Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 23 - FEBBRAIO 1998


La coltura e la cultura del bosco.
Frammenti di storia forestale nell'area veneta.
Franco Viola * (prima parte)

Da circa quattromila anni, superata da quindicimila l'ultima acme glaciale, il clima sulle nostre regioni si è assestato, con minime variazioni, intomo ai valori di pioggia e di temperatura che anche oggi noi conosciamo. In pianura queste condizioni sono favorevoli allo sviluppo di foreste decidue, composte soprattutto da querce, tra le quali un tempo le roveri e la roverella si collocavano sui suoli più asciutti, il leccio nei siti più caldi e a solatio delle aree collinari, mentre le farnie primeggiavano incontrastate sui terreni più freschi, in prossimità dei fiumi, dei laghi e degli acquitrini. A tutte queste querce allora si accompagnava una moltitudine di altri alberi, che oggi definiremmo di minore interesse selvicolturale, ma che nell'ecologia dei sistemi forestali sono fondamentali ai fini del mantenimento dei più stabili equilibri.

Nelle nostre regioni padane, tra questi boschi, qua e là interrotti da estesi sistemi d'acqua e da praterie igrofile, circa duemilacinquecento-tremila anni prima dell'era cristiana si insediò l'uomo, sviluppando forme stabili d'agricoltura.
A partire da allora, quelle estese foreste, di cui scrissero già gli storici di Roma, vennero progressivamente tagliate e dissodate per ottenere soprattutto campi e pascoli. Si ritiene che al culmine dell'epoca imperiale, a seguito delle ripetute centuriazioni e della mirabile e intensiva organizzazione agricola sviluppata dai Romani, di esse restassero solo residui frammenti, perlopiù confinati nelle aree marginali, in genere quelle a fondo umido o acquitrinoso. Pur se con minor foga, anche sull'arco alpino i boschi vennero aggrediti per cavarne il legno e per ottenere spazio per nuovi insediamenti agricoli. Si dice, ad esempio, che il larice delle Alpi Retiche godesse fama di fornire legno ottimo e resistente al fuoco, tanto che Tiberio lo volle impiegato nella ricostruzione di alcuni ponti più volte andati in fiamme. Il legno era dunque risorsa della quale si faceva mercato, e molti mestieri fiorirono intorno all'utilizzazione dei boschi. In quei tempi, ad esempio, si organizzarono molte corporazioni di dendrofori; prime tra tutte quelle cadorine, che pare fossero attive già alcuni secoli prima di Cristo (G. Sebesta, 1988).
Poi, col collasso dell'ordinamento economico e giuridico-territoriale seguito al crollo dell'impero, le campagne vennero in larga parte abbandonate, dando il via ad un generale rinselvatichimento del territorio. Talvolta i boschi ricrebbero anche dentro alle mura di città spopolate. Paolo Diacono, nella Historia Longobardorum, così ricordò la peste del VII secolo, e i suoi effetti sul paesaggio urbano: ".. tantaque fuit multitudo morientium, ut etiam parentes cum filiis atque fratres cum soribus, bini per feretra positi, aput urbem Romam ad sepulcra ducerentur. Pari etiam modo haec pestilentia Ticinum quoque depopulata est, ita ut, cunctis civibus per iuga montium sea per diversa loca fugientibus, in foro et per plateas civitatis herbae et frutecta nascerentur.." .

Ma col volgere al nuovo millennio tornò a crescere il bisogno di campi e un po' ovunque si cominciò a disboscare. Tracce di quei dissodamenti restano ancora ai giorni nostri, soprattutto nei toponimi.

"Silva runcare"

Ronchi, Roncaglia, Roncajette, ad esempio, sono luoghi che oggi fanno parte del tessuto urbano di Padova; il nome ne tradisce però l'origine forestale. Per gli agronomi di Roma runcatio era quella pulizia dalle erbe che si faceva nei campi o negli orti prima delle semine o dei trapianti; talvolta la si ripeteva più volte nell'anno per contrastare la vitalità di molte specie infestanti. Più tardi però runcare significò recuperare all'agricoltura i campi rinselvatichiti, impresa che si attuava soprattutto con il ronco (runco), o falcash-o, uno strumento simile all'odierna roncola e particolarmente adatto a recidere rovi e cespugli, ma anche ad abbattere alberi di piccole dimensioni.

Durante l'alto medioevo in tutte le pianure intomo al Po fervé dunque il runcare, cioè il dissodamento della foresta necessario a creare nuove campagne, o novalia. In una sentenza d'un giudice veronese del 1200, con la quale si attribuì un campo nuovo a gente di Cerea, si descriveva la runcatio come "trahere nemus extra cum cochis et radicibus", cioè cavare dalla terra ogni resto del bosco (Baruzzi e Montanari, 1988).
Si stima che in quello stesso secolo, in Emilia, come forse in tutta la pianura veneto-friulana, circa quattro quinti del territorio rurale fossero occupati dal bosco e da paludi; in Piemonte, invece, un tempo meno paludoso delle regioni orientali, la foresta occupava da 1/2 a 2/3 delle pianure. Con tale abbondanza d' alberi non vi era dunque problema ad attribuire, a titolo di proprietà collettiva, alla gente originaria dei luoghi riunita in comunità, ampi tratti di foresta affinché liberamente ne traesse ogni sorta di utilità (F. Panero, 1988).
Delle selve si fece così scempio.
Nemmeno due secoli dopo si dovette dunque correre ai ripari. Con leggi e sentenze si tentò soprattutto di limitare i diritti d'uso un tempo universalmente concessi ai rustici, soprattutto bandendo, cioè vincolando, i migliori boschi comuni (comunalia). Per soddisfare le necessità domestiche (riscaldamento e cucina), per i lavori agricoli (paleria per le viti) e per le costruzioni minute (attrezzi e carri) si fissarono norme sull'uso dei cedui, per i quali si studiarono regole appropriate di coltivazione. Tale era la paura di restare senza legname che in molti statuti e sentenze veniva anche proibito o limitato il prelievo delle cortecce per cavarne il tannino necessario alla concia delle pelli, il taglio delle frasche per l'alimentazione degli animali o per fame strame per la stabulazione, oppure l'uso della legna per alimentare le fornaci da calce, per le fucine e, talvolta, anche per fare il carbone. Nel territorio torinese si giunse a vietare la vendita del legname ottenuto in sorte, qualora fosse risultato eccedente ai bisogni della famiglia.
Intorno alle funzioni da attribuire al bosco si generarono veri e propri conflitti sociali. In quei secoli l'economia rurale in larga parte si reggeva sull' allevamento dei maiali, alla cui alimentazione le silvae contribuivano con la produzione delle ghiande; per questo silvae infructuosae erano detti i boschi privi di querce. Spesso, negli atti di affitto o di cessione, le foreste venivano valutate con il numero di maiali che potevano sostenere, approssimativamente uno ogni ettaro (da 0.5 a 1.5, secondo la fertilità del fondo; P. Galetti, 1988). Ma a partire dal XIV secolo, verificati i danni che i maiali producevano sul terreno e sui semenzali, nei boschi incolti si cominciò a proibire quel tipo di pascolo brado. In quelli allevati, cioè nei cedui e nei castagneti, almeno fino al XVII o al XIII secolo, si ammise invece ancora il pascolo bovino ed equino. E significativa una delibera del Comune di Arsiero (Vicenza), presa nei primi anni del secolo scorso; si stabilì di porre termine all'attività di una malga, "ai Fiorentini", poiché il danno provocato dalle vacche nella struttura dei boschi limitrofi era ritenuto maggiore del beneficio che la comunità traeva dall'affitto del pascolo. Pare che anche in quei secoli, per aggirare i vincoli delle bandite, si facesse ricorso al fuoco, non solo per liberare i pascoli dalle sterpi, e per fertilizzarli con la cenere. Con l'incendio dei boschi comuni si ottenevano infatti novalia, come se il fuoco fosse un efficace strumento di arroncamento. (V. Fumagalli, 1987).
Molti cedui, in genere di grandissima estensione, erano pertinenza di grandi possedimenti, come quelli dei monasteri e dei castellani, ma anche di Ville e di Città. In tal caso si trattava di cedui comuni, dei quali potevano beneficiare tutti i censiti. Silvae communae, dunque, non tali in quanto a proprietà, quanto piuttosto all'uso che se ne poteva fare. A questo particolare regime di possesso si devono forse le prime regole tecniche per la ceduazione, che risalgono, nelle forme più organiche, ai primi anni del XIV secolo, benché se ne abbia una traccia precedente, risalente al 1200, in un piano di coltura d'un bosco concesso in uso ad un monastero senese (P. Piussi, 1994). Anche negli statuti di Alessandria, datati agli ultimi anni di quel secolo, si fa riferimento ai cedui, per i quali si prevedevano tagli ripetuti a cadenze prestabilite: "in septem partes una quarum partium debeat incidi sive taliari in uno anno et alia pars in alio anno et sic de singulis persexannos" (I. Naso,1988).
L'altofusto era invece risorsa sempre più scarsa, come anche, pur se isolati e sparsi nei pascoli e nelle paludi, rari diventavano gli alberi provvisti di buone forme e dimensioni. Molte fustaie di pianura vennero dunque via via tutelate attraverso il bando e la minaccia di sanzioni severissime verso chi non rispettava i rigidi divieti di taglio; ad esempio, un disposto dell'abbazia di Pomposa, datato al 1285, già stabiliva forti ammende non solo per chi tagliava frassini, olmi o roveri sparsi tra i campi e le paludi, ma anche per chi ne avesse acquistato il legname. Verso la fine del 1500 era ormai regola comune l'infliggere pesanti condanne a chi avesse tagliato alberi d'ogni specie, anche solo peri o meli coltivati, senza avere ricevuto il permesso; anche nei contratti di compravendita e d'affitto veniva attribuito un gran valore ai fondi dotati d'una buona riserva d'alberi.

Venezia e i boschi dello Stato da Tera

Essendosi dedicata quasi esclusivamente ai commerci sul mare, rispetto agli altri stati vicini Venezia avvertì più tardi la portata della questione forestale. E pur vero che nell'ultimo scorcio del XIII secolo, al pari di quanto faceva Bologna, anche Venezia legiferava sulla tutela delle pinete litoranee e sul commercio del legname, in tal caso proibendone la vendita all'esterno dei suoi confini.
Ma è solo a partire dal XV secolo che Venezia decide il suo impegno in terraferma, ponendosi subito nella condizione d' affrontare con coerenza e con continuità di intenti i problemi legati all'approvvigionamento del legname e alla tutela idraulica della laguna. Molti storici datano il viraggio della politica veneziana verso la terraferma alla elezione al Dogado di Francesco Foscari, avvenuta nel 1423. Pochi giorni prima era morto il vecchio doge Tomaso Mocenigo, fervente sostenitore del partito che voleva il futuro di Venezia esclusivamente legato al mare. Il testamento pubblico del Mocenigo riporta una elencazione completa dei punti di forza, economica e militare, della Repubblica. Tra questi, alcuni servono egregiamente a comprendere anche la portata della questione forestale. In quegli anni Venezia possedeva una flotta mercantile dotata di 3.300 navi, sulle quali si imbarcavano 25.000 marinai; l'Arsenale armava 45 nuove galere da guerra ogni anno, e nella flotta prestavano servizio 11.000 marinai. La Casa dell'Arsenale, che si divideva in tre settori, destinati rispettivamente alla cantieristica, all'armamento (remi, vele, cordame, ecc), e all'artiglieria, provvedeva alla costruzione e alla manutenzione di queste navi impiegando costantemente almeno 16.000 dipendenti, in larga misura marangoni, cioè esperti nel taglio e nella lavorazione del legname (I. Cacciavillani, 1988). In tutto, quindi, circa 50.000 persone, con le relative famiglie, dipendevano direttamente dalla disponibilità di legname per l'industria navale e del commercio marittimo.
Per contro, il partito che voleva lo sviluppo di uno Stato da Tera accanto al preesistente Stato da Mar vedeva la necessità non solo di una difesa, alle spalle, della città, ma anche il mantenimento delle ricchissime opportunità di approvvigionamento che sia la montagna sia la fertile e ancora poco sfruttata pianura veneto-friulana avrebbero potuto a lungo garantire alla Serenissima. Nei primi anni di quel secolo, cioè vent'anni prima della morte del Mocenigo, la Reggenza dei Sette Comuni dell'Altipiano d'Asiago aveva fatto di sé spontanea Deditione alla Repubblica, e i vantaggi si erano certamente già avvertiti.
La fame di legname d'ogni qualità era infatti immensa. Enormi quantità di paleria erano destinate al consolidamento delle rive lagunari, lungo le quali, prima della costruzione dei murazzi in pietra, si ficcavano nel terreno sabbioso e limoso delle spiagge più file di pali (tolpi) distanziati di pochi centimetri l'uno dall'altro, tra le quali si imbrigliavano pietre e ghiaie. Quasi ogni inverno si doveva rimediare ai danni causati dalle mareggiate, e molti cedui fornivano il materiale occorrente. Un altro fiume di legna, in ciocchi, in fascine e fastelli di minuteria di piccole dimensioni, contribuiva al riscaldamento della città. Per le fondamenta si chiedevano legni più pregiati, di rovere o di larice. Le conifere venivano dal Cadore, fluitate lungo il Piave, oppure dal Vanoi e dal Primiero, lungo il Cismon e quindi lungo il Brenta, dove, a Valstagna s'aggiungevano i pecci e gli abeti dell'Altopiano, che lì venivano avvallati per mezzo di una risina in pietra, la Calà del sasso, costruita verso la fine del 1300.11 Bacchiglione portava a Chioggia le legne dell'alta pianura vicentina e l'Adige quelle della Lessinia e delle alte terre veronesi. Una ricchissima rete di canali, alla cui costruzione si era già in parte provveduto a partire dall'epoca imperiale, anastomizzava tutti i fiumi, soprattutto Piave, Sile, Brenta e Bacchiglione, fino anche all'Adige. Attraverso di essi la pianura conferiva a Venezia la gran massa di roveri di cui tra un poco più diffusamente si dirà.
Per le costruzioni navali servivano le legne di qualità migliore. Secondo un elenco del 1500 (R. Asche,1994), per costruire una galera servivano:
Legne di quercia (rovare):
- 380 travi curve ottenute da tronchi da 8.5 a 10 piedi di lunghezza e da 4 a 5 piedi di circonferenza, per i fianchi, la prua e la ruota di poppa;
- 150 travi dritte, da 24 a 29 piedi di lunghezza, per la chiglia, la parascossa, la cinta, il madiere, il dormiente superiore, le travature del ponte;
- 280 assi di spessore 1/4 di piede segate da tronchi di 24 piedi di lunghezza e da 4 a 5 piedi di circonferenza, per il fasciame
Legne di larice (àrese):
- 35 travi di 40 piedi di lungheza e un piede e un palmo di circonferenza, per i dormienti interni, i posticci e le corsie;
Legne di larice e abete (albeo):
- 50 pezzi piccoli per le attrezzature del ponte, friseti, morti, colomele, portavedi e perteghete;
- 300 assi per l'interno e il ponte;
Legne di olmo per argani e cime degli alberi;
Legne di corniolo (cornial), per le caviglie (caece); Legne di noce per il timone;
tronchi di faggio, uno per remo.
Allora, ma ancora oggi in marineria ne resta tradizione, si usavano queste unità di misura, che venivano ricordate in una cantilena "Quatro dèa (o deda) fa una man, quatro man fa un pie, sinque pie fe un paso". Nella carpenteria navale minore, al passo si sostituiva il paseto, che consta di tre pie, ognuno dei quali è diviso in dodici onse, a loro volta divise in 12 ligne (R. Pergolis, 1981).
Tenendo conto che un piede veneziano misura circa 34,37 cm (un'onsa vale dunque 2,9 cm e un paso misura 172 cm), si può stimare che per la costruzione ogni galea fosse necessario disporre di almeno 300 m3 di legno quercia, di 35 m3 di legno di conifera e di qualche centinaio di astoni di faggio. Solo per le navi da guerra l'Arsenale richiedeva ogni anno, sul principio del 1400, più di 20.000 m3 di legno di pregio, ovvero di querce provviste di particolari dimensioni e forme, oltre a qualche migliaio di m3 di legno di conifera.
Si stima che la produzione annuale dei rovereti di pianura della Serenissima fosse appena sufficiente a soddisfare questa richiesta. (L. Susmel, 1994).
Bisognava però anche tenere conto di tutte le altre esigenze, marinare, idrauliche e edilizie, e c'era anche la ricostruzione periodica delle scorte dell'Arsenale.
Particolare attenzione ai boschi di pianura e di collina in cui crescevano le insostituibili rovare.
L'attenzione verso i boschi di monte fu in larghissima misura mirata anche alla regimazione delle acque e alla stabilità delle terre, essendo l'estensione delle foreste e la loro produzione apparentemente di gran lunga superiore alle esigenze dello Stato e di tutte le sue genti. E stato determinato che alla fine del XVI secolo venissero ogni anno fluitati fino a Venezia, solo dall'area dolomitica, circa 100.000 taglie (tronchi da sega), di cui 40.000 dal Primiero e la restante parte lungo le vie del Piave e del Cordevole. Circa 10.000 venivano poi portate a Venezia dall'Altopiano. Alla fine del secolo scorso la quantità di legname tondo che veniva fluitato dal Cadore verso le segherie a valle di Longarone era almeno tre volte superiore; durante alcune menade si fluitavano fino 300-350.000 taglie di specie diversa. Nemmeno l'uso intenso della legna, anche di conifera, a sostegno dell'attività mineraria, per le fucine e per i fomi del vetro e della ceramica, benché localmente importante, non arrivò mai a minacciare la perpetuità dei boschi di montagna. In certi casi, tuttavia, la preferenza accordata a certe specie di maggior pregio e il taglio troppo energico portarono a guasti di una certa rilevanza.


*Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali AGRIPOLIS, Università degli Studi di Padova