Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 23 - FEBBRAIO 1998

Anatomia di una sconfitta. Premessa di una riscossa.
Mario Di Fidio

In 32 anni di esperienza professionale, dal mio osservatorio lombardo ho assistito ai fallimenti a catena della pianificazione intercomunale (anni '60), comprensoriale (anni '70), paesistica (anni '80). Sono stato per 18 anni, fino alla scorsa primavera alla guida del Servizio Parchi della Regione e quindi al centro delle battaglie per la difesa della natura e del paesaggio. Gli unici piani territoriali e paesistici della Lombardia con concreta valenza giuridica erga omnes (e diciamo pure con adeguato corredo di vincoli) sono stati finora i piani dei parchi regionali.
I parchi regionali hanno in qualche modo "messo in forma" l'area metropolitana, preservandola da disastri maggiori; i piani dei parchi sono un buon prodotto tecnico, un contributo importante alla nascita di una scuola italiana di pianificazione paesistica. Ciononostante non mi sfuggono le ragioni di una sconfitta complessiva della politica di difesa del paesaggio non solo in Lombardia ma nell'intero Paese. Approfondire con franchezza anche autocritica queste ragioni è la premessa indispensabile per la riscossa.
Sin dall'inizio i parchi è più generale le aree protette (comprese quelle per la tutela delle bellezze naturali) sono state concepite dalla classe dirigente italiana come luoghi per confinare e non per sperimentare ed estendere la difesa della natura e del paesaggio, nel sottinteso che sul resto del territorio l'economia dovesse avere le mani libere. E una trappola in cui anche molti ambientalisti sono caduti, i più scettici pensando almeno di salvare il salvabile; pochi hanno pensato che il Bel Paese meritasse ben altro, ossia un grande progetto, capace di salvarlo nella sua interezza. Fatti i piani dei parchi ed applicati i vincoli, con immensa fatica ed inevitabili compromessi, ci siamo accorti che alle spalle non avevamo più il necessario sostegno politico e sociale. Ci hanno detto che la politica dei vincoli non reggeva più: tutto sbagliato, tutto da rifare.
Con umiltà e tenacia cerchiamo di capire difetti ed errori e di introdurre i necessari correttivi, ma la classe politica che ha retto l'Italia nella prima e la regge nella seconda Repubblica non può sfuggire alla sua responsabilità storica: i fallimenti a catena dei tentativi di pianificazione sono il riflesso della mancanza di un grande progetto per l'avvenire del nostro Paese, in cui tutto il popolo si riconosca e collabori: il territorio e lo Stato ne sono usciti distrutti; è quasi un prolungamento della sconfitta bellica. Questo è il vero problema: ci troviamo a gestire un disastro epocale e se vogliamo uscirne dobbiamo avere il coraggio di ridiscutere tutto, ossia non solo le leggi e le istituzioni, come va oggi di moda, ma anche la politica, l'economia, la società, le professioni e la cultura.
Esaminiamo la storia delle leggi che si sono susseguite negli ultimi dodici anni (431/85, 183/89, 142/90, 394/91) e in diversa misura si richiamano alle esigenze di difesa del territorio e del paesaggio: un concentrato di buone intenzioni e grida manzoniane, superfetazioni normative e velleitarismo. Tutte naturalmente prevedono piani; in genere l'ultimo che arriva prevale sui precedenti e vuole salvare il Paese, che intanto inesorabilmente continua ad affondare.
Non c'è stata la capacità di ripensare organicamente e codificare l'intera normativa e con essa strategie, strumenti ed assetti organizzativi, perché ciò comporta la definizione di un grande progetto e la classe politica italiana ne è incapace. Ma mi chiedo se questa incapacità non sia lo specchio di una più diffusa angustia di pensiero e spirito rinunciatario, che inducono l'intero Paese a volare basso.
Passiamo alle istituzioni e ai processi amministrativi e pianificatori. Le modalità con cui viene complessivamente difeso il paesaggio da parte degli organi statali, regionali e locali rivelano un caos allucinante ed una mortificante inefficacia, nonostante la competenza e passione di singoli operatori. Di solito non si dice no a nessuno, ossia nella prassi quasi tutti gli interventi di trasformazione del territorio vengono assentiti, salvo prescrizioni di dettaglio emanate dopo una lunga istruttoria. Anche qui c'è attenzione alparticolare, ma si perde di vista il generale e l'essenziale. L'azione di controllo è puntuale ma non sistemica. Si difende il capitello, ma dopo aver lasciato cadere il tempio
C'è un processo molto puntiglioso di delega in cascata delle autorizzazioni: dallo Stato alle Regioni e da queste agli Enti Locali, con controlli incrociati assai complessi, che impegnano molte delle forze in campo, anche se quasi sempre sono inutili. L' assistenza e la consulenza preventiva, le banche dati, la formazione professionale a sostegno delle decisione concrete di trasformazione del territorio sono quasi inesistenti. Perlopiù ai responsabili bastano le affermazioni di principio sul decentramento e la sussidiarietà, il controllo formale e il silenzio assenso.
Dobbiamo avere il coraggio di riordinare dalle fondamenta la disciplina amministrativa degli interventi di trasformazione della natura e del paesaggio, per realizzare in modo più semplice ed efficace il massimo dei risultati in termini di prevenzione, compensazione e risarcimento dei danni, riducendo al minimo il carico burocratico e promuovendo la collaborazione tra tutti gli interessati. Ciò comporta una radicale semplificazione, che giunga a fondere i processi autorizzativi nelle aree soggette ai vincoli idrogeologico, paesaggistico e naturalistico ed una ridistribuzione più razionale delle competenze tra Regioni, Province e Comuni.
Consideriamo ora le forme di pianificazione. Ciò che colpisce in Italia è soprattutto l'enorme deficit di cultura progettuale. La difesa del paesaggio finora è stata realizzata quasi esclusivamente mediante il controllo a posteriori degli interventi di trasformazione del territorio, trascurando gli strumenti attivi, ossia i progetti in grado di coinvolgere maggiormente le popolazioni e gli operatori privati. I risultati sono fallimentari: un orizzonte limitato alla tutela di isolati valori paesistici, l'incapacità di cogliere in positivo le occasione di trasformazione del territorio, l'impotenza di fronte alle grandi sfide rappresentate dal risanamento di vastissimi paesaggi, che hanno ormai perso i loro valori morfologici ed estetici tradizionali senza acquistarne di nuovi, ossia sono informi e deformi, con enormi danni al nostro popolo, creati dall'assuefazione al degrado e allo squallore, che a sua volta genera malessere e disadattamento sociale.
A dire il vero, non tutti gli strumenti finora sperimentati in Italia per la difesa del paesaggio hanno un segno così crepuscolare e decadente e mi sento di affermare che i piani dei parchi lombardi hanno saputo cogliere l'esigenza vitale del rimodellamento del territorio e del risanamento delle aree degradate, facendo leva soprattutto su elementi e metodi di lavoro ecologici, che hanno rivelato una potenzialità straordinaria anche sul versante morfologico. Il loro carattere trasversale ha consentito di valorizzare anche obiettivi ambientali definiti da altre normative settoriali (per esempio in materia di difesa del suolo e delle acque). Si può perfino ipotizzare un'ulteriore sviluppo di questa potenzialità aggregante, in modo tale da realizzare una forma di pianificazione integrata, in cui entrino tutte le esigenze di difesa ambientale, già riunite e coordinate.
Nonostante il successo tecnico, contro i piani dei parchi oggi è in atto un tentativo di delegittimazione, basato su una polemica antivincolistica eccessiva e fuorviante. Prima di tutto si dovrebbe avere l'onestà intellettuale di riconoscere che uno Stato che si rispetti, anche a regime liberaldemocratico, non può fare a meno dell'autorità e quindi - entro certi limiti - dei vincoli.
E non è un caso che la critica indiscriminata ai vincoli abbia assunto aspetti di un estremismo irragionevole proprio nel periodo attuale, caratterizzato da una caduta verticale dell'autorità delle istituzioni e della fiducia dei cittadini.
Tuttavia i vincoli in sé stessi hanno un segno negativo, essendo in genere una coazione a non fare e quindi da soli non bastano, ma devono essere associati a componenti positive, che aprano la strada al ben fare, con modalità il più possibile di tipo consensuale ed è su quest'ultimo punto che dobbiamo riflettere.
Le migliori esperienze di pianificazione paesistica del recente passato, compresa quella dei parchi, vedono contemporaneamente un successo tecnico e - tranne alcune significative eccezioni - un insuccesso politico, che va di là della polemica spesso pretestuosa sui vincoli, perché si collega ad un difetto di metodo, interno al processo di pianificazione. Tali esperienze sulla base di una concezione sistemica - identificano concretamente sul territorio gruppi coordinati di obiettivi coerenti con la difesa, la gestione e lo sviluppo della natura e del paesaggio, attraverso un metodo di lavoro interdisciplinare sostanzialmente corretto, anche se talvolta l'approfondimento delle discipline economiche e sociali è ancora insufficiente. Ma il difetto principale è l'impostazione elitaria, ossia un'arroganza del sapere la quale fa sì che le conoscenze specialistiche rimangano patrimonio di un gruppo ristretto di esperti e siano precluse alla maggioranza degli interessati. Ciò non favorisce certo il consenso sociale: accettare significa capire, ossia si può accettare veramente solo ciò che si è compreso e condiviso e in definitiva è entrato a far parte di noi stessi.
Non illudiamoci dunque che bastino buone leggi e buoni piani per difendere il paesaggio in Italia. Ci vuole altro: un nuovo Stato più credibile, una nuova cultura più attenta alle proprie radici, un grande disegno politico che sappia convincere e trascinare. Solo allora si troveranno il consenso popolare e le necessarie risorse. Tutto ciò va preparato con un'azione a tutto campo, in cui anche le associazioni ambientaliste possono avere un ruolo importante, purché accettino di ridiscutersi. Oggi il dibattito istituzionale in corso nel Paese, con una forte rivalutazione delle autonomie locali, mette maggiormente in evidenza l'errore commesso da quanti nel movimento ambientalista, fuorviati dai numerosi cedimenti locali alle sollecitazioni per il consumo del territorio, hanno trascurato le potenzialità dei Comuni. Si è finito per considerare il Comune come un nemico dell'ambiente o - nella migliore delle ipotesi dimensionalmente e culturalmente inadatto ad esercitare un ruolo significativo nella difesa ambientale. Le istituzioni sono state divise in buone (lo Stato e, molto in subordine, le Regioni) e cattive (i Comuni). In realtà nessuno e tantomeno lo Stato è innocente nel saccheggio cinquantennale del territorio.
Dovrebbe far riflettere il fatto che, nel generale fallimento istituzionale, chi ne esce meglio (almeno al centro-Nord) è il Comune, l'istituzione più amata dagli italiani, perché è una loro invenzione, ben radicata sin dal Medioevo. I paesaggi che noi tuteliamo sono anche un prodotto della civiltà dei comuni. Non è ragionevole pensare di poter difendere il paesaggio italiano senza o contro i Comuni.
In realtà la maggior parte dei Comuni italiani, se adeguatamente motivati e assistiti, ha un notevole potenziale di affermazione autonoma per una molteplicità di problemi di difesa del territorio che si prestano a soluzioni locali. Il ivellamento del paesaggio si combatte anche dando più spazio alle autonomie locali, a tutela delle identità territoriali che con la loro diversificazione concorrono alla ricchezza ed all'equilibrio complessivi. E, d'altra parte, da anni si avverte la necessità di uscire da una concezione ristretta, di difesa selettiva del paesaggio per affermare una difesa globale, che cerchi di influire su tutti gli spazi, le situazioni e i possibili interventi dell'uomo, quindi con una presenza capillare sul territorio, che solo i Comuni possono assicurare.
E dunque dai Comuni che si deve partire per realizzare nuove alleanze istituzionali. Un banco di prova può essere la promozione di piani paesistici comunali, tecnicamente autonomi, ma integrati nella pianificazione urbanistica. Un errore simmetrico è stato commesso nei confronti dell'agricoltura, la madre dei nostri paesaggi rurali. Il meccanismo che ha portato a rapporti conflittuali è analogo: parziale abbandono da parte dell'agricoltura moderna delle tradizionali e gratuite funzioni ecologiche e paesistiche per inseguire un modello di sviluppo intensivo simile a quello degli altri settori economici; reazione indignata del movimento ambientalista, demonizzazione del mondo agricolo e rifugio nella politica dei vincoli e dei piani verticistici. Ciò equivale alla pretesa di difendere il paesaggio agricolo senza o contro gli agricoltori. In realtà, se c'è un settore in cui la politica dei vincoli può essere superata da quella degli incentivi e delle intese, è proprio l'agricoltura e su questa strada si è già messa da anni l'Unione Europea. In Italia si è perso tempo perché polemiche e sospetti hanno avvelenato i rapporti, rendendo più difficile l'applicazione dei piani, che richiede attenzione a desideri, timori, prospettive e il fabbisogno informativo dei vari gruppi di agricoltori e la valorizzazione delle forme differenziate di percezione del paesaggio in relazione al sentimento di identità locale. E dall'agricoltura che si deve partire per realizzare nuove alleanze sociali ed economiche. C'è un ultimo settore strategico in cui è necessario un ripensamento ed è il rapporto con le professioni responsabili degli interventi di trasformazione del territorio e - a monte - con la scuola e la stessa cultura. In passato la difesa del paesaggio in Italia era affidata ad un'élite, costituita da funzionari di cultura superiore, in grado di controllare e guidare gli interventi su cose e complessi di cose di particolare valore. Ma l'enorme estensione delle procedure di controllo disposta dalla legge 431/85 ha fatto saltare i vecchi equilibri, che a maggior ragione appaiono inadatti nella prospettiva di una difesa paesistica dell'intero territorio nazionale.
Oggi architetti di cultura media controllano secondo canoni personali - altri architetti usciti dalle stesse scuole e con una cultura in qualche caso superiore. Ed è paradossale il fatto che anche i progetti di affermati professionisti, talvolta, al controllo risultino criticabili. Come mai un tempo anche modesti capomastri, usando materiali, moduli compositivi e dimensioni tradizionali, difficilmente sbagliavano, mentre oggi le nostre città sono disseminate di orrori architettonici firmati? C'è qualcosa che non
funziona alla radice, ossia nelle professioni e nell'insegnamento e in definitiva nella cultura contemporanea, che si rivela inadeguata.
Dobbiamo costruire paesaggi in continuità con la nostra tradizione classica, come misura geometrica e proporzionata, come natura serena, bella e priva di tragicità perché modellata dall'uomo. In questo senso, le stesse concezioni dell'architettura del paesaggio e dell'ingegneria naturalistica, che negli ultimi anni abbiamo mutuato dall'esperienza straniera, a buon vedere sono in sostanza di derivazione classica e quindi italiana, perché sottendono lo sforzo di costruire in modo armonico il paesaggio con il lavoro dell'uomo. Più importante che studiare le esperienze straniere è oggi riscoprire le proprie radici e riattualizzare una cultura che è stata grande in Europa e nel mondo.