Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 20 - FEBBRAIO 1997

La pianificazione forestale e la selvicoltura nelle aree protette
Lucio Sottovia*


La selvicoltura e la pianificazione forestale sono parti fondamentali della gestione delle aree protette, in particolare di quelle collocate nelI'arco alpino, laddove il bosco ed i pascoli rappresentano con decisa frequenza le componenti maggiormente rappresentative del mosaico territoriale, se non altro per estensione.
Senza addentrarsi nella tormentata discussione sul significato di area protetta, sulle diverse ispirazioni che ne sono alla base e sui vari indirizzi gestionali che ne provengono, converrà in questa sede riferirsi a quella concezione generale, fatta propria ormai da molte istituzioni locali, secondo cui la scelta di un'area protetta è da correlare prioritariamente all'opportunità di perfezionare per essa, in termini di razionalità e di sostenibilità, il modello d'uso delle risorse territoriali. Si tratta di opportunità e di necessità insieme, fondate sulla consapevolezza della moderna pianificazione ecologica, tesa nello sforzo di raccordare vecchie e nuove forme di fruizione del territorio agli equilibri di stabilità degli ecosistemi ed alle loro specifiche "capacità di carico". L'area protetta in senso generale, che in taluni ambiti regionali si identifica più tipicamente ed estesamente con le zone a parco naturale, riveste dunque il significato di un banco di prova, un campo di applicazione ove poter sperimentare fattivamente modelli di gestione strettamente integrati alle istanze di perpetuazione delle risorse naturali ed alla esigenza, tuttora largamente diffusa, di aumentare per quest'ultime i livelli di stabilità bioecologica e colturale. E implicita in tale contesto concettuale la duplice scelta della conservazione e dell'utilizzazione fra loro strettamente collegate ed interdipendenti.
La selvicoltura esprime al meglio queste premesse giacché, almeno per il territorio alpino, essa deve necessariamente misurarsi con ecosistemi governati da leggi che non concedono facili scorciatoie, tantomeno quelle di indirizzo agronomico, ma che impongono per contro
attenzioni specifiche ed analisi sempre diverse per ogni singola stazione di riferimento. Una delle convinzioni più immediate per gli operatori forestali in ambito alpino è quella dell'impossibilità di schematizzare ed uniformare comportamenti anche per ambienti ritenuti analoghi nei loro parametri costitutivi. Ogni regola di comportamento generale, pur se derivante da formulazioni di impronta ecologica o genericamente naturalistica, mantiene il valore di puro orientamento ed ogni specifica definizione operativa può nascere solo dalla osservazione attenta della singola unità ecologica in esame, dalla meticolosa lettura dei suoi contenuti ambientali e del suo momento evolutivo. Ogni specifico sistema territoriale assume valenze a sé stanti, tali da obbligare alla verifica puntuale caso per caso, evitando schematismi e rigide prefigurazioni. Soprattutto emerge l'esigenza di analizzare la storia e le funzioni che ogni formazione ha svolto nel corso del tempo, oltre a quelle che vi sono richieste attualmente, cercando di raccordarle alle necessità di conservazione e di perpetuazione delle risorse territoriali.
La pianificazione forestale si propone di organizzare razionalmente l'uso e le funzioni del bosco attraverso le analisi che emergono dalla osservazione meticolosa dell'ecologo-selvicoltore, il quale esplora il territorio con specifica attenzione alle unità elementari che lo compongono.
Unità non solo ecologiche, ma, come si è accennato, anche "storico-funzionali". Il pianificatore non può dunque fare a meno del selvicoltore e la separazione medesima le due figure risulta quanto mai artificiosa, giacche il lavoro di costruzione dei piani forestali è sforzo di riordino territoriale e colturale ad un tempo.
Al selvicoltore spetta poi il compito di tradurre in applicazione mirata e dettagliata le impostazioni e le opzioni d'uso a varia scala definite dal pianificatore, il quale peraltro non può addivenire a formulazioni organiche di piano se non sulla base di modelli selvicolturali adeguati ai diversi comparti stazionali. Modelli che si esprimono nella combinazione funzionalmente ottimale dei principali parametri fisici e biologici del bosco e sono perseguiti mediante specifiche forme di trattamento, finanche alla scelta estrema e consapevole di rilasciare alcune aree alla libera maturazione dinamica dei loro ecosistemi, senza alcun orientamento od intervento di sorta. Una scelta quest'ultima che appare necessariamente legata, oltreché ad indici scientifici di valenza naturale dei luoghi, ad un esame del contesto territoriale nel quale essi sono inseriti ed all'opportunità di poter disporre, per il medesimo contesto, di utili riferimenti conoscitivi ai meccanismi naturali degli ecosistemi forestali.
Le istanze del riordino colturale devono dunque rimanere strettamente connesse agli indirizzi funzionali, trovando perciò la loro più idonea collocazione nella pianificazione forestale, che deve essere vera e propria pianificazione ecologica del territorio.
Solo da queste combinazioni possono nascere gli strumenti gestionali che consentono un governo delle aree boscate, e di quelle montane in genere, mirato all'inscindibile legame tra la fruizione e la conservazione.
I programmi di ricostituzione o di restauro ecologico tuttora necessari per buona parte delle foreste alpine, indipendentemente dalla appartenenza o meno ad area protetta, trovano fondamento su queste basi.
L'ecosistema bosco, pur con modulazioni diverse a seconda delle sue molteplici espressioni tipologiche, risente tuttora degli effetti di un gravame antropico durato per diversi secoli.
Le conseguenze consistono per lo più nella diffusa semplificazione delle strutture e dei tipi compositivi e sembrano particolarmente visibili nel versante sud delle Alpi, benché sia ormai riconosciuta pressoché ovunque una decisa tendenza al recupero, tanto nell'estensione spaziale del bosco, quanto nella consistenza dei principali parametri biometrici dei soprassuoli. Sono effetti estesamente evidenti e senza distinzione alcuna in fatto di ordinamento istituzionale delle aree.
Una selvicoltura che si ponga obiettivi ancorché, minimali di sostenibilità o che faccia espressamente riferimento a criteri naturalistici non è altrimenti pensabile se non nel suo stretto raccordo con la pianificazione e nella specificità di approccio verso ogni diversa formazione boscata inclusa o meno che sia in area protetta. Quella che può essere accettata, per aspetti di realismo o di limitatezza delle risorse, è semmai l'opportunità di approfittare proprio delle l`ormazioni istituzionalmente tutelate per elaborare e diffondere modelli razionali di selvicoltura e di assestamento forestale, beninteso qualora gli stessi modelli portino ad efficaci strumenti applicativi per il riordino territoriale su basi ecologiche.

Obiettivi di fondo
Date queste premesse converrà dunque ora inquadrare alcuni criteri di riferimento generale, validi per la pianificazione delle aree forestali e montane oltreché rispondenti alle finalità stesse della loro conservazione.
Primo fra gli obiettivi è il recupero complessivo di naturalità, giacché, deve tuttora considerarsi sensibilmente abbassata rispetto agli standard potenziali di buona parte delle foreste alpine. Naturalità che si configura in maniera saliente con l'articolazione strutturale e l'evoluzione compositiva del sistema ed il cui grado di qualificazione dipende direttamente dalle vicende storico colturali e dal quadro bioclimatico della stazione.
Il perseguimento della naturalità si associa, tuttora con estesa diffusione, alla necessità del recupero di biomassa. Struttura, composizione e biomassa sono infatti gli elementi imprescindibili, di fondo, sulla maturazione dei quali si basa la ricostruzione di assetti ecologicamente funzionali. E quindi durevolmente stabili, capaci possibilmente di perpetuazione.
Non sono i soli, ovviamente, ma ad essi possono correlarsi più o meno direttamente le altre caratteristiche costitutive dei sistemi forestali e le peculiarità cui si deve far riferimento nella gestione ecologica del territorio montano.
Obiettivo strategico in questo senso è la qualificazione del mosaico territoriale naturale, perseguendone trame possibilmente multiformi, ricche di accostamenti e margini fra unità ecologiche diverse. In buona misura ciò può essereottenuto semplicemente attraverso la valorizzazione delle unità elementari del paesaggio forestale alpino, indiscutibilmente vario proprio in ragione della grande articolazione morfologica ed altitudinale che in genere lo caratterizza.
Si tratta anche di superare quella posizione di stampo sostanzialmente ideologico, da tempo dominante in vari ambiti accademici ed amministrativi, secondo la quale il bosco potrebbe essere più o meno ovunque programmato e definito come mescolanza diffusa e minuta di alcune specie e non invece assecondato nella affermazione delle sue unità compositive elementari, di volta in volta diverse a seconda delle combinazioni geomorfologiche ed altitudinali .
Compito primario nella analisi selvicolturale è dunque il riconoscimento di queste unità, in buona sostanza riferibili a specifici tipi vegetazionali. Per ognuno di questi è possibile infatti elaborare quadri di riferimento ecologico e colturale, che certo non forniscono ricette esaustive per ogni realtà peculiare, ma che rappresentano basi insostituibili di partenza per la definizione di modelli gestionali prossimo-naturali.
La lettura attenta del paesaggio vegetazionale ed il perseguimento delle sue potenzialità, assecondando le tendenze compositive d'ogni singola stazione, rappresentano pertanto le direttrici sulle quali può correttamente impostarsi la ricostruzione dei tasselli naturali del mosaico territoriale montano. Tale criterio non esclude, anzi si associa alla ricostruzione "interna" di ogni singolo tassello tipologico, attraverso la riqualificazione biometrica dei parametri strutturali e funzionali degli ecosistemi.
A tal riguardo sembra opportuno indirizzare la coltivazione verso modelli operativi calibrati sulle esigenze di riordino di ogni singola realtà locale, ma rispondenti comunque ai seguenti criteri generali:
- Stabilità fisico-biologica dei sistemi forestali, cercando di elevarne le specifiche capacità di reazione ai fattori avversi, operando selettivamente in termini di vitalità individuale e di conformazione favorevole a livello sia di singoli soggetti sia di gruppo.
Tale selezione dovrà tuttavia evitare di degenerare nella disarticolazione della struttura generale del popolamento.
- Sostegno e promozione della rinnovazione esclusivamente per via naturale, fatte salve le eventuali necessità di intervento diretto per scopi immediati ed irrinunciabili di ripristino, impiegando in tal caso specie di provenienza locale ed in coerenza alle potenzialità floristiche e vegetazionali del luogo.
- Prelievi commisurati alle capacità specifiche di crescita del sistema ed alle sue esigenze di perpetuazione. Coerenza dei prelievi al grado di evoluzione dell'equilibrio suolo-soprassuolo, con attenzione particolare alle formazioni di prima colonizzazione.
- Preferenza di indirizzo verso strutture articolate già su piccola scala, favorendo comunque le aggregazioni ed i collettivi naturali del popolamento nello spazio oltre alla loro possibilità di affermazione nel tempo. Attenzione particolare è da porre, inoltre, a quei sistemi territoriali-ambientali ecologicamente significativi, pur se di dimensioni limitate, come le radure, le piccole torbiere, le "schiarite" aride, le arene di canto dei tetraonidi, i macereti sparsi e così via. Si tratta infatti di elementi che conferiscono all'areale della foresta, intesa nella sua accezione più ampia, quella diversificazione di tessitura che è carattere primario di naturalità
- Preferenza verso il governo ad altofusto in special modo nelle formazioni dell'orizzonte montano (faggete, acero-tiglieti, acero-frassineti, ecc.).
Nel caso del mantenimento del ceduo per ragioni peculiari di carattere socioeconomico o per la riconosciuta impossibilità di raggiungere validi assetti d'altofusto in tempi certi (querceti termoxerofili di orniello, carpino nero e roverella), si rendono necessarie misure di qualificazione del modello di trattamento colturale, in genere con l'allungamento dei turni ordinari, il rilascio all'evoluzione naturale delle zone più impervie e più rade, il rispetto delle specie di valenza faunistica, il recupero della diversificazione strutturale mediante il taglio/rilascio di intere ceppaie e non di singoli assi arborei, la dislocazione a gruppi delle matricine, il rispetto dei "monumenti" verdi e così via.
- Manutenzione generale del sistema boscopascolo attraverso l'individuazione e la conservazione di tutti gli elementi di funzionalità che consentono l'utilizzazione razionale delle areepabulari senza una diffusa interferenza negativa con le aree forestali.
Per esempio la definizione e il rispetto delle fasce di transito in bosco, la loro turnazione nel tempo, la manutenzione dei punti di abbeveraggio naturale, il recupero di aree pascolive già utili, ma interessate da una evidente successione secondaria (invasione di arbusti ed alberi), la regolazione e la perpetuazione della alberatura eventualmente presente.
- Perseguimento di un assetto di equilibrio fra fauna e vegetazione arborea con attenzione, sia in termini di analisi che di controllo, agli impatti sulla rinnovazione naturale ed agli effetti della struttura del bosco sui cicli biologici delle specie principali (cervidi, tetraonidi, carnivori superiori...). Formulazione quindi di limiti di carico faunistico ammissibile e di interventi di riqualificazione strutturale per le esigenze trofico-riproduttive degli animali nemorali (creazione di margini di luce, apertura di corridoi e di aree nude, rilascio di piante policormiche o secche, rispetto ad introduzione di specie baccifere, tutela della monumentalità arborea, ecc.).

Considerazioni generali e conclusive
Si tratta di criteri, quelli sopra delineati, che formano ormai la base concettuale di molte esperienze selvicolturali di impronta naturalistica. Essi debbono comunque essere continuamente ripensati e precisati nell'applicazione quotidiana, evitando di cadere nella formulazione astratta di regole codificate, ritenute valide a priori.
Sono infatti criteri orientativi che, nella loro applicazione, non possono prescindere dalle particolarità evolutive del soprassuolo e dalle funzioni stabilite con la pianificazione.
Uno sforzo di importanza decisiva è inoltre quello connesso alle esigenze di una corretta educazione all'uso ed alla gestione delle aree naturali come il bosco. Si tratta di un fattore di valenza strategica relativamente alla possibilità di ottenere risultati e di mantenerli nel tempo.
Al di là e al di sopra delle consuete regole di una fruizione rispettosa ed equilibrata, si impone in primo luogo una revisione critica del concetto di ordine nelle finalità e nella condizione delle operazioni selvicolturali. E assai diffusa nella comune opinione della gente la pretesa necessità di riordino dei boschi sotto il profilo estetico, tuttora con un forte connotato di semplificazione geometrica. Si insiste, anche in forme esplicite, sulle opportunità di ripulitura di tutti gli elementi ritenuti accessori come arbusti e piante secche, sulla pretesa migliore rispondenza delle formazioni ad assetto distributivo regolare. Si paventa ovunque l'insorgenza di danni e di attacchi parassitari derivanti dalla presenza di ramaglia e di tronchi divelti al suolo. Si tende a far corrispondere ed a collegare la funzionalità della foresta a generici concetti di "ordine" e di "pulizia".
In buona misura si tratta di posizioni legate ad una concezione agronomica di tipo razionalistico, semplicemente trasferita al bosco ed imperniata sull'esaltazione acritica del ruolo dell'uomo nel governo dei sistemi naturali.
Per altra parte si ha a che fare con atteggiamenti, per sé stessi comprensibili, di paura nascosta di fronte alla complessità, talora così poco rassicurante, della natura o, più banalmente, con il disagio derivante dalle difficoltà di percorrenza per gli ostacoli e le asperità del terreno.
E tuttora mancante, assai spesso anche negli operatori diretti, la consapevolezza che l'apparente disordine del bosco costituisce non già un aspetto di degrado o di trascuratezza, ma un elemento di ricchezza e qualificazione del sistema. Il bosco in altre parole non va ordinato, ripulito o regolarizzato. Per quanto possibile o compatibile con la fruizione e pur in contrasto con una certa tendenza dell'uomo alla semplificazione (innata od acquisita che sia), si tratta al contrario di articolarlo, di renderlo cioè apparentemente disordinato, ma in realtà ricco e diversificato, favorendo la naturale e casuale aggregazione degli individui, nella convinzione che tale casualità obbedisce invero alle precise leggi di conservazione dell'ecosistema.
Per tali scopi è fondamentale l'osservazione e lo studio dei boschi a riserva integrale o di quelli rilasciati da tempo alla evoluzione naturale, così come parrebbe analogamente utile l'istituzione di piccoli inclusi naturaliformi, quali testimoni per ogni specifico ambito colturale oggetto di pianificazione.
Queste argomentazioni sull'ordine-disordinenon coinvolgono aspetti di puro dettaglio, come potrebbe sembrare; esse attengono ad una impostazione di base che ha ripercussioni dirette sia a livello culturale e di educazione alla fruizione della foresta o della natura in genere, sia a livello di immediata operatività selvicolturale nell'orientare i modelli di intervento. Sotto il primo profilo si tratta di affinare la divulgazione e l'informazione attraverso la creazione di veri e propri strumenti educativi. Strumenti pensati in modo tale da rappresentare non già l'edulcorata e statica immagine delle aree naturali protette, così come in gran parte viene tuttora affidata alla pubblicistica ed alla stampa per finalità di esclusiva promozione, ma espressamente creati per la formazione, con l'invito alla osservazione diretta e con tutte le provocazioni e gli stimoli culturali ritenuti utili alla crescita educativa dei soggetti della fruizione. Soprattutto per gli usi turistico ricreativi, altrimenti affidati a modelli di puro consumo e di sostanziale estraniazione dal mondo naturale.
Gli stessi piani di assestamento forestale potrebbero costituire mezzi assai significativi in tal senso, rappresentando efficacemente e senza alcuna mistificazione l'evolvere dei sistemi boscati in relazione all'utilizzazione ed all'azione antropica in generale; si tratta naturalmente di renderli consultabili attraverso un linguaggio idoneo e di promuoverne la diffusione negli ambiti di frequentazione.
Per quanto attiene al profilo dell'operatività selvicolturale, il concetto del "disordine" si traduce in approcci mirati di riqualificazione, soprattutto a livello di struttura e di composizione del bosco. Sono già diffuse, soprattutto nelle Alpi svizzere ed in alcune aree del Trentino orientale, diverse esperienze sia di rinfoltimento che di diradamento in fustaia, che tengono conto delle opportunità di riassetto naturale attraverso il rispetto delle dinamiche naturali di gruppo, con la ricerca e l'affermazione, in particolare nelle aree d'alta quota, di collettivi arborei stabili, di margini articolati e di aree nude in proporzione equilibrata all'estensione delle aree chiuse.
Nello stesso tempo e nelle stesse zone sono già operative diverse formulazioni di trattamento che pongono una decisa attenzione nel recupero di maggiori livelli di necromassa al suolo e nel rilascio di aree "testimone" non trattate.
Si tratta di esperienze operative tuttora episodiche e parziali, ma che potrebbero essere utilmente intensificate proprio a partire da aree istituzionalmente protette, nello sforzo di fornire esempi e risultati diretti, cui potersi riferire in ambiti territorialmente ed ecologicamente analoghi.
E questa una esigenza diffusa, comune un po' a tutti gli operatori del bosco.

*Responsabile Ufficio
Assestamento Forestale della Provincia Autonoma di Trento