Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 21 - GIUGNO 1997


Pianificare, come?
Vittorio Ducoli *
 

Premessa
La legislazione italiana in materia di aree protette, sia quella nazionale sia le varie normative regionali, assegna una primaria importanza al processo di pianificazione per la definizione delle linee di indirizzo e di gestione dei territori tutelati. Il legislatore ha affidato alla pianificazione territoriale il compito primario di individuare, per ciascuna area protetta, gli obiettivi da raggiungere, i metodi ed i mezzi per conseguirli, le norme ed i vincoli cui sottoporre le aree protette ai fini della tutela e dello sviluppo. A fronte di questo ruolo forte assegnato alla pianificazione, la realtà delle aree protette italiane è caratterizzata in generale, pur con le dovute eccezioni, da forti ritardi nella predisposizione degli strumenti di piano, e da ancora maggiori difficoltà nella loro attuazione. In generale si può affermare che in Italia la politica delle aree protette sta incontrando enormi difficoltà proprio su uno dei temi cui viene attribuito un ruolo centrale: la pianificazione come metodo di lavoro e gestione. Del resto i Parchi su questi temi si trovano in buona compagnia: è sotto gli occhi di tutti il sostanziale fallimento della pianificazione paesistica introdotta con la Legge 431/85, mentre ancora poche sono le province che hanno dato corso ai dettami della legge 142/90 in tema di pianificazione territoriale. Proprio il fatto che queste difficoltà si riscontrino in termini generali essendo in larga parte svincolate dai diversi modelli amministrativi e giuridici che configurano le aree protette nazionali e regionali, impone una riflessione sulle problematiche che hanno portato a questo.
 



I problemi salienti della pianificazione dei parchi

a) La mancata partecipazione
La pianificazione è un processo tecnico politico, che come tale deve vedere il coinvolgimento di una pluralità di soggetti, istituzionali e non. Questo è tanto più vero quando si tratta di decidere linee di gestione di un territorio che vedano alla base delle scelte obiettivi di tutela ambientale e paesaggistica, che quindi, in quanto tali, confliggono con interessi e scelte pregresse basate su sviluppi intensivi o su aspettative di questo tipo.
Le linee programmatiche e le scelte operative devono quindi discendere da una reale partecipazione dei soggetti e degli interessi, anche conflittuali, che operano nelle aree da sottoporre a pianificazione.
Un primo grande limite dell'esperienza italiana in tema di pianificazione, ed in particolare di pianificazione territoriale, sta proprio nell'aver sostituito ad una reale partecipazione dei soggetti interessati, raggiungibile solo attraverso le procedure di negoziazione sperimentate in molti paesi, forme di assemblearismo, o di consultazione che denotano seri limiti in termini di effettiva rappresentatività ed efficacia degli atti assunti.
Ne deriva che gli strumenti di piano la maggior parte delle volte risultano essere od essere percepiti come atti unilaterali, per la cui attuazione nessun soggetto si sente impegnato tranne (forse) il Parco che l'ha predisposto.

b) L'eccesso di zonizzazione
E un dato ormai acquisito che la pianificazione paesistica ed ambientale italiana soffre di una concezione "urbanistica" del territorio.
Tranne lodevoli esempi, i piani delle aree protette assomigliano spesso a dei P.R.G sovraccomunali, nei quali alle analisi demografiche e socio-economiche sono state affiancate analisi naturalistiche, storiche, paesaggistiche etc. Il risultato che normalmente ne sortisce è una esasperata zonizzazione del territorio, con una serie di norme per ciascuna zona che discendono dall'impostazione tipica della pianifica-
zione urbanistica.
Non è un caso a questo proposito che in numerosi casi le équipes di piano siano coordinate da architetti. La complessità degli ambienti naturali e delle interazioni uomo-ambiente, soprattutto se viste nell'ottica di perseguire obiettivi di tutela, mal si concilia con compartimentazioni stagne del territorio in zone nelle quali è "consentito" o "non è consentito" svolgere determinate attività: basta pensare ad una delle componenti essenziali della tutela ambientale, la fauna (per definizione mobile) per comprendere come la suddivisione rigida e dettagliata in zone di un territorio unitario comporta notevoli problemi anche gestionali.
In generale vi è quindi da mettere in dubbio un modello di piano basato sullo schema ZONA-NORMA, che nel caso di un Parco (ma forse anche in altri casi) dovrebbe essere sostituito da piani basati sullo schema OBIETTIVI- METODI E MEZZI. Gli stessi classici passi di formazione tecnica degli strumenti di piano devono, a mio avviso, essere sottoposti a profonda revisione. In particolare è criticabile il metodo, largamente seguito, ANALISI SETTORIALE - SINTESI Dl PIANO. e questo per una serie di motivi:

  • a) in genere le analisi settoriali vengono compiute da singoli tecnici, senza sufficienti raccordi metodologici, e comunque tendono a scomporre l'unicum territoriale in una serie di comparti non comunicanti;
  • b) la sintesi di piano si limita in genere a sommare, con incroci per strati, i risultati delle analisi, e non ha gli strumenti per valutare appieno le interazioni tra gli elementi costituenti la realtà;
  • c) il paradosso si raggiunge, a mio avviso, quando alla sintesi di piano segue una ulteriore fase di scomposizione e compartimentazione ai fini della pianificazione di dettaglio o di settore (ad esempio nel caso della pianificazione dei Parchi Regionali Lombardi).
    Si dovrebbe per questi motivi passare ad un approccio alla pianificazione di tipo sistemico, (nel caso specifico ecosistemico), che potrebbe garantire la percezione, oltre che dello stato, anche delle dinamiche e delle interazioni ambientali; la pianificazione territoriale su base ecologica ha compiuto, in questi decenni sufficienti passi metodologici per essere adottata come metodo pianificatorio, soprattutto nel caso delle aree protette.
    Un ostacolo di non poco conto all'attuazione di questa ipotesi metodologica e costituito dal quadro normativo nel quale in genere i piani dei Parchi si inseriscono: anche in questo caso si tratta per lo più di normative che risentono di una logica "urbanistica" nella concezione del territorio e che regolano i livelli di pianificazione e di programmazione di conseguenza.
    Da questo punto di vista si può rimarcare come il Piano per il Parco previsto dalla L. 394/91 per i parchi Nazionali potrebbe essere una eccellente palestra per la sperimentazione di nuove metodiche di pianificazione ambientale, anche se i primi passi del Ministero dell'Ambiente in questo senso sembrano risentire fortemente di una logica "tradizionalista" nel senso qui evidenziato.
c) I tempi biblici
La formazione e l'approvazione dei piani richiedono in genere sia a causa della complessità delle analisi richieste, sia a causa delle procedure di analisi ed approvazione tempi lunghissimi.
Se a questi tempi si aggiunge il tempo necessario perché negli organismi amministrativi dei Parchi si consolidi la consapevolezza politica della necessità del Piano, si giunge a comprendere con facilità perché il numero dei parchi per i quali il piano è "in corso di formazione" rimanga nel tempo considerevolmente elevato. A fronte di ciò vi è generalmente, nella normativa di riferimento, I'indicazione di tempi medio brevi per la formazione dei piani (le leggi pullulano di frasi del tipo entro x mesi gli enti di gestione predispongono...) cui puntualmente non segue alcuna azione nel caso di inadempienza.
Eclatante a questo proposito il caso della Legge Quadro sulle aree protette, che fissa in sei mesi (!) dalla costituzione degli Enti Parco Nazionali il termine per la adozione del Piano. A più di quattro anni dalla emanazione della Legge e con tutti gli Enti parco che ormai hanno superato i primi anni di esistenza, non risulta che alcun piano sia stato formato.
Una conseguenza di questi tempi, oltre all'ovvia precarietà e soggettività nell'azione di gestione, è il fatto che nei casi estremi (ma non troppo) il piano nasce vecchio, superato dai dinamismi territoriali.
 
d) Le competenze sommate
Uno dei fattori che più limitano la concreta attuazione di un Piano, è il fatto che lo stesso non sostituisce, in genere, gli altri strumenti di pianificazione territoriale, ma ad essi si affianca, con obiettivi e metodi che non sempre collimano. Una importante conseguenza di questo fatto è che vengono comunque mantenute in vita tutte le competenze plurime che sul territorio insistono, e possono generarsi conflitti di competenza difficilmente risolvibili e che comunque condizionano l'attuazione degli obiettivi di piano.
A questo rischio sembra essersi sottratto il legislatore che, nella legge 394/91, afferma che il piano per il Parco sostituisce ogni altro livello di pianificazione: come questo sia praticamente possibile, stanti ad esempio le prerogative comunali nella pianificazione urbanistica, non è ancora ben chiaro, e solo la giurisprudenza che deriverà dai piani concretamente approvati ed attuati potrà risolvere il dubbio.
e) La mancanza di verifiche
Quando il complesso iter tecnico-politico che porta all'approvazione dei piani giunge a termine, in molti casi si considera concluso il processo di pianificazione: viene a mancare completamente, in molti casi, qualsiasi verifica dell'attuazione del piano e del raggiungimento degli obiettivi.
E questo un aspetto altamente sconcertante, che porta a vedere il piano come un atto in sé, quasi scolpito nel tempo, non come uno strumento flessibile per il raggiungimento di concreti obiettivi programmatici, da sottoporre a verifica e a cambiamenti qualora si rivelasse inadeguato rispetto a questi ultimi. Anche in questo caso sia la legislazione sia gli organismi tecnici di chi dovrebbe controllare l'attuazione del piano si rivelano del tutto inadeguati a perseguire una moderna politica programmatoria. I piani, anche per questo motivo, si ritrovano facilmente, dopo parecchi anni, nei cassetti degli uffici pubblici.



Un ulteriore problema: le aree contigue
Le problematiche che abbiamo visto, relative alla pianificazione delle aree protette, si ritrovano in molti casi moltiplicate nelle aree a ridosso dei parchi, che in alcune legislazioni regionali e nel caso dei Parchi nazionali possono entrare a far parte del sistema protetto con il nome di aree preparco o aree contigue.
La necessità di definire e di sottoporre a pianificazione un'area contigua al parco propriamente detto nasce dalla constatazione che per proteggere adeguatamente ambiti di grande valore naturalistico è in genere necessario raccordare le politiche di gestione territoriale delle aree protette con quelle dei territori esterni, ma funzionalmente collegati a queste, le cui dinamiche evolutive possono influire sull'assetto delle aree protette propriamente dette. In questo senso il concetto di area preparco (od area contigua) è largamente diffuso nelle esperienze di protezione della natura in area vasta sia in Europa sia nel resto del mondo.
Basterà citare a questo proposito il modello delle Riserve della Biosfera istituite dall'UNESCO, che prevede una zona di raccordo tra l'area di protezione e il restante territorio, nella quale favorire e razionalizzare gli usi tradizionali delle risorse naturali. In Italia, le due esperienze "pilota" nella definizione di un sistema di aree protette, quelle della Regione Piemonte e della Regione Lombardia, hanno risolto il problema del raccordo tra gli ambiti di protezione ed il resto del territorio secondo modalità differenziate: prevedendo aree preparco nel caso del Piemonte, includendo direttamente nei parchi le aree che a rigore avrebbero dovuto essere considerate aree contigue nell'altro. A più di un decennio di distanza da queste impostazioni si può forse affermare, vista la grave crisi che attraversa il sistema dei parchi lombardi, che quella impostazione, pur interessante e per molti versi innovativa si è rivelata di difficilissima gestione pratica.
Il legislatore nazionale, stabilendo la possibilità di definire le aree contigue ai parchi nazionali, sembra avere sposato il modello "piemontese", prevedendo forse una perimetrazione "risicata" dei Parchi Nazionali. In realtà, soprattutto nel caso di alcuni dei parchi istituiti con l'entrata in vigore della legge 394/91, I'estensione delle aree protette vere e proprie è tale da rendere difficilmente pronosticabile la individuazione anche di aree ad esse contigue con una qualche valenza in termini di tutela naturalistica e paesaggistica. In ogni caso, la legislazione vigente è estremamente vaga nel definire il reale significato e la reale portata in termini di programmazione e di pianificazione delle aree contigue ai parchi nazionali: I'art. 32 della legge 394/91 definisce l'area contigua come zona nella quale disciplinare le attività vietate nell'area protetta, ed in particolare ie attività estrattive e venatoria. In questo senso si può affermare che le aree contigue, così come previste dalla legislazione italiana, sembrano figlie del divieto di caccia generalizzato nei Parchi.
Ne è una controprova il fatto che l'altra legge nella quale si citano le aree contigue ai parchi è la legge 157/92 sulla caccia, che ipotizza la riperimetrazione degli stessi ai fini dell'applicazione dell'art. 32 della 394. In questo caso si è giunti al paradosso (solo apparente?) di ipotizzare l'uso dello strumento dell'area contigua per consentire di restringere aree protette "troppo ampie".
Anche in considerazione del fatto che le aree contigue vengono individuate dalle regioni: d'intesa con gli enti parco, la maggiore incertezza circa la natura delle aree contigue come definite dalla legge 394/91 è comunque dovuta al fatto che non è chiaro a quale livello della pianificazione territoriale si inserisca la loro individuazione:

  • Non a livello di piano del Parco, visto che l'iniziativa è delle regioni e non dei soggetti (enti parco) demandati alla pianificazione dell'area protetta propriamente detta;
  • Non a livello di pianificazione territoriale in senso stretto demandata dalla legge 142/90 alle province;
  • Non a livello di pianificazione venatoria, che pure sembra stare tanto a cuore al legislatore, che è ancora compito delle province.
    In definitiva pare di poter affermare che le aree contigue ai parchi, almeno a quelli nazionali, se nascono dalla inderogabile esigenza di non fare dell'area protetta un'isola di tutela "recintata" a fronte di un contesto territoriale che presenta dinamiche del tutto diversificate, ben difficilmente potranno assolvere al compito di raccordo territoriale che si prefiggono, quantomeno sintanto che non verranno definiti i contorni tecnico-amministrativi che le devono sottendere.
    Da quanto detto, risulta chiaro come sia possibile fornire ben poche certezze sulla natura reale di un istituto (I'area contigua) di per sé indefinito: tuttavia, da un punto di vista strettamente tecnico alcune caratteristiche generali possono essere individuate.
    Innanzitutto appare chiaro che l'area contigua deve essere un territorio funzionalmente legato all'area protetta, tale legame può essere espresso essenzialmente a due livelli:
  • a livello ecosistemico e paesaggistico;
  • a livello socioeconomico.
    Questo legame di funzionalità, definito dai predetti due livelli, può portare ad una metodica di individuazione dei confini dell'area contigua basata su criteri oggettivi.
    Da questa semplice constatazione derivano una serie di affermazioni su cosa deve essere l'area contigua al Parco:
  • a) Deve essere il luogo in cui si individuano modalità di gestione del territorio ed anche di tutela naturalistica e paesaggistica che siano strettamente raccordate con gli obiettivi generali del Parco. Pur non potendo, per ovvii motivi, essere estesi i vincoli d'uso del territorio presenti nell'area protetta anche nell'area contigua, è indubbio che uno dei significati primari della stessa è costituito dalla necessità della salvaguardia dei caratteri essenziali del territorio ed in particolare del paesaggio; se ne desume che uno dei compiti dell'area contigua sarà la conservazione delle attività tradizionali che consentono il mantenimento dei tratti paesaggistici.
    Una eventuale normativa dell'area contigua dovrà quindi porre particolare attenzione all'esercizio delle pratiche agro-silvo-pastorali, ed all'impiego di materiali e tipologie tradizionali nei manufatti.
  • b) Deve essere il luogo dove si concentrano (laddove possibile) le iniziative di promozione
    dello sviluppo compatibile che il Parco ha tra i suoi obiettivi, e che non possono trovare capienza nell'area protetta perché, rischierebbero di compromettere la tutela o perché, scarsamente incisive (si pensi ai molti parchi il cui territorio è quasi disabitato); nelle aree contigue potrebbero essere localizzati i servizi e le strutture legati alla fruizione del Parco.
  • c) Può essere il luogo nel quale estendere i benefici e le agevolazioni previsti dalla legge quadro per i territori protetti. Questa e un'arma a doppio taglio (che in alcuni casi sta "affrettando" la nascita di ipotesi di aree contigue): si deve evitare in ogni modo che le aree contigue siano viste come il luogo dove non essendo presenti i vincoli d'uso del territorio tipici delle aree protette, ne sono però presenti i vantaggi in termini di agevolazioni e finanziamenti. Il risultato potrebbe essere la tendenza e la sollecitazione ad avere la aree contigue e non più le aree protette. Nelle scarse esperienze su questo tema che si sono finora registrate è stato agevole notare come, a seconda che prevalga una visione di tipo "territoriale-ambientale" ovvero "socioeconomica" dell'area contigua essa si dilata o si restringe, assume contorni e confini differenziati. Il dibattito è aperto, favorito da una legislazione che autorizza tutti all'interpretazione della norma. Difficilmente, per le problematiche che si è cercato qui di evidenziare, senza un preventivo chiarimento normativo tale dibattito giungerà ad una conclusione fattiva. Del resto, nella maggior parte dei casi, vi sono ancora da costruire le aree protette: le aree contigue a queste possono attendere qualche tempo.

* Direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi