, in condizioni di naturalità e di libertà atte al soddisfacimento delle esigenze ecologiche ed alla possibilità di estrinsecazione dei moduli comportamentali propri delle diverse specie. Questa azione di protezione trova ampie motivazioni nel riconoscimento, alla fauna, di una serie di "valori"; al pari di altre risorse naturali, anche agli animali può essere infatti attribuito un valore economico, in termini sia, di valore diretto, o valore d'uso, connesso ad esempio con l'utilizzo di una determinata specie per un consumo locale (come nel caso della carne della "selvaggina"), sia di valore indiretto, correlato con una *uizione di tipo educativo, scientifico, estetico e ricreativo, quale fonte di conoscenza e di benessere psicofisico.
Opzioni, queste, che trovano proprio nelle aree protette la massima, potenzialità di espressione, peraltro non disgiunta dalla possibilità di indotti economici frutto di iniziative di "turismo verde", qui l'escursionismo e la fotografia naturalistici, il bird watching, eccetera. Il crescente interesse della comunità per la salvaguardia della fauna selvatica è dimostrato altresì dal riconoscimento, alla stessa, di un altro valore indiretto, il cosiddetto valore d'esistenza, quantificabile con la ci*a che, sotto forma di tasse e di contributi, il cittadino è disposto a spendere per prevenire l'estinzione di una specie o per conservare intere comunità o ambienti. Campagne condotte negli Stati Uniti per la salvaguardia del grizzly (Ursus arctos horribilis) dell'aquila dalla testa bianca (Haliaetus leucocephalus), hanno portato alla raccolta di una media di 20 dollari annui per cittadino; pur non raggiungendo tali cifre, analoghe iniziative attuate da associazioni ambientaliste italiane, attraverso l'adozione di lupi, lontre, delfini e balene, confermano una analoga tendenza anche nel nostro paese. L'attribuzione di un valore d'esistenza agli animali trae origine dal desiderio di una fruizione non distruttiva degli stessi, e dal riconoscimento di una più ampia valenza ecologica e, talora, anche etica della fauna. Per la salvaguardia di tali "valori" può essere definito un protocollo operativo di riferimento per la realizzazione di "Action plan" finalizzati alla conservazione della fauna selvatica nelle aree protette (parchi nazionali e regionali, riserve naturali, eccetera), di seguito esposto con particolare riferimento ai vertebrati terrestri, alle realtà ambientali dell'arco alpino nonché ad alcune esperienze condotte soprattutto nell'ambito della Regione Lombardia.

2. Valutazione quantitativa
La valutazione del quadro faunistico, della entità e struttura delle popolazioni delle diverse specie, costituisce uno dei principali settori di intervento nella gestione di un'area protetta; azioni che, sempre più, richiedono una specifica preparazione da parte di personale tecnico, spesso coadiuvato da collaboratori esterni e da ricercatori .
Allo stato attuale, sia nella elaborazione degli studi naturalistici che presiedono alla pianificazione di parchi e riserve, sia nella normale gestione di queste aree, solo alcune componenti della comunità animale vengono normalmente sottoposte a monitoraggio.Per difficoltà operative, valutazioni di presenza sono in larga misura limitate ai vertebrati e, più occasionalmente e a livello quasi sempre qualitativo, agli insetti. Le valutazioni quantitative, o numeriche, denominate anche, con un termine di validità generale, conteggi sono volte a definire i seguenti parametri strutturali di una popolazione:
• Dimensione (consistenza), rispetto all'areale occupato durante l'intero ciclo annuale o riferita ad una precisa stagione, e, conseguentemente, densità (abbondanza assoluta).
• Abbondanza relativa (stimata attraverso indici).
• Composizione: rapporto tra i sessi, struttura per età o classi d'età.
• Dimensione, composizione (e variazione temporale) dei gruppi (unità sociali) presenti in una determinata area. Facendo riferimento ai parametri indicati in precedenza, risulta possibile operare diversi tipi di conteggi.
• Censimenti esaustivi (Census), ovvero conteggi assoluti (o totali o completi), volti a determinare il numero totale di animali presenti in un dato momento all'interno di una determinata area protetta (densità), nonché, la loro ripartizione per sessi e classi d'età.
• Censimenti per zone campione o campionari (Sample census), volti a valutare la densità e la struttura della popolazione in una o più parcelle campione di una determinata area in esame, in genere per estrapolarla all'intera area.
• Conteggi relativi o per indici (Count), volti alla definizione di un indice di abbondanza relativa, funzione della consistenza assoluta della popolazione.
Tra i metodi maggiormente utilizzati nei parchi di alta montagna per il rilevamento esaustivo delle consistenze dei bovidi (camoscio, Rupicapra rupicapra e stambecco, Capra ibex), vanno citati i cosiddetti censimenti per parcelle (block census); sono basati sull'osservazione diretta, simultanea, da parte di più rilevatori, che operano all'interno di un comprensorio suddiviso in unità di conteggio, lungo percorsi prefissati o da postazioni fisse, con l'ausilio di adeguati strumenti ottici. Per i cervidi, più elusivi, e maggiormente associati alle aree boscate, ed in particolare per il capriolo ~Capreolus capreolus) la tecnica di conteggio totale più efficiente sembra essere quella della cerca e aspetto combinati. Nelle zone caratterizzate da migliore accessibilità e da una rete viaria sufficientemente sviluppata anche il conteggio notturno con faro può fornire valide stime, richiedendo contemporaneamente uno sforzo minore in termini di personale coinvolto. Il metodo è utile anche per volpe (Vulpes vulpes) e lepre (Lepus europaens); sicuramente interessante risulta, per il cervo (Cerus elaphus), anche l'esecuzione dei censimenti al bramito.
Per questi ungulati è essenziale sottolineare l'importanza anche delle osservazioni continuate lungo tutto il corso dell'anno che, pur non potendosi inquadrare quale metodo di conteggio in senso stretto e standardizzato, assumono grande importanza per l'acquisizione di una conoscenza approfondita delle popolazioni presenti sul territorio, in accordo con quanto viene normalmente effettuato nei paesi centro europei. Una ricostruzione ed una valutazione critica di tutte le osservazioni effettuate permette al personale maggiormente coinvolto sul territorio (agenti di vigilanza, guardie forestali, purché, ovviamente motivati e sufficientemente numerosi) di raggiungere una buona conoscenza relativa alla distribuzione spaziale e alle zone maggiormente frequentate dalla specie e una discreta conoscenza sullo status e sugli incrementi annui della stessa. Di particolare interesse è, nei parchi alpini, una quantificazione più possibile esauriente anche delle presenze dei Galliformi. Una valutazione sufficientemente attendibile delle consistenze del gallo forcello (Tetrao tetrix) è possibile mediante l'esecuzione di due censimenti annuali. Censimenti primaverili sono rivolti ad una valutazione quantitativa della classe maschile degli adulti, attraverso l'individuazione, il mappaggio e la classificazione dei punti di canto presenti nel territorio di anno in anno.
I dati così raccolti vanno affiancati a quelli ricavati mediante censimenti estivi condotti in aree campione, eseguiti, con l'ausilio di cani da ferma, cercando di individuare tutte le femmine adulte e i giovani, in modo da poter valutare il rapporto tra il numero dei giovani presenti all'inizio dell'autunno e il numero dei maschi presenti in primavera (successo riproduttivo), il rapporto tra giovani e totalità delle femmineadulte, il rapporto tra il numero delle femmine con covata e la totalità delle femmine adulte. Per un altro galliforme alpino, la pernice bianca, viene invece impiegata una tecnica di censimento che prevede la stimolazione acustica dei maschi cantori, utilizzando un semplice sistema composto da un riproduttore di audiocassette e da diffusori acustici della potenza di 10 watt. Una metodologia sovente impiegata soprattutto per censire i passeriformi, ma anche alcune specie di falconiformi, è infine il cosiddetto mappaggio dei territori. Consiste nel rilevamento di specie in cui gli individui, o determinate strutture sociali (coppie, gruppi familiari, gruppi invernali eccetera), presentano, almeno in un periodo dell'anno, un più o meno marcato territorialismo. Riportando le osservazioni effettuate nel corso di diverse visite su mappe riassuntive, I'addensamento dei punti in cui si è rilevata la presenza degli individui delle diverse specie, in base ad avvistamenti, vocalizzazioni o segni di presenza, permette di dedurre l'esistenza di territori o di aree vitali. I censimenti, ed in particolare quelli esaustivi, non risultano sempre possibili, sia per la vastità sia soprattutto per le caratteristiche ambientali di determinati istituti di tutela, sia per le caratteristiche comportamentali di determinate specie, che influiscono e spesso rendono estremamente ridotta la loro contattabilità. D'altra parte non sempre è indispensabile, per gestire una popolazione, effettuare dei regolari censimenti, limitandosi alla valutazione di indici di abbondanza che riflettono l'evoluzione di una popolazione a partire da fenomeni comunque legati alla densità della specie. Con la realizzazione di percorsi campione può essere ad esempio stimata l'abbondanza relativa di cervi e caprioli correlando il numero di animali avvistati con la lunghezza del tragitto. Spesso, per specie estremamente elusive, una valutazione della abbondanza può derivare esclusivamente da segni indiretti, quali impronte, fatte, eccetera. E questa la situazione più comune con piccoli predatori quali i mustelidi.
In sintesi, per il rilevamento quali quantitativo della fauna selvatica, risulta necessario applicare metodologie rispondenti alle caratteristiche morfologiche ed eco-etologiche delle diverse specie, alla densità delle popolazioni, a la di-
stribuzione degli individui nell'ambiente nonché, infine, alla estensione ed alla conformazione dell'area oggetto dell'indagine. Tutti questi elementi, infatti, influenzano la contattabilità di un animale, termine con cui viene indicata la possibilità di una sua individuazione e determinazione in natura.
Solo una conoscenza approfondita della biologia delle diverse componenti faunistiche e del territorio in cui si è chiamati ad operare, consente di applicare efficacemente interventi di valutazione delle popolazioni e delle comunità animali e, conseguentemente, di gestione.

3. Valutazione delle potenzialità faunistiche del territorio
Al fine di una valutazione critica del reale "status" di una comunità animale o di una singola popolazione, risulta estremamente importante realizzare analisi ambientali che definiscano l'idoneità del territorio di un'area protetta ad ospitare diversi elementi della fauna selvatica, in base a criteri esclusivamente zoogeografici ed ecologici. Obiettivo di base è quello di fornire il quadro di una zoocenosi potenziale il più possibile completa nel rispetto del principio dell'autoctonia dei taxa, in base ad un raffronto tra le caratteristiche degli ambienti e le esigenze ecologiche delle diverse specie. Questa zoocenosi potenziale può essere definita in termini puramente qualitativi, con il risultato di ottenere carte della distribuzione potenziale delle specie, ovvero in termini semiquantitativi, con l'indicazione, per ogni specie, di punteggi relativi di idoneità ambientale, o infine in forma quantitativa, giungendo ad una definizione della capacità biotica delle diverse aree per le varie specie, espressa come densità potenziali biotiche (n. capi/l 00 ettari).
In tutti e tre i casi lo strumento da utilizzare è un modello di valutazione ambientale più o meno sofisticato a seconda del grado di dettaglio cui s'intende giungere (qualitativo-semiquantitativo-quantitativo), ma comunque in grado di fornire una valutazione oggettiva della ricettività del territorio. Questi modelli derivano sia da analisi bibliografiche, attraverso la raccolta dei risultati di varie indagini effettuate sulla autoecologia di una specie, sia da studi dicampo condotti su precise realtà faunistiche. Tali valutazioni possono applicarsi soprattutto a specie contraddistinte da una relativa sedentarietà; infatti pur essendo ipotizzabili modelli di valutazione ambientale anche per alcune specie di uccelli solo nidificanti o svernanti, in realtà i modelli disponibili, ed in particolare quelli semiquantitativi e quantitativi, si riferiscono esclusivamente a specie sedentarie. Il discreto indice di censibilità connesso con la sedentarietà, le dimensioni corporee e con alcuni aspetti dell'eco-etologia, oltre, e non ultimo, I'elevato interesse economico legato alle possibilità di un utilizzo diretto, sono all'origine dell'esistenza di modelli atti ad individuare la capacità faunistica di un determinato territorio in termini quantitativi soprattutto per gli ungulati. In generale tali modelli prendono in esame i fattori ambientali più rilevanti in rapporto alle esigenze ecologiche delle diverse specie, quali in particolare:
- geomorfologia e pedologia - altimetria
- clima
- presenza e caratteristiche dei corpi d'acqua - caratteristiche della vegetazione spontanea - uso del territorio (colture prevalenti, silvicoltura, insediamenti abitativi e industriali, viabilità compresi gli impianti sciistici, eccetera)
- indice di ecotono (grado di frammentazione degli ambienti).
Per quanto concerne in particolare l'utilizzo del territorio vengono in genere analizzati solo quei fattori antropici per i quali non è realisticamente ipotizzabile una modificazione (per lo meno in tempi medi) dello "status" in atto. E ovvio che, nell'ambito di una più complessiva e radicale pianificazione di un'area protetta, possono intervenire modificazioni ambientali anche rilevanti connesse con i diversi usi del territorio, indotte dalle differenti istanze di ordine socioeconomico o anche naturalistico. Tali mutamenti, dipendenti dall'assetto di una determinata area e dalla filosofia generale di gestione cui essa viene sottoposta, possono, nel tempo, comportare parziali variazioni nelle vocazionalitàfaunistiche, ma non possono essere ovviamente considerati né, previsti in fase di valutazione dell'idoneità ambientale. Altri usi del territorio quali la zootecnia, il turismo escursionistico, la raccolta dei frutti del sottobosco, il randagismo, e, qualora consentita, la stessa gestione venatoria, non vengono in genere considerati quali fattori condizionanti la "vocazionalità" di un'area. Pur riconoscendo a questi elementi sia un'azione di modellazione dell'ambiente (ad esempio l'eliminazione della zootecnia può condurre negli anni ad un cespugliamento dei prati pascoli), sia un'indubbia interferenza con le possibilità di insediamento e sviluppo di una popolazione animale (ad esempio il randagismo), dipendendo dall'uomo ed essendo come tali "regolamentabili", tali fattori, in genere esclusi da un'analisi delle vocazioni faunistiche, devono essere invece attentamente considerati nella fase specifica di pianificazione degli interventi di gestione delle diverse specie, alla stregua delle valutazioni di impatto della fauna selvatica sull'ambiente e dei rapporti tra le diverse specie all'interno delle zoocenosi.
Preme sottolineare come, in questo senso, la definizione delle "vocazioni" faunistiche del territorio rappresenti una premessa zoologicamente ed ecologicamente corretta, indispensabile alla realizzazione di successivi e più particolari piani di gestione, ma non sconfini in questa fase della programmazione territoriale, che dipende forzatamente anche da scelte di tipo socio-economico e politico.

4. Parcellizzazione del territorio e impiego di sistemi informativi territoriali per l'organizzazione di archivi faunistici

Da tempo, all'interno delle componenti scientifiche e tecniche che operano nel campo della ricerca e della gestione faunistica, è venuta affermandosi la convinzione che tutte le informazioni riguardanti le entità biologiche presenti in un territorio non possano essere considerate al di fuori dal loro contesto ambientale.
Particolarmente significativi sono a questo proposito i legami spaziali, così come quelli temporali, tra fauna e ambiente.
Ciò richiede la messa a punto di programmi di referenziazione territoriale e ambientale del rilevamento faunistico. In tal senso una soluzione adottata ad esempio nella realizzazione degli studi faunistici del Parco naturale regionale Bernina- Disgrazia - Val Masino, Val Codera (Scherini e Tosi, 1994) è stata quella disuddividere l'area protetta in un insieme di unità geografiche individuate secondo criteri fisiografici, denominate "parcelle", coincidenti con porzioni di territorio caratterizzate da confini facilmente identificabili in campo e, comunque, da una forte omogeneità sia dei caratteri geografici sia di quelli fisionomici. Le parcelle rappresentano una pratica unità di riferimento per la realizzazione di un archivio faunistico (e più in generale ambientale) di un'area protetta, cui relazionare le informazioni relative a consistenze, tipologie ambientali ed idoneità. Preme peraltro sottolineare come, a tale riguardo la moderna tecnologia informatica apra oggi nuovi orizzonti, fornendo potenti strumenti di archiviazione, elaborazione e restituzione anche cartografica di dati territoriali, ambientali e faunistici, in modo parzialmente o totalmente automatizzato.
Tali strumenti si configurano come sistemi informatizzati in grado di gestire correttamente ingenti quantità di informazioni; generalmente indicati con la sigla Sit (Sistemi informativi territoriali), o con la corrispondente sigla Gis, derivata dalle iniziali della dizione anglosassone (Geographic information system), essi posseggono elevate capacità di analisi, attraverso la possibilità di localizzare, sovrapporre e correlare in modo georeferenziato (cioè riferito ad un sistema di coordinate geografiche), le informazioni relative ai più disparati tematismi. Conseguentemente, nella pianificazione delle indagini conoscitive relative alla fauna selvatica di un'area protetta, di cui ai punti precedenti, risulta importante adottare metodologie compatibili con un impiego immediato o successivo di Sistemi informativi territoriali, come attualmente in fase di sperimentazione ad esempio nel Parco naturale dell'Adamello.

5. Definizione del valore faunistico del territorio
Per una pianificazione di interventi differenziati di tutela (individuazione di riserve integrali, riserve orientate, eccetera o definizione di particolari vincoli) all'interno di un'area protetta, ovvero anche per la formulazione di pareri in merito ad opere ed interventi potenzialmente impattanti, risulta di notevole interesse una definizione del "valore faunistico" del territorio, congiuntamente con valutazioni più complessive, relative anche ad altre componenti ambientali. In passato il valore naturalistico del territorio è stato concepito come un concetto astratto, appartenente ad una sfera ideale ritenuta non commensurabile.
Ciò malgrado l'uomo ha saputo coglierne il significato sintetico, giungendo, già nel secolo scorso, sia a misure di conservazione nelle aree considerate più rappresentative sia, spesso, ad una collocazione corretta delle proprie infrastrutture. E proprio nell'ambito della pianificazione territoriale, vista come momento di confronto tra necessità contingenti e ripercussioni delle stesse sul futuro della comunità, che nascono le prime teorizzazioni e proposte metodologiche nel tentativo di risolvere tale contrapposizione.
Ci si riferisce principalmente al comprehensive planning (Lindblom e Charles, 1965) e all'approccio incrementale (Simon, 1958), ma anche a quello di Mc Harg (1969) e di Whyte (1967), nei quali affiora quel concetto economico chiamato da Boulding (1970) economia dell'astronave. Con l'inizio degli anni '70, e l'entrata in vigore, negli USA, del Nepa (National environmental oolicy act, 1969) gli studi per l'Eis (Environmental impact statement) portano a valutare un nuovo indicatore: la qualità della vita. E in questo periodo che vengono sviluppati i primi modelli quantitativi di valutazione degli ambienti (Petersen, 1974; Gehlbach, 1975; Goldsmith, 1975), che in precedenza si era tentato di valutare solo con indici relativi.
Nel 1976 viene presentato l'Hes (Habitat evaluation system), in cui si assume che la presenza-assenza, I'abbondanza e la diversità delle popolazioni animali siano determinate da fattori biotici e abiotici di rapida quantificazione, attraverso una relazione di qualità espressa da particolari curve di funzione.
Allo stesso periodo risale anche l'Hep (Habitat evaluation procedure), metodologia raffinata successivamente più volte, in cui sostanzialmente aree omogenee per copertura vegetale vengono valutate in base all'idoneità ambientale, determinata con l'applicazione di specifici modelli Habitat suitability index), presentata nei confronti di specie o gruppi di specie considerati indicatori in quanto sensibili, o per il loro ruolo nella comunità, o per la loro rappresentatività nell'ambito di categorie di fruitori di comuni risorse ambientali (guilds), o infine per il loro valore d'uso. Da queste prime metodologie, la letteratura si è arricchita di molte proposte di nuovi modelli, piuttosto che dell'applicazione e verifica di quelli esistenti (Berry, 1984).
Tra questi, un metodo applicato anche in sede regionale per una valutazione del valore faunistico è il Bic, Biological information content (Scherini e Tosi, 1991). Tale metodologia rappresenta una procedura oggettiva di quantificazione del "contenuto di informazione biologica degli ambienti", inteso come parametro sintetico di valutazione della "naturalità", derivato non solo dall'analisi della diversità biologica delle comunità, ma dall'esame di una serie più complessa di attributi delle stesse, ovvero delle loro componenti, come evidenziato anche da Odum (1969). In accordo con il sopracitato Autore, tale parametro raggiunge i più elevati valori negli ecosistemi maturi.
Comunità e specie vengono, con questo tipo d'approccio, individuate come soggetti biologici che, in quanto condizionati dai fattori ambientali abiotici e biotici, risultano atti, con la loro esistenza, a "leggere", a indicare determinate condizioni ambientali, senza peraltro giungere a precisarle e descriverle.
Le diverse entità biologiche sono di conseguenza depositarie di un proprio originale contenuto di informazione che si esprime secondo determinate caratteristiche denominate descrittori; più elevato è il numero di specie considerato, più precisa risulta la valutazione del contenuto di informazione biologica dell'ambiente analizzato.
Applicando tale metodo, ed operando sulla base di una parcellizzazione del territorio, è possibile calcolare un valore sintetico globale del valore faunistico di ogni parcella.
La metodologia indicata consente sia di valutare situazioni faunistiche in atto sia di quantificare variazioni in senso positivo o negativo del contenuto di informazione biologica, in rapporto ad un arricchimento o ad un depauperamento delle zoocenosi, a seguito ad esempio di interventi di miglioramento ambientale ovvero di degrado.

6. Configurazione ed estensione delle aree protette
Alcune considerazioni vanno riportate in merito ai criteri di configurazione delle aree protette finalizzate alla conservazione della fauna selvatica; in base a valutazioni generali, in parte derivate dal modello della biogeografia insulare di Mac Arthur e Wilson (1986), si dovrebbe privilegiare, qualora possibile la creazione di grandi aree protette, caratterizzate da un più alto numero di specie presenti e, soprattutto, da popolazioni animali di più ampie dimensioni, meno sottoposte a rischio di estinzione locale. La scomparsa di una popolazione è in effetti favorita dalla ridotta consistenza, correlabile, nel breve periodo e da un punto di vista demografico, con più ridotte capacità di risposta ad eventuali fluttuazioni ambientali. Inoltre piccole popolazioni sono caratterizzate, in genere, da una ridotta variabilità genetica, intesa come insieme delle differenze individuali codificate nei geni, nel Dna, e quindi trasmesse da una generazione alla seguente. Possedendo solo una frazione delle differenze proprie della specie, accumulate lentamente nel corso delle generazioni attraverso l'azione delle mutazioni e della selezione naturale, le popolazioni di dimensioni limitate vanno incontro più facilmente a fenomeni di degenerazione, rappresentati da diminuzione di fertilità, bassa sopravvivenza neonatale e scarsa resistenza alle malattie. Si parla a tale riguardo di depressione da incrocio inbreeding, dovuta all'aumento del numero di alleli recessivi deleteri o letali, che diventano omozigoti come conseguenza dell'accoppiamento tra parenti geneticamente affni. Inoltre le piccole popolazioni possiedono minori capacità di risposta alla selezione naturale operata dall'ambiente, spesso mutevole. Ciò sembra valere soprattutto per specie di Mammiferi di grande mole, con ampi spazi vitali (ome range) e basse densità. E questo certamente il caso della ridottissima popolazione di orso bruno (Ursus arctos) del Trentino, ormai sull'orlo dell'estinzione nel Parco naturale Adamello-Brenta. A titolo indicativo, valutando in circa 1.000 individui la minima consistenza in grado di garantire il mantenimento a lungo termine di una popolazione (Minima popolazione vitale), alcuni autori (Schonewald Cox, 1983) sottolineano la necessità di disporre diparchi non inferiori a 10.000 ettari per la conservazione di grandi erbivori e di non meno di 1.000.000 per grandi carnivori. Grandi aree protette, con una configurazione compatta, tondeggiante, con centro mediamente più lontano dal perimetro esterno rispetto a istituti di tutela con forme allungate, tendono inoltre a minimizzare il cosiddetto effetto margine, rappresentato dalle azioni di interferenza e di disturbo (esempio bracconaggio) che spesso si verificano lungo i confini e, per una certa porzione, anche all'interno del territorio di un parco o di una riserva. Va peraltro riconosciuto come, talora, un sistema di piccole riserve ben localizzate possa includere una maggior varietà di ambienti ed un più alto numero di popolazioni di specie rare rispetto ad un unico grande blocco; inoltre, creando più riserve, anche se di estensione limitata, si può forse prevenire più efficacemente la possibilità di singoli eventi catastrofici quali, ad esempio, la diffusione di epidemie, che possono distruggere una intera popolazione localizata in una unica grande area protetta. L'ovvia conclusione è che la conservazione, pur dovendosi basare su considerazioni rigorosamente scientifiche, deve spesso rappresentare il risultato di un intelligente compromesso, da attuarsi in base alla valutazione critica delle diverse situazioni e realtà locali. In conclusione, un'area protetta deve possedere dimensioni sufficientemente ampie da includere popolazioni vitali delle specie meno abbondanti e con grandi home range, tendendo nel contempo ad ospitare al suo interno la massima diversità specifica. Una soluzione spesso adottata a tale scopo è la aggregazione di piccole riserve naturali in più vasti blocchi, anche a diverso livello di tutela, con la creazione ad esempio di istituti di protezione transfrontalieri, localizzati in zone di confine (quali ad esempio il Parco del Gran Paradiso e della Vanoise o quello dell'Argentera e del Mercantour, sulle Alpi Marittime), nonché, la individuazione di corridoi, atti a consentire la dispersione di animali da una riserva all'altra. In tal modo si favorisce un maggior flusso, uno scambio genico, tra le diverse popolazioni, rendendole parte di una più ampia e completa entità, definibile come una metapopolazione. Spesso, con simili soluzioni, si consente anche la colonizzazione di aree isolate, talora scarsamente popolate, ma potenzialmente idonee da un punto di vista ambientale.

7. Immissioni
Gli obiettivi sopra esposti vengono talora perseguiti e raggiunti, nell'ambito della gestione delle aree protette, anche mediante interventi decisamente più artificiali, i ripopolamenti e le reintroduzioni. Una popolazione presente all'interno di una zona tutelata può divenire la colonia madre, la fonte, di soggetti da "traslocare" in territori scarsamente (ripopolamento) o completamente privi (reintroduzione) di esemplari della specie in oggetto.
Ciò avviene attraverso operazioni, spesso complesse ed impegnative, di cattura e trasporto di animali in nuove aree, con l'applicazione di procedure ormai codificate, comprendenti:
- la raccolta di una documentazione storica atta a ricostruire la passata distribuzione della specie e l'individuazione delle cause di diminuzione o di estinzione;
- la verifica della permanenza di condizioni di insediamento idonee, mediante l'applicazione di modelli di valutazione ambientale;
- la definizione del ruolo funzionale della specie da rilasciare nell'ambito della comunità animale di immissione (valutazione dei rapporti interspecifici con le altre componenti faunistiche, selvatiche e domestiche, quali fenomeni di competizione, predazione, trasmissione di malattie eccetera)
- la previsione dell'impatto sull'ambiente naturale e su eventuali attività antropiche di interesse economico (danni ad essenze forestali, coltivazioni eccetera)
- il rilascio di un numero il più possibile elevato di fondatori in pochi anni, con una struttura (rapporto tra i sessi e le classi di età) che favorisca un rapido accrescimento nel rispetto di una composizione il più possibile naturale;
- I'attuazione di una campagna di sensibilizzazione delle comunità locali coinvolte, il controllo e la verifica dei risultati.
A tale riguardo può essere riportata, come esemplificativa, I'azione condotta sull'arco alpino, soprattutto nell'ultimo decennio, da parte del Parco nazionale Gran Paradiso e del Parco regionale dell'Argentera, per la reintroduzione dello stambecco e per l'incremento delle presenze del camoscio. Oltre a fornire soggetti per operazioni di immissione, parchi e riserve rappresentano a loro volta, quasi sempre, aree privilegiate per attuare interventi di riqualificazione faunistica, finalizzati al raggiungimento della massima diversità specifica, compatibilmente con il reintegro di specie autoctone (originariamente e storicamente presenti nell'area). E questo il significato del ritorno del capriolo e del cervo nel territorio del Parco nazionale d'Abruzzo, quali elementi faunistici atti a ricostituire la rete alimentare che vede al proprio vertice grandi predatori come il lupo (Canis lupus) e la sottospecie appenninica dell'orso bruno, ovvero del tentativo, attualmente in corso sulle Alpi, di reintrodurre il gipeto, o avvoltoio degli agnelli (Gypaetus barbatus).

8. Interventi di controllo o di utilizzo della fauna selvatica
Le modalità di controllo e utilizzo della fauna nelle zone protette non possono essere definite in modo né, univoco né, statico, risultando le situazioni delle diverse aree protette estremamente differenziate, sia dal punto di vista delle caratteristiche ambientali, della estensione e della presenza antropica, sia della composizione e della entità dei popolamenti in esse presenti, dovendosi inoltre forzatamente tener conto anche della dinamica e dunque della possibilità di modifica delle diverse situazioni nel tempo. Ciò vale in particolare per ciò che concerne l'opportunità o meno di attuare, entro i diversi istituti di protezione, "prelievi", possibili con due differenti modalità (abbattimento o cattura di soggetti vivi) per tre diverse finalità: controllo delle popolazioni, utilizzo venatorio, utilizzo di capi per operazioni di immissione.
In questa sede, indipendentemente da quanto previsto dalla normativa vigente (legge 394/91), vengono esposti alcuni indirizzi di gestione possibili, con particolare riferimento ai popolamenti di ungulati, elementi faunistici talora"problematici" e più spesso oggetto di interventi di management.
• Il lasciare agire, in determinate aree, senza alcun intervento di prelievo, i diversi fattori limitanti, comprese le malattie, in condizioni di evoluzione naturale o, quanto meno, "paranaturale", riveste un notevole interesse per la ricerca scientifica anche al fine di ottenere indicazioni biologicamente valide su cui impostare, in altre zone, la stessa gestione venatoria.
Un ruolo prioritario dovrebbe essere svolto in questo senso dagli istituti di tutela di maggiori dimensioni, ed in particolare dai parchi nazionali, in cui, pur nelle attuali situazioni di presenza ed influenza di attività antropiche di varia origine, più facile è l'instaurarsi di processi di riequilibrio numerico e strutturale delle popolazioni.
• Un controllo delle popolazioni di ungulati può divenire necessario in talune aree protette in cui i fattori di seguito indicati possono ostacolare i processi di riequilibrio numerico indotti dall'ambiente, più facilmente operanti in ampi comprensori naturali:
a) le limitate dimensioni (poche migliaia di ettari) rispetto alla estensione ottimalc di comprensori idonei agli ungulati, valutata ad esempio, per il cervo, anche in 50.000 80.000 ettari;
b) la frammentazione del territorio ad opera di strade ed agglomerati urbani, nonché, la stessa pressione venatoria esercitata nelle zone adiacenti alle aree protette, ostacoli ad una libera mobilità stagionale e causa di compressione dei popolamenti, con una accentuazione dei fenomeni di sovradensità rispetto alle capacità recettive delle aree. Un eccessivo carico di ungulati può condurre, soprattutto nel caso del cervo, ad un deterioramento dell'ambiente vegetale e a danni anche considerevoli ad attività agricole e forestali sia all'interno di alcuni ambiti protetti sia nei territori ad essi limitrofi; è il caso ad esempio dell'impatto sulle essenze forestali da parte dei cervi nel Parco nazionale dello Stelvio. Inoltre in condizioni di sovrappopolamento la qualità dei capi si deteriora, favorendo l'insorgenza o comunque la diffusione di malattie anche a carattere epidemico, quali ad esempio la cheratocongiuntivite del camoscio che, in tempi brevi, possono agire con grosse detrazioni di biomasse e, conseguentemente, forti oscillazioni nelle consistenze.
Le malattie vanno indubbiamente considerate come un fattore naturale di limitazione dei popolamenti di ungulati ma ciò pare valido, in assoluto, limitatamente a poche aree di grande estensione, per le quali può essere forse accettato, a fronte di altre opzioni, il rischio di una potenziale diffusione di epizoozie anche a zone limitrofe gestite secondo criteri più utilitaristici. Tale impostazione non pare peraltro generalizzabile alla totalità delle aree protette, e soprattutto a quelle di più limitate dimensioni, in cui un intervento di prelievo dovrebbe essere attuabile, in base a specifiche indagini condotte da enti competenti, oltre che per evitare come già detto un depauperamento dell'ambiente, anche per garantire un soddisfacente stato sanitario delle popolazioni di ungulati. A questo proposito va sottolineato come piani di prelievo attuati in aree protette allo scopo di controllare eventuali "sovrappopolamenti", dovrebbero tener conto, oltre che dei concetti della normale caccia di selezione, anche di più profonde considerazioni di carattere comportamentale, relative alle diverse specie. Significativi in tal senso risultano gli studi sullo stambecco, da cui emerge il rischio di avere, come conseguenza di abbattimenti mal programmati, l'eliminazione di soggetti "pionieri", importanti per un ampliamento degli areali, con un paradossale aumento di densità nelle zone più inaccessibili e spesso meno favorevoli, per un aumentato timore degli animali.
• Un prelievo di tipo venatorio, basato su corretti criteri biologici e su precise regolamentazioni, non dovrebbe essere escluso da aree protette con provvedimenti regionali, soprattutto in quelle realtà in cui un divieto totale, applicato a vasti ambiti, renderebbe difficilmente gestibile l'attività cinegetica nel restante territorio.
• La cattura di ungulati vivi da utilizzare per il ripristino di popolamenti in zone a basso o nullo tasso di insediamento naturale rappresenta, come già detto, una delle possibili vie di gestione percorribili nella quasi totalità delle aree protette.
E bene però ribadire a questo proposito come tale forma di prelievo, di per sé, utile e auspicabile nell'ambito di un programma di riqualificazione faunistica del territorio, possa essere vista, da sola, come un reale ed efficace mezzo di controllo della densità di ungulati all'interno delle aree tutelate in cui viene attuata.

9. Miglioramenti ambientali
L'argomento è stato recentemente sviluppato nei suoi termini generali dall'lstituto nazionale per la fauna selvatica con il documento di "I miglioramenti ambientali a fini faunistici" (Genghini, 1994).
Per miglioramenti ambientali si intendono quelle misure finalizzate a ripristinare condizioni ambientali favorevoli e ridurre o eliminare gli impatti più significativi causati dalle attività produttive sulla dinamica delle popolazioni selvatiche.
I miglioramenti ambientali a fini faunistici hanno quindi lo scopo di modificare i fattori antropici negativi, nell'intento anche di ridurre al minimo gli interventi artificiali di ripopolamento faunistico.
Negli ultimi anni la legislazione comunitaria, nazionale e regionale, sta offrendo nuove e numerose possibilità di intervento in tale settore. In particolare la legge 394/91 promuove un coinvolgimento dei produttori agricoli attraverso contributi per la realizzazione di "...attività agricole compatibili, condotte con sistemi innovativi ovvero con recupero di sistemi tradizionali funzionali alla protezione ambientale...." (articolo 4, comma 1). Vengono previste anche misure di incentivazione per "...opere di conservazione e di restauro ambientale del territorio... " (articolo 7, comma 1) ed ancora, indennizzi per "...vincoli...alle attività agro silvo-pastorali" (articolo 15, comma 2). Tali interventi possono essere sovvenzionati attraverso:
• i fondi di finanziamento comunitari, nazionali e regionali per le aree protette (legge 394/91 e reg. Cee n. 1973/92), gestiti dalle amministrazioni pubbliche e dagli organi direttivi delle stesse aree (enti parco);
• i provvedimenti agro-ambientali di origine comunitaria previsti nell'ambito dei piani zonali pluriennali delle singole regioni.
Anche la Comunità economica europea ha predisposto una serie di provvedimenti per la protezione ed il ripristino degli habitat nell'ambito di aree protette esistenti o da realizzare.
Dopo la direttiva 79/409/Cee, in cui vengono fatti precisi riferimenti a questo tipo di provvedimenti rispettivamente all'articolo 4 e all'articolo 3, la Comunità ha prodotto la direttiva 92/43/Cee che si pone l'obiettivo di "...contribuire a salvaguardare le biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché, dellaflora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato" (articolo 2).
A tale scopo "E costituita una rete ecologicaeuropea coerente di zone speciali di conservazione, denominata Natura 2000. Questa rete, formata dai siti in cui si trovano tipi di habitat naturali elencati nell'allegato I e habitat delle specie di cui all'allegato Il, deve garantire il mantenimento ovvero, all'occorrenza, il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, dei tipi di habitat naturali e degli habitat delle specie interessati nella loro area di ripartizione naturale (articolo 3).
In particolare, per garantire il mantenimento ed il ripristino degli habitat naturali e seminaturali, la Comunità ha istituito uno strumento finanziario per l'ambiente (Life) con il reg. Cee n. 1973/92. Tale strumento prevede che "...per la protezione dellJhabitat e della natura, il sostegno (finanziario) deve in particolare contribuire al cofinanziamento delle misure necessarie per mantenere o ripristinare in uno stato di conservazione favorevole i tipi di habitat naturali prioritari e le specie prioritarie nei siti interessati f guranti rispettivamente negli allegati I e 1I della direttiva 92/43/Cee... ". Infine la Comunità, nell'ambito della riforma della politica agricola (Pac), ha predisposto una serie di regolamenti che possono avere un ruolo significativo per l'applicazione di misure agroambientali con finalità anche faunistiche.
L'applicazione della maggior parte di tali provvedimenti potrà avvenire solo in seguito all'approvazione di piani zonali agroambientali da parte di ogni regione.
Le misure comunitarie di maggior interesse riguardano il ritiro dei terreni dalla produzione ("seaside", reg. Cee n. 1765/92, reg. Cee n. 1541/93 e succ.), i cosiddetti provvedimenti agroambientali (reg. Cee n. 2078/92) e le misure sulla forestazione (reg. Cee n.2080/92).
Dal punto di vista tecnico, gli interventi di miglioramento ambientale a fini faunistici si possono distinguere in due categorie principali:
• interventi di miglioramento dell'habitat;
• Iimitazioni di certe pratiche agricole dannose alla fauna selvatica.
Il primo tipo d'intervento ha lo scopo di migliorare le disponibilità alimentari, incrementare le aree di rifugio e di protezione ed i siti di riproduzione delle specie selvatiche di maggior interesse.
Il secondo tipo d'intervento intende invece limitare o eliminare le cause di mortalità della fauna selvatica indotte dalla realizzazione di alcune pratiche agricole pericolose.
Ogni situazione ambientale rappresenta un caso a sé stante e necessita quindi di scelte specifiche. Per quanto in particolare concerne le aree protette montane e alpine i miglioramenti ambientali a fini faunistici possono favorire la presenza e migliorare la gestione degli ungulati e delle altre specie selvatiche presenti, o potenzialmente presenti, riducendo contemporaneamente la frequenza dello sconfinamento degli ungulati nelle aree coltivate.
In particolare tali interventi sono orientati all'incremento delle disponibilità idriche ed alimentari del territorio, soprattutto nei periodi di maggiore carenza, e alla predisposizione di aree idonee al rifugio ed alla riproduzione delle specie presenti; essi dovranno essere realizzati al fine di favorire una più omogenea distribuzione spaziale delle popolazioni selvatiche, con una riduzione dei danni alle compagini forestali ed alle coltivazioni agrarie presenti in prossimità di questi territori.
Nelle aree incolte o pascolate, in cui il bosco non è prevalente, possono prevedersi:
• Ia semina di colture a perdere;
• Ia falciatura e l'erpicatura di alcune fasce di vegetazione spontanea, da realizzare ogni una o due annate, avendo cura di non danneggiare o disturbare la fauna selvatica presente (quindi meglio nella tarda estate);
• Ia predisposizione di punti di abbeverata e di alimentazione da rifornire nei momenti di particolare emergenza (carenza alimentare ed idrica);
• I'allestimento di ripari artificiali di vario tipo.
Nelle aree boscate primaria importanza assume la gestione forestale, che pertanto non deve più essere vista solo sotto il profilo della produzione del legno e della salvaguardia idrogeologica, ma di un uso plurimo, che comprenda anche quello di una maggiore idoneità al mantenimento della fauna selvatica.
Di particolare importanza risultano le tecniche di governo e di trattamento del bosco, tendenti al mantenimento di un'elevata diversità ambientale, sia per quanto concerne la composizione specifica sia per la sua complessità strutturale, con un'alternanza di radure e chiarie e zone fitte, con una diversa altezza degli elementi arborei equindi con una disetaneità del popolamento. Ciò pare possibile mediante la realizzazione di:
• tagli a buca limitati a zone poco estese (>500 m2) e notevolmente disperse sulla superficie forestale, al fine di creare radure ove, innescandosi una nuova successione, l'evoluzione della vegetazione porti alla produzione di elementi erbacei ed arbustivi importanti dal punto di vista trofico;
• sfoltimento su grandi estensioni, per mantenere e ricreare una struttura disetanea negli elementi arborei;
• predisposizione di parcelle governate a ceduo nell'ambito di strutture forestali gestite a fustaia;
• mantenimento della maggior diversità di specie compatibile con l'orizzonte considerato, sia con interventi di taglio, sia con la piantumazione;
• mantenimento o creazione di un piano arboreo dominato molto ricco di specie anche fruttifere;
• attuazione della ripulitura sistematica a mosaico, su parcelle poco estese e con periodicità non ravvicinata;
• messe al bando delle operazioni di rialzamento
della copertura, estremamente dannose per tutta la fauna;
• trattamento e governo del bosco esclusivamente dopo il 15 luglio nelle aree interessate dalla nidificazioni del gallo cedrone, forcello e francolino di monte.
Da ultimo, allo scopo di favorire le attività di censimento (ed eventualmente di prelievo) delle popolazioni nonché la fruibilità naturalistica e ricreativa di determinate aree, è utile predisporre punti di osservazione in prossimità delle radure al fine di rendere più agevole l'osservazione degli animali. Gli strumenti più utilizzati a questi fini risultano essere le altane.
ln conclusione, la conservazione della fauna selvatica nelle aree protette (ma non solo) deve basarsi su scelte il più possibile fondate su valide conoscenze scientifiche e attuarsi con modalità tecnicamente corrette, dando spazio alla professionalità e rifuggendo il sentimentalismo.

* Università di Milano - Sede di Varese, Unità di ecologia e Gestione ambientale
** Ecostudio Lombardia Sondrio