Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 24 - GIUGNO 1998
 

La cucina del Gran Paradiso
Salvatore Marchese*



Con questo articolo l'autore inizia una collaborazione con la nostra rivista, curando una rassegna dedicata alla "cultura gastronomica" nelle aree protette.

La considerazione potrà apparire strana - almeno a prima vista -, ma anche nella piccolissima Valle d'Aosta risulta possibile identificare diversi tipi di cucina. Alcune specialità, infatti, sono note a familiari in alcune valli mentre non riscuotono particolari favori altrove. Questo suona come la valida conferma di quanto le abitudini alimentari siano legate alla cultura più generale, affermatasi e sviluppatasi in un particolare contesto ambientale. Ogni territorio ha le proprie storie da raccontare, e il cibo è parte fondamentale delle vicende degli uomini che di tali storie sono stati i protagonisti. Per certi aspetti, il caso della Val di Cogne, situata nell'interno del Parco Nazionale del Gran Paradiso - che prende il nome dall'unica vetta oltre i "quattromila" interamente compresa nel suolo italiano -, diventa esemplare. Partiamo da quasi un secolo e mezzo fa.
La zona che adesso è facilmente identificabile con l'area del parco costitutiva un autentico paradiso di pratica venatoria per i Savoia.
Nel 1821, re Vittorio Emanuele I abolì la caccia allo stambecco riservandosi il privilegio personale. Nel 1856, Vittorio Emanuele II disegnò i confini di una vasta superficie da destinare a riserva della famiglia reale. La selvaggina era abbondante: orsi, marmotte, pernici, fagiani, galli cedroni, stambecchi, cervi, caprioli, camosci.
Umidi e civet, dunque, nei cui intingoli tuffare la polenta, che nelle valli d'Aosta è sempre presente su tutte le mense, in ogni occasione.
Accompagna la "carbonade" e diventa una sorta di simbolo delle abitudini alimentari della regione. La carbonade era preparata con la carne riposta in appositi recipienti e conservata in salamoia per affrontare l'inverno, quando sarebbe stato praticamente impossibile cacciare e scendere nei villaggi per acquistare provviste. La carne veniva rosolata nel burro, con le cipolle, e portata a cottura col vino. In precedenza, tuttavia, era messa a bollire per renderla più tenera ed ottenere il brodo per le zuppe. Il nome potrebbe derivare dal colore scuro - come il carbone - che assumeva il fondo di cottura. E strano rilevare come certe ricette analoghe di trovino in Spagna e in Belgio e che il grande gastronomo francese Auguste Escoffer abbia addirittura codificato il procedimento per la carbonata alla fiamminga (con la birra al posto del vino). A volte, la polenta poteva essere sostituita dalle eccellenti patate di montagna. L'impiego della carne salata può apparire come un logico accorgimento montanaro. Va detto, però, che già gli antichi Romani conoscevano perfettamente le tecniche di conservazione delle vivande attraverso l'impiego del sale. Ma nella Valle di Cogne, che dal Gran Paradiso è emblema riconosciuto, non si può parlare di carni salate senza soffermarsi sulla "mocetta". Una volta era ricavata disossando la coscia degli stambecchi o dei camosci e godeva di un'altissima reputazione. In seguito, fu sostituita dalla carne di capra. Oggi, buone mocette, le quali entrano abitualmente nell'antipasto tipico, insieme al lardo, sanguinacci e castagne, sono ottenute con tagli bovini, I regali trascorsi sabaudi e la relativa facilità di comunicazione con il Canavese hanno contribuito a dare notorietà a tutti i prodotti di Cogne e del circondario.
Non c'è che l'imbarazzo della scelta: pane, riso, fontina, dolci, caffè. La cottura del pane nero si trasformava in una sorta di rito, qualche settimana prima di Natale. Nei forni comuni dei centri abitati la gente radunava la legna necessaria per mantenere il fuoco per il tempo necessario. Sembra si scegliessero i giorni di luna crescente per favorire la lievitazione dell'impasto di farina di segale, povera di glutine. Le forme erano sistemate su ratelet, lontano dalla portata dei roditori, e conservate anche per un anno intero. E doveva essere frantumato con il "copapan" per diventare la base di zuppe robuste e corroboranti. E famosissima la zuppa valpellinetze: fontina, pane, cavoli e brodo. Ma il Gran Paradiso replica con la zuppa cognetze. La zuppa di Cogne. Il riso sostituisce le verdu-
re. Il passo in avanti, sotto l'aspetto storico e sociale è assai sensibile. Il riso, facilmente trasportabile, di ottima resa (si sposa gradevolmente con ogni condimento), durevole nel tempo, grazie a minimi accorgimenti, nel mantenimento delle proprie caratteristiche organolettiche, sarebbe stato introdotto del Canavese. Ma c'è chi sostiene che i pregiati chicchi sarebbero stati portati da minatore lombardi chiamati a lavorare "Cogne". Qualunque sia l'origine della zuppa, va sottolineata la valenza che tuttora la viene attribuita pura dalla ristorazione: la "cognetze", appunto, figura regolarmente nei menù durante tutto l'arco dell'anno. Da due anni, la Fontina valdostana ha ricevuto dalla CEE il riconoscimento della denominazione d'origine protetta (DOP). Nessun altro formaggio può assumere lo stesso nome. Questo attesta le peculiari proprietà di una sostanza legata strettamente a specifici fattori ambientali e microclimatici altrove irripetibili. La qualità del formaggio valdostano prende vita sui pascoli, sui quali le mucche - la pezzata rossa, formidabile produttrice di latte, e la pezzata nera, più adatta a salire in alta quota - vengono portate verso la fine primavera per rimanervi fino al termine dell'estate. Bruciano le erbe e i fiori, diversi da pascolo a pascolo, e bevono l'acqua praticamente pura. La legge stabilisce rigorosamente le modalità di trasformazione: il latte, per esempio, deve essere manipolato entro due ore dalla mungitura.
Le fontine, mediamente del peso di 8-10 Kg, vengono trasportate nei grandi magazzini di stagionatura dove dovranno sostare per non meno di tre mesi in condizioni stabilite (8-10° C con umidità di quasi il 98%). Da anni e anni, i ritmi e i riti dell'alpeggio sono praticamente gli stessi.
I prati richiedono la massima cura: concimazione, pulizia, irrigazione, consolidamento dei fabbricati - stalle e abitazioni - e dei muretti. Nulla, se non l'andamento del clima - le nevicate anticipate possono rovinare una stagione - può essere lasciato all'improvvisazione.
Si comprende, allora, come le attività del ciclo della Fontina siano indispensabili per cercare di scongiurare il degrado di un territorio impareggiabile. Il palato esperto è in grado di distinguere le provenienza delle forme identificando i profilmi e i sapori dei fiori e delle erbe?
Forse sì; forse no. Di solito, gli estimatori di questo eccellente formaggio fanno riferimento alla stagionatura: una Fontina fresca tende al dolce, ma su toni delicati. Poi, dopo alcuni mesi, assume quel piccante che richiama l'intervento di un rosso corposo. Al momento del servizio, in tavola, sarebbe opportuno riunire insieme i due tipo con qualche toma e dei caprini. L'alpeggio, naturalmente, si svolge in estate. Ma in quel periodo viene raccolto il fieno che nutrirà le vacche nei mesi invernali. Perché la Fontina viene prodotta quasi tutto l'anno (escluso il periodo della gravidanza). La gente ha imparato ad usarla come ingrediente di primo piano, data la disponibilità. Per rendersene conto, è sufficiente scorrere un ricettario. Del resto, esistono documenti che attestano la produzione di formaggio del genere a partire dal XIII secolo.
Nel castello di Issogne, I'affresco di una lunetta mostra la bottega di una "gastronomia" dove si notano in maniera inequivocabile le grosse forma di formaggio che non può non essere Fontina, la sublimazione di un modo di vivere.
Nel 1246 la comunità di Cogne aveva un proprio statuto e nel 1331 ottenne le prime franchigie. Ogni anno, però, gli abitanti delle valli dovevano al Vescovo di Aosta, feudatario della zona, "15 montoni nel giorno di San Giovanni Battista; 85 formaggi (fontine?) a San Martino; 16 sestieri d'orzo, 32 spalle di maiale e 64 pani fatti di buona farina a fine anno".
Tra passate ed attualità, in materia di alimenti, e di cucina, il tempo si annulla. Si rintracciano, piuttosto, i segni della cucina della gente comune e della gastronomia dei potenti. I dolci sono sicuramente molto più recenti ed esclusivi. Il mécoulin assomiglia al panettone milanese per il tipo di impasto, reso leggerissimo, quasi soave, dai lieviti. Contiene uvetta secca e scorzette di limone. La forma è curiosa: a torciglione. Fino a pochi anni fa veniva preparato per le feste di Natale, ma adesso è sempre disponibile nelle panetterie. Ristoranti ed alberghi, invece, offrono la crema di Cogne con le tegoline di Aosta. Apparentemente, mécoulin e crema non forniscono spiegazioni circa le loro origini e sul perché il loro consumo sia rimasto circoscritto al Gran Paradiso. Piccoli misteri. I quali confermano come attraverso le cucina sia possibile scoprire il gascino di una terra e della sua cultura. E nel quotidiano, del resto, che si perpetuano la tradizione e gli affetti.

*Giornalista