Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 25 - OTTOBRE 1998
 

Tipologia dei boschi: uno strumento per l'interpretazione e la gestione, su basi ecologiche, dei sistemi forestali.
di Augusto Zanella



Negli ultimi numeri di "Parchi" si è scritto più volte di Selvicoltura. Molte aree naturali si qualificano infatti per ampie distese di boschi, che tra tutti sono gli ecosistemi più ricchi di fascino ma, per certi versi, anche più vulnerabili. Su di essi ha sempre operato l'uomo, per trarne direttamente il necessario per vivere o per farvi spazio per altre attività colturali.
Con il rapido cambiamento di cultura e di economia che ha caratterizzato la montagna assieme ai montanari, anche la selvicoltura e il bosco hanno guadagnato nuove posizioni, un po' meno mirate allo sfruttamento del legname e molto più indirizzate alla valorizzazione del paesaggio, alla stabilità delle terre e alla riqualificazione dell'ambiente. Così stanno cambiando anche gli strumenti di interpretazione delle foreste e quelli di scelta degli interventi (o di non intervento) colturali; alla rifondazione delle tecniche forestali non partecipano più solo i selvicoltori, che ovunque sentono la necessità di procedere nel loro mestiere anche cercando collaborazioni veramente interdisciplinari in diversi campi, soprattutto in quelli della biologia applicata e della pedagogia. In questo contesto di fermenti, che sono insieme tecnici e culturali, è stato chiesto un primo contributo di idee ad un ricercatore che ha compiuto un lungo periodo di studi e di ricerca pura e applicata di "selvicoltura transdisciplinare" sia in Francia, presso la "Station Internationale de Phytosociologie" di Bailleul (sotto la guida di un illustre fitosociologo, il prof. Jean-Marie Gséhu) e presso il Laboratorio Orsay ("Laboratoire de Biologie vegetale" della Faculté de Ecologie, con genetisti, ecofisiologi, pedologi ed ecologi delle comunità vegetali, tra i quali il prof. Alain Lacoste), sia in Italia, presso i laboratori di selvicoltura e di ecologia forestale dell 'Università di Padova. Franco Viola




Il concetto di tipologia forestale
Tipologia significa "discorso sui tipi" oppure "scienza - o sapere - dei tipi".
Attraverso uno studio tipologico si vorrebbe riconoscere entro o tra i sistemi "foresta" di un territorio gli eventuali diversi "sotto-sistemi" e comprendere i motivi che hanno generato le differenze tra questi sotto-sistemi.

Si sa che la nostra mente, per intendere e ricordare, ha bisogno di scomporre e di classificare gli oggetti complessi; a questa esigenza di analisi "merologica", o per parti, si informa anche lo studio delle tipologie forestali, in quanto, per capire la foresta il selvicoltore ha bisogno di coglierne l'eterogeneità, e di ricondurre le differenze ai possibili motivi.

Cogliendo l'eterogeneità delle foreste, si dovrebbe poi poter interpretare ogni bosco con la propria specificità. Una foresta dove, ad esempio, dominano faggio ed abete bianco deve essere quindi collocata in una categoria diversa di un'altra dove si trovi il faggio misto, per esempio, a carpino nero.

A muovere l'esigenza di produrre una rassegna di tipologie forestali vi è certamente un motivo scientifico, e la curiosità propria di ogni studioso di capire e interpretare l'assenza della natura e i principi su cui si basano i processi naturali. Nel caso delle tipologie forestali vi è però anche un motivo tecnico che si riconduca alla necessità, avvertita da ogni selvicoltore, di gestire i boschi che gli sono affidati in cura con i criteri più appropriati sul piano dell'economia e, soprattutto dell'ecologia.

Oggi tutti sanno che domina una concezione naturalistica della selvicoltura. E un attributo importante che si applica ad un sapere e ad una pratica che fino a qualche lustro fa era considerata di mera rapina. Ma i selvicoltori dei nostri giorni, almeno nel nostro Paese, hanno imparato a vedere il bosco come ecosistema e a intervenirvi nel rispetto dei naturali dinamismi.
Ieri si parlava di modelli colturali, e ad essi si riconducevano gli schemi tecnici degli interventi.

Ora si preferisce osservare, e lasciare in larga misura alla sensibilità del tecnico, e alla sua capacità pratica, che viene dall'esperienza e dall'osservazione, la scelta puntuale, luogo per luogo, della qualità e della quantità dell'intervento.

Se ciò si fa fuori dei parchi, a maggior ragione al tecnico forestale che opera all'interno delle aree protette si impone questo tipo di sensibilità ecologica. A costruirla può dunque molto giovare la conoscenza dei principi su cui si basano le tipologie forestali.

In linea di principio, i possibili metodi impiegabili per distinguere tipologie forestali si dovrebbero ricondurre ai principi che permettono di stabilire la diversità tra ecosistemi, ovvero di comprendere la struttura ecologica del paesaggio.

Da lungo tempo sono impiegate nella tecnica di interpretazione territoriale le fasce fito-climatiche di Pavari (Pavari A., 1916) ed i cingoli di Schmid-Susmel (Susmel L., 1980).

A seconda dell'appartenenza a queste suddivisioni territoriali, le foreste si possono attribuire a diverse categorie, la cui impronta fisionomica viene prevalentemente ricondotta all'azione limitante di alcuni fattori climatici, e solo talvolta del suolo.

E tuttavia appurato che per il forestale tale classificazione manca di utili dettagli. Infatti, tutte le foreste dove, ad esempio, il faggio è dominante appartengono alla fascia del Fagetum di Pavari oppure al cingolo del Fagus-Abies di Schmid-Susmel. Certo, lavorando sui parametri climatici, Pavari ha individuato alcune sottozone, così come studiando i popolamenti reali Susmel ha ritrovato nel cingolo F. A. diverse fitocenosi reali più o meno antropizzate, alle quali egli ha attribuito diverso significato colturale. Pur essendo state a lungo impiegate come strumenti di interpretazione sistemica, le chiavi di lettura vegetazionale offerte da Pavari e da Schimd vengono oggi considerate alla stregua di semplici, ma efficaci, classificatori del paesaggio forestale.

Oggi si può andare più lontano, anche nella definizione del paesaggio e molto numerose sono le tecniche che permettono di arrivare a ottimi risultati. Diciamo, per riassumerle in poche parole, che tutte sono nate come estensione operativa delle indagini di tipo fitosociologico per poi ritrovare una loro autonomia in fase di applicazione alla pratica selvicolturale.

Poiché la foresta è un ecosistema, per prima cosa bisogna definire la più opportuna scala di osservazione (Becker M., 1988). Ma, in prima istanza, si deve anche ritenere che ai forestali serva una scala di osservazione che permetta di far combaciare le sotto-categorie di foresta alle comprese dell'assestamento forestale (Del Favero R., 1992). Come è noto, la compresa è una unità di gestione che comprende più aree di bosco sottoposte al medesimo tipo di governo, e mirate al medesimo obiettivo colturale.

Applicando il metodo fitosociologico puro si incontra un primo scoglio, poiché la compresa dei forestali può essere occupata da vegetazione appartenente ad una sola associazione (ma anche solo da una sotto-associazione, oppure da una sua variante...) oppure da un mosaico di associazioni vegetali (Barthes A., 1989). Il fitosociologo lavora ad una scala che è quasi indipendente dal contesto selvicolturale. Si accontenta di procedere al rilevamento nel "suo" areale minimo, riferendosi al concetto di curva area-specie.

In Italia, l'approccio tipologico è stato ben definito da Del Favero (Del Favero R., 1992). Una tipologia forestale serve innanzitutto ai forestali; ha l'obiettivo di classificare i popolamenti reali così come li vede e li interpreta il forestale. Il tipologo forestale deve scegliere la scala di osservazioni più adatta agli scopi selvicolturali, e non potrà essere né troppo fine (intraparticella), né troppo ampia (zona fitoclimatica): deve cioè individuare quella che più gli è utile alla definizione delle comprese assestamentali, che hanno da rispondere innanzitutto a scopi di economicità gestionale.

Poiché il tipologo deve classificare degli ecosistemi, ne dovrà considerare i diversi fondamentali componenti: clima, roccia madre, vegetazione e suolo. Definisce così più tipi forestali tenendo d'occhio tutti questi caratteri e cercando di inquadrare l'omogeneità nell'ottica dei principi selvicolturali (Dume G., 1998).

Così l'omogeneità ecologica che caratterizza il tipo forestale si ritrova anche nella compresa forestale, che è oggetto dell'assestamento. L'appartenenza fitosociologica diventa un parametro secondario rispetto a quelli ecologico e selvicolturale (Rameau J.C., 1988). Gli aspetti fitosociologici, aiutando a riconoscere i tipi forestali, permettono di confrontare territori anche lontani tra loro.

Un secondo problema che ogni tipologo forestale deve affrontare è quello dell'antropizzazione dei popolamenti attuali (Del Favero R., 1992; Rameau J.C., 1993). Le foreste subiscono, ed hanno subito, l'azione dell'uomo ed è illusorio credere di riuscire a classificarle come se quest'azione non fosse mai avvenuta; i concetti di vegetazione potenziale e quelli che ci sono sviluppati intorno all'idea di climax, in tipologia forestale restano in subordine, dovendo il selvicoltore, a differenza del botanico, confrontarsi con popolamenti reali e con concreti problemi di gestione.

Lucio Susmel (Susmel L., 1980) ha percorso questa strada fino in fondo, costruendo un modello ideale di foresta e dando peso operativo a nove parametri che qualificano l'ecosistema. Le direttive colturali (o culturali?) che permettono di orientare l'evoluzione della foresta reale verso tale modello ideale (cioè normale) appartengono alla selvicoltura naturalistica t`ondata da Susmel e tanto cara a gran parte dei forestali italiani.




Limiti quantistici del mondo microscopico e conseguenze sul mondo macroscopico.
In questo secolo, gli sviluppi della fisica dell'infinitamente grande e dell'infinitamente piccolo hanno fatto sognare anche gli ecologi del paesaggio. Sembrava possibile percepire il tutto partendo dalle conoscenze che si hanno sulle parti, semplicemente producendo proiezioni statistiche. Le cose però non sono facili.

Infatti il fattore "tempo" instancabilmente opera cambiamenti. Esistono reazioni chimiche e fisiche irreversibili, e forze dispositive che impediscono il ritorno alle posizioni di partenza (Perigogine I., Stengers I., 1996). Ci si chiede oggi se tutto ciò che accade non sia almeno in parte il frutto di queste forze dissipative e quindi, ci si chiede se non sia irreversibile.

E per questo che invecchiamo anche se controvoglia e, con noi, ineluttabilmente invecchia (cioè evolve) il mondo intero.

Anche nello studio della vegetazione niente ha senso al di fuori dell'ottica dinamica. Il concetto di climax ha fatto il suo tempo. Molto più seguita oggi è la Scuola olandese di Henk Koop (Koop H., 1989) e Roelof A. A. Oldeman (Oldeman R. A.A., 1990) basata sullo sviluppo dinamico del bosco partendo da un nucleo di rinnovazione della foresta (l'eco-unit). In foreste "naturali", il risultato è un mosaico boscato (il sylvatic mosaic) di eco-units sparse a caso e di età diverse. L'intera foresta è di fatto un sistema composto da sotto-sistemi (gli eco-units), costituiti da sotto-sistemi (ecoidi), contenenti a loro volta altri sotto-sistemi (organi-ambiente, cellule-ambiente, macromolecole-ambiente)

Una eguale immagine può essere disegnata salendo verso l'alto, ovvero verso entità sempre più complesse: sistemi più piccoli (il sylvatic mosaic) contenuti in altri più grandi (il fianco di una montagna, una regione climatica...).
E che tutti evolvono nel tempo in modo interconnesso e imprevedibile al di là di un certo orizzonte temporale.
Il tipologo forestale finisce oggi per confrontarsi con una "evidenza" che solo qualche decennio fa era molto sfumata: per ogni evento naturale esiste un orizzonte temporale al di là del quale ogni previsione è vana.

E un dramma per tutti i pianificatori, che sono chiamati a disegnare gli spazi urbani, a dimensionare le infrastrutture e gli spazi destinati alle attività umane sulla base di previsioni sugli andamenti dell'economia e di quelli della climatica dinamica e della crescita demografica. Anche per il forestale, in una certa misura, si pone l'esigenza di prevedere il futuro, soprattutto la crescita del sistema in ragione delle molte variabili, in larga parte naturali, che vi influiscono.

Se gli eventi naturali hanno un loro orizzonte di prevedibilità, allora vi sono pure dei limiti nell'individuazione dello spazio entro cui l'evento avviene. Conseguenza di questo fatto è che i tipi forestali non possono avere limiti spaziali ben definiti. L'orizzonte di prevedibilità è tanto più lontano quanto più precisamente sono note le condizioni del momento presente e quanto più è lineare la dipendenza degli eventi della variabile "tempo" (Reeves H.,1995a).

Supponiamo di avere un orologio che ci dia l'ora con una precisione di un secondo al giorno e che tale errore aumenti in modo lineare con il passare dei giorni. Trascorse due settimane, dovremo andare in stazione almeno un quarto d'ora prima della partenza segnata in "orario" per essere sicuri di prendere il treno; ma potremmo doverlo attendere fino a trenta minuti, se quello è in orario. Dopo due mesi la precisione è diventata di un'ora in più o in meno. Ma le leggi che regolano gli eventi naturali generalmente non sono dipendenti linearmente dal tempo. L'altezza di un albero, per esempio, ha un andamento sinusoidale con l'età. I prodotti del metabolismo cellulare crescono spesso con la stessa modalità grazie al controllo enzimatico e all'effetto stimolante o inibente del prodotto stesso.

Supponiamo dunque che l'imprecisione del nostro orologio aumenti in modo esponenziale (come la prima parte della curva sinusoidale di cui abbiamo appena parlato), raddoppiando ogni giorno: un secondo dopo il primo giorno, due secondi dopo il secondo, quattro dopo il terzo, e così via. Dopo soli 16 giorni la precisione sarà di più o meno 12 ore. Anche se riuscissimo ad aumentare la precisione dell'orologio fino a più o meno un milionesimo di secondo al giorno, dopo soli 36 giorni l'errore sarà ancora di più o meno 12 ore.

Così come esistono dei limiti per la velocità (i 300 mila km al secondo della luce) e per la temperatura (i meno 273° K), una frazione di tempo inferiore a 10 alla meno 43 secondi, nel nostro campo gravitazionale, non ha senso alla luce della fisica dei quants (Reeves H., 1995a).

Anche utilizzando un orologio di questa precisione estrema, se l'errore si raddoppia ogni giorno, dopo soli tre mesi leggeremo l'ora con una incertezza di più o meno dodici ore.

Un altro esempio che ci può fare riflettere è quello della piccola goccia di inchiostro che si diluisce in un bicchiere d'acqua (Reeves H., 1995b). Si pensava che bastasse conoscere la posizione e la velocità di ogni molecola di inchiostro diluito nel bicchiere per ricostruire la goccia intera al momento dell'impatto, invertendo la freccia del tempo e impiegando un potentissimo calcolatore. Dopo pochissimo tempo dal momento di contatto della goccia di inchiostro con l'acqua limpida del bicchiere, il calcolatore però perde le tracce della goccia intera.

L'imprecisione non sta nelle formule del moto, ma nell'impossibilità di conoscere l'azione nell'infimo particolare. La materia al di sotto di un certo limite non esiste, almeno nel senso che i fisici attribuiscono oggi alla materia (Ortoli J.P., Pharabod F., 1998).

Alla luce di questi esempi, immaginiamo l'infinità di reazioni che regolano la vita sul nostro pianeta. Esse sono complesse ma non basta. Il trascorrere del tempo permette lo stabilirsi di legami intrecciati. Ogni reazione ha un suo modo di esistere nel tempo (evolve), una legge che lega reagenti e prodotti e che tiene conto di una serie di controlli retroattivi. Il tutto cambia nel tempo.

Torniamo ai nostri boschi e pensiamo ad una regione del pianeta, poi ad una montagna ed infine ad un tipo forestale (o a un sylvatic mosaic di Oldeman) che si sviluppa sul fianco di questa. Ecco il mondo reale alla scala del forestale: un intreccio di materia inerte e di materia vivente che riceve energia dall'esterno e che evolve (invecchia) grazie a un'infinità di reazioni generalmente non lineari nel tempo.

Dobbiamo convenire che il carattere principale di ogni parte di natura è la complessità; da essa dipende l'impossibilità di conoscere il divenire dei sistemi naturali. Noi vorremmo arginare l'intreccio di reazioni all'interno di "zone ecologicamente omogenee", sperando di intuire un modello di funzionamento univoco per zona.
Come possiamo í`are ciò? Queste "zone ecologicamente omogenee" hanno le caratteristiche dei tipi forestali?




Scala spazio temporale, linee evolutive, tipi forestali
In quanto tipologi forestali, accontentiamoci del presente, del passato a noi più vicino e del futuro più prossimo.
Il presente: il tipo forestale così com'è oggi. Niente vegetazione potenziale, niente climax, niente foresta normale, niente foresta naturale. ..
Il passato vicino: il tipo che probabilmente è esistito in un ambiente dal quale possono derivare i caratteri del bosco attuale. Ad esempio, dall'inizio del ritiro dell'ultima glaciazione.
Il futuro più prossimo: il tipo nei limiti del prevedibile selvicolturale.
Nell'arco di un ciclo produttivo. Il bosco ha dunque una storia. Più che di storia è preferibile parlare di linea evolutiva, in accezione temporale.
Tale cammino ha dei limiti anche spaziali. Vista la struttura "complessa e articolata" dei sistemi naturali, operiamo per gradi successivi di precisione spazio-temporale (Zanella A., 1994, 1996). Il metodo seguito è quello di scoprire l'ambiente, utilizzando scale di osservazione via via più precise. Ad ogni livello corrispondono sia limiti spazio-temporali, sia linee evolutive.
Al dettaglio spazio-temporale deve corrispondere la precisione nella definizione delle linee evolutive. Grandi spazi, linee evolutive approssimate; piccoli spazi, linee precise. E necessario fare un esempio. Prendiamo quello delle faggete delle Alpi orientali (Zanella A. e al. 1997).
Primo livello strutturale: la regione alpina orientale negli ultimi 15.000 anni.

Limite spaziale: le barriere montuose naturali, le quali disegnano i confini della regione alpina orientale. La "scatola" regionale è rimasta aperta verso Sud per la presenza del grande Lago di Garda, che sconfina nella Pianura Padana. Le faggete di quest'area si devono quindi interpretare come terre di conquista per una vegetazione arrivata da una porta ancora aperta su una situazione climatica avente carattere quasi mediterraneo. Il faggio occupa attualmente una fascia situata tra i 500 ed i 1.500 metri di altitudine sulle pareti più o meno inclinate del perimetro regionale.
Arco temporale: dall'inizio del ritiro dell'ultima glaciazione, cioè 15 mila anni fa. Salici nani, Betulle e Pino mugo operarono la ricolonizzazione di tutta la regione. Seguirono il Pino silvestre e le latifoglie termofile quali Querce, Tiglio, Olmo e Nocciolo. Più tardi la Picea relegò il Pino silvestre nell'area delle latifoglie.
L'Abete bianco fece la sua apparizione quando il clima divenne più caldo e umido, rimpiazzando la Picea, il Pino silvestre e le latifoglie in tutte le Alpi meridionali. Nelle zone più interne, la diffusione dell'Abete bianco fu più limitata a causa della concorrenza della Picea.
Solo in tempi più recenti (ultimi mille anni) iniziò il predominio del Faggio in tutto l'areale occupato dall'Abete bianco. Più a nord la comparsa del Faggio è stata un po' più tardiva e meno incisiva.
Secondo livello strutturale: faggete xero-termofile dei substrati calcarei, faggete mesofile dei substrati calcarei misti, faggete acidofile dei substrati silicatici.
All'interno dell'area così individuata, riconosciamo altre suddivisioni. Impiegando i termini in uso nelle scienze botaniche, si tratta di individuare il livello fitosociologico corrispondente all'alleanza.

A. faggete xero-termofile (alleanza: Cephalanthero-Fagion)
Clima: caldo, secco, mediterraneo, (continentale).
Substrato: carbonatico, sedimentario, facilmente alterabile.
Si tratta di faggete che si sono installate per ultime nella regione alpina orientale in seguito al riscaldamento progressivo del clima. Sono quindi le più giovani. Si trovano su substrato calcareo o dolomitico nella parte bassa della fascia occupata dal faggio o nelle zone con esposizione più calda. Sono certamente più frequenti nella fascia meridionale della regione.
In esse troveremo l'insieme delle specie termofilo-mediterranee.
Formano la transizione delle faggete verso i boschi della sottostante fascia delle querce. Tra i processi di trasformazione della sostanza organica, predominanti saranno quelli che si realizzano sotto climi caldi e relativamente aridi in presenza di calcare attivo.

B: faggete mesofile (alleanza Fagion o Eu-Fagion).
Clima: transizione, oceanico.
Substrato: carbonatico, misto, ricco di elementi nutritivi, mediamente alterabile.
Corrispondono alle faggete più tipiche, cioè quelle che hanno il più lungo cammino evolutivo, le più stabili e le meglio adattate. Il clima è quello preferito dal faggio ed il substrato permette la formazione di suoli fertili. I processi di trasformazione della sostanza organica sono i meno limitati dalle condizioni climatiche o di substrato. In questo ambiente dobbiamo aspettarci di trovare un riciclo della sostanza organica piuttosto rapido.

C: Faggete acidofile (alleanza Luzolo-Fagion).
Clima: transizione, continentale (alpino), umido, freddo,
Substrato: silicato, povero in elementi nutritivi, intrusivo, difficilmente alterabile, transizione.
Sono faggete che si sono formate o su substrati silicatici poveri di basi oppure in condizioni climatiche estreme (alpine, fredde). In quest'ultimo caso, esse occupano non la coda, ma il fronte di avanzamento delle faggete nell'area alpina occidentale e si trovano nella parte alta della fascia, nelle posizioni più fredde delle zone occupate dal faggio. Spesso formano la transizione alle peccete precedute da una più meno larga banda di foreste dove predomina l'Abete bianco. Negli altri casi, la povertà del substrato condiziona in modo prioritario la loro evoluzione. La trasformazione ed il riciclo della sostanza organica sono ostacolati sia dalle basse temperature che dal carattere silicatico e povero in basi della roccia.
Il terzo livello strutturale corrispondente ai tipi forestali o del valore del complesso suolo-humus .

All'interno dell'unità xero-termofila:
Faggeta xero-termofila (igrocline) su suolo umocalcareo a amphimull
Faggeta xero-termofila su suolo bruno calcareo a amphimull
All'interno dell'unità mesofila:
Faggeta mesofila (xerocline) su suolo bruno calcareo a oligomull o dysmull
Faggeta mesofila tipica su suolo bruno calcico a amphimull sottile
Faggeta meso-igofila (acidocline) su solo bruno lisciviato a mesomuti

All'interno dell'unità acidofila:
Faggeta acida tipica su suolo ocra podzolico a dysmoder o mor
Faggeta acida termofila su suolo podzolico bruno amphimull poco attivo

Come si vede il lavoro di ripartizione e di classificazione sempre più precisa dei boschi, nel caso le faggete, si basa sull'individuazione di una sotto unità tipica e di altre in transizione verso le unità diverse e di ordine superiore. Il principio ritenuto valido per quest'area si informa all'ipotesi che la diversità tra le sotto-unità possa trovare riscontro a livello di suolo e/o di humus. Così si sono distinte, per esempio, tre sotto-unità mesofile, quella centrale e tipica, quella di trasformazione all'unità termo-xerofila e quella di transizione all'unità acidofila. A questo punto ci chiediamo: è utile individuare altre unità di rango inferiore nella struttura del paesaggio forestale e perché?
La risposta è univoca: ci si ferma quando le nuove sotto categorie non hanno più un comprensibile significato ecologico, quando cioè non sembrano seguire più una propria linea evolutiva. Nel caso delle faggete studiate nell'area del Trentino, chiare sono le linee evolutive dei primi due livelli. Piuttosto difficile da interpretare è stata invece l'esistenza di un terzo livello di organizzazione spaziale. Il primo livello corrisponde all'area regionale, in quanto spazio isolato geneticamente dalle barriere montuose, ma aperto verso sud grazie al Lago di Garda. Vi troveremo sicuramente delle faggete particolari, con tendenza evolutiva propria e con influenze mediterranee e certamente anche illiriche.
Il secondo livello corrisponde all'influenza combinata di substrato geologico di clima. Vi si leggono tre linee evolutive separate, che portano verso boschi specializzati in ambienti rispettivamente basofili, mesofili e acidofili - freschi. I meccanismi che portano a tali specializzazioni sono noti:
Prima linea evolutiva: da un lato CaCO3 blocca la mineralizzazione e l'umificazione delle sostanze organiche (formazione di pellicole protettive); il riciclo delle lettiere viene rallentato; il sistema "funziona" più lentamente. Dall'altro lato le piante si difendono dal clima caldo e secco producendo strutture in grado di controllare meglio la perdita e l'assorbimento dell'acqua.
Seconda linea evolutiva: i fattori limitanti dell'ambiente hanno livelli più alti che in altri ambienti di faggeta regionale. Gli alberi crescono bene. Il suolo è ricco di elementi nutritivi, i lombrichi formano orizzonti organo-minerali ben strutturati, le radici ne approfittano, le foglie vengono rapidamente riciclate...
Terza via d'evoluzione: il substrato libera ossido di silicio, che nella soluzione del suolo produce acido silicico.
La microflora batterica e la fauna del suolo non amano l'ambiente acido.
Ne conseguono un rallentamento della decomposizione delle lettiere e la formazione di complessi solubili tra acidi umici di basso peso molecolare e idrossidi di ferro e alluminio. In ambiente piovoso, tali complessi vengono lisciviati con formazione di orizzonti particolari nel terreno, tipici dei suoli podzolici. La vegetazione si deve adattare a tale situazione. I meccanismi in grado di spiegare le sotto-unità del terzo livello si possono trovare immaginando vie evolutive di transizione tra i modelli precedenti. Al "tutto bloccato" della faggeta termo-xerofila su calcare, può corrispondere un "blocco parziale" per una faggeta mesofila su calcare con tendenza xero-termofila. Nella prima troveremo un amphimull molto sviluppato su suolo calcareo e nella seconda un amphimull poco sviluppato su suolo calcico. Qui hanno fine le indagini del tipologo forestale. Per procedere verso analisi più di "fino" servono nuove conoscenze che per il momento ci fanno difetto. Pensiamo che la scala di omogeneità definita con il terzo livello sia sufficiente per descrivere i tipi forestali. Abbiamo infatti tre linee evolutive ben definite e qualche forma di transizione.
Sulla composizione dei rilievi floristici si possono effettuare delle analisi statistiche multivariate. Esse hanno effettivamente confermato la presenza di rilievi simili nei tre gruppi del secondo livello a loro volta suddivisi in due o tre insiemi secondari portanti i rilievi del terzo livello.

Tale studio sulla vegetazione permette di censire specie forestali utili al riconoscimento in campo di ogni tipo.
 
Tipo 1, faggeta submontana termo-xerofila: faggio + orniello + roverella + maggiociondolo + acero campestre + gruppo di specie termofile dell'alleanza del Cephalanthero-Fagion;
 
Tipo 2, faggeta submontana termofila: faggio + ostria + acero di monte (+ tiglio + tasso) + gruppo di specie termofile dell'alleanza del Cephalanthero-Fagion;
 
Tipo 3, faggeta montana mesofila xerocline: faggio (+ abete rosso) + carex alba, Polygala chamaebuxus + erica merbacea + altre specie termoxerofile dell'alleanza dell'Erico-Pinion;
 
Tipo 4, faggeta montana mesofila tipica: faggio + dentarie + altre specie mesofile dell'alleanza del Fagion sylvaticae;
 
Tipo 5, faggeta mesofila altimontana: faggio + abete basso + abete bianco (+ megaforbie) + altre specie mesofile dell'alleanza del Fagion sylvaticae;

Tipo 6, faggeta montana dei substrati silicatici: faggio + betulla + sorbo degli uccellatori + abete rosso + larice + mirtilli + poche altre specie delle peccete;

Tipo 7, faggeta termofila dei substrati silicatici: faggio + castagno + rovere + ginepro + altre specie dell'alleanza del Quercion robori petreae.




Conclusione (o del vocabolario della tipologia forestale e delle procedure di indagine)
I tipi forestali corrispondono a tipi di stazione forestale. Si tratta in ultima analisi di ecosistemi di livello interessante per la selvicoltura. Infatti la stazione forestale (Susmel L. 1980) è quella parte di foresta grande come una o più particelle di gestione attiva aventi una certa omogeneità ecologica (vegetazionale, pedologica, geomorfologica, microclimatica e quindi anche di risposta selvicolturale, di produttività).
Vale l'eguaglianza:

Un tipo forestale = un sito con dati caratteri geomorfologici e con un tipo di clima + un tipo di vegetazione + un tipo di suolo - humus (+ un tipo di zoocenosi).
Per riconoscere tali tipi forestali è necessario condurre indagini su tutti i fattori che li definiscono. In generale, la stratificazione del campionamento considera nella regione studiata, prima una zonizzazione climatica, poi una suddivisione del substrato pedogenetico in tre categorie (calcareo, silicico, misto) ed infine una suddivisione del territorio in base agli effetti della selvicoltura. In ogni stato originato dalla sovrapposizione di questi tre criteri, vengono individuati siti di rilevamento composti in linea (ogni 100 - 200 metri, perpendicolarmente alle linee di livello) oppure a caso all'interno di un'area prescelta nello strato per la sua rappresentatività (per esempio, una foresta ben nota sul piano selvicolturale). In ogni punto si procede al rilevamento dei parametri stazionali (quota, pendenza, esposizione, roccia, madre, substrato pedogenetico), al rilevamento pedologico e a quello fitosociologico.
A tavolino si inizia con l'analisi sulla vegetazione e con lo studio sui profili del suolo.
I risultati delle analisi multivariate sulla composizione floristica si confrontano con le classificazioni dei profili, cercando quel compromesso che serve a individuare categorie di ambienti corrispondenti ai tipi forestali. In questa fase, importantissimo è il punto di vista del forestale. I tipi forestali hanno infatti un valore selvicolturale solamente se si inseriscono bene nel quadro forestale regionale. Il livello strutturale in cui si trovano i tipi forestali non è facilmente riconoscibile. L'individuazione di linee evolutive non per le specie, ma per parti di ambiente, è ancora oggetto di discussione (Zanella A. 1995). L'interpretazione del loro funzionamento ecologico si basa sul riscontro di tendenze. Per il forestale i tipi si trovano all'orizzonte del prevedibile. In questa banda di incertezza trovano spazio leintuizioni personali. E necessario mediare, accettare compromessi, aspettare di saperne di più. L'approccio fitosociologico non soddisfa ancora tutti i forestali. Ma le suddivisioni fitoclimatiche sono troppo ampie. La strada intrapresa dai forestali italiani è quella di classificare prima di tutto le foreste su base ecologico-selvicolurale. La decisione di creare nuove categorie di foresta spetta al selvicoltore, il quale conosce la sua ragione ed ha già in mente una stratificazione (foreste più o meno produttive, fustaie, cedui, organizzazione dei tagli, fabbisogno locale di legname ed altro ancora). Gli basta approfondire le sue conoscenze facendosi aiutare da botanici, geologi e pedologi. Così, la posizione nel contesto geomorfologico regionale ed i dati climatici gli forniscono una stima dell'influenza climatica. Il rilievo floristico e lo studio multivariato precisano le categorie di foreste rispetto ad un sistema di classificazione internazionale. Il rilievo pedologico permette di fare luce sulle disponibilità trofiche dell'ambiente e sulla sua potenzialità produttiva. Nascono così nuovi mezzi utili alla gestione forestale. Tra questi, la tipologia forestale di una regione descrive l'organizzazione dell'ambiente. Il forestale non si occupa più solo di alberi, ma di ecosistemi. Gestire ecosistemi significa agire in funzione di un orizzonte del prevedibile che è molto ristretto per i sistemi regolati da funzioni non lineari come sono i tipi forestali.
E in quest'ottica che trova spazio quella selvicoltura di tipo naturalistico tanto cara ai forestali italiani. Essa riconosce i limiti dell'azione umana. Adotta un principio di umiltà verso l'evoluzione naturale che conduce verso una sempre maggiore complessità delle strutture spaziali nel correre del tempo.
Il bosco è una di queste strutture. Non possediamo le conoscenze per comprendere a fondo la vita del bosco.
E allora rispettiamo il suo evolvere naturale, cercando di inserire l'opera dell'uomo selvicoltore in questo stesso movimento.

* Dipartimento Territorio e Sistemi Agro Forestali Facoltà di Agraria, Università di Padova 35020 Legnaro Agripolis
Tel.: 049.827.27.55; fax: 049.827.26.86
e-mail: azanella@agripolis.unipd.it




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