Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 26 - FEBBRAIO 1999
  Verso nuovi criteri per la classificazione delle aree protette
Cesare Lasen*


1. Premessa

L'esistenza di aree naturali protette nei diversi Stati del pianeta è un fatto di indubbia rilevanza, non solo scientifica ma anche sociale e culturale; certamente un segno di civiltà la cui importanza storica e strategica, spesso sottovalutata, merita di essere associata alle più straordinarie scoperte scientifiche e alla rivoluzione informatica. Non sorprende, quindi, che le motivazioni che hanno condotto alla creazione di queste aree protette siano spesso le più disparate e che risulti oggi, sempre più difficile ricondurre a criteri e tipologie omogenei le nuove aree. In particolare il problema si pone nella situazione italiana che dopo decenni di più o meno colpevole stasi, ha visto sorgere, a partire dagli anni '90, già una quindicina di nuovi parchi nazionali mentre altri sono in itinere. A fronte di questa positiva ed apprezzabile crescita quantitativa sembra inopportuno che si continui ad assistere senza reazioni alla sequenza di eventi che rischia di stravolgere il significato originario delle stesse aree protette. Ringrazio quindi la direzione della rivista che mi consente di esprimere opinioni che sono maturate nel tempo e che derivano sia dalla sensibilità naturalistica che continuamente si esercita nei rilievi di campagna e nella lettura del territorio, sia dall'esperienza maturata nella delicata fase di avvio e di gestione di uno dei nuovi parchi nazionali (Dolomiti Bellunesi).

 

2. I nodi al pettine

Storicamente le aree protette sono nate, in Italia come nel resto del mondo, al fine di tutelare le aree naturalisticamente e paesaggisticamente più significative. I parchi cosiddetti storici in particolare hanno legato il proprio nome (e quindi la ragione stessa della loro esistenza) alla protezione di qualche animale in pericolo di estinzione. Per i parchi della nuova generazione, invece, i motivi sono assai diversificati e, quasi per tutti, si trattava di trovare un'alternativa con valenza socioeconomica ai rischi derivanti dall'abbandono di aree montane o di zone comunque depresse. La ratio della 394/91 non lascia dubbi in proposito. Resta questo il primo nodo, quello del limite tra tutela e sviluppo cosiddetto ecosostenibile. I gestori dei nuovi parchi si stanno misurando, sia a livello di pianificazione che nelle decisioni operative, con questa problematica, tra spinte opposte che, nella grande maggioranza dei casi si possono sintetizzare tra due posizioni estreme, quelle dei rappresentanti delle associazioni ambientaliste che premono per evitare interventi utili alla fruizione turistica ma comunque impattanti e quelle dei rappresentanti della comunità del parco (amministratori locali) che si battono per aver meno vincoli e quindi per una maggiore libertà di azione che consenta la costruzione di nuove strade o piste forestali, nuovi prelievi, una più intensa utilizzazione delle risorse ambientali. E compito dell'Ente Parco esprimere la sintesi tra queste due anime. Ovviamente si tratta di un compito molto arduo che richiede doti di equilibrio e forti competenze territoriali.

Il fatto che per le aree protette, e in particolare per i parchi nazionali, siano previsti specifici finanziamenti, ha sollecitato gli appetiti di ambienti che con la tutela della natura e della biodiversità hanno probabilmente poco da spartire. Qualora non si arginasse in tempo utile un simile percorso, fuorviante rispetto alle motivazioni iniziali e scientificamente e culturalmente più fondate, si innescherebbe un meccanismo pericoloso con il risultato di favorire un sistema ingovernabile (o già oggi è molto difficile, per ragioni anche obiettive che si ricorderanno in seguito), inflazionato di aree protette, caratterizzato da interpretazioni locali che snaturerebbero l'essenza stessa del sistema, minandolo alla radice e consentendo poi ai detrattori (certo ancora assai numerosi e attenti solo ai possibili vantaggi derivanti da speculazioni economiche) di sostenere con evidenti motivazioni il fallimento di una politica basata sui vincoli. Fare chiarezza su questo aspetto non è quindi una critica diretta a quanto di buono è stato prodotto in questi anni ma un invito, pressante, a studiare seriamente il problema per evitare conseguenze dannose per tutti ma, soprattutto, per la tutela del patrimonio ambientale e per la credibilità dell'intero movimento.

Un altro potenziale equivoco, che attende chiarimenti o quanto meno un'organica sistemazione, è rappresentato dalle competenze dei diversi enti istituzionali. Dallo Stato alle Regioni, alle Province, ai Comuni (con tutti gli altri organismi istituzionali di livello intermedio) il problema non dovrebbe essere di chi comanda e fa ciò che vuole ma quello di distinguere nettamente le direttive generali (che in tema di ambiente naturale devono essere dello Stato che fissa criteri chiari ai quali attenersi) dagli aspetti gestionali per i quali è invece opportuno che vengano coinvolte il più possibile le comunità locali. Solo in simile prospettiva trova un significato la distinzione tra un parco regionale o un biotopo il cui valore naturalistico è molto elevato ma che differiscono sostanzialmente per dimensioni e quindi per modalità di gestione. Lo Stato dovrebbe favorire un sistema di aree protette che induca ogni ente subordinato ad attivarsi per sviluppare al meglio la politica di tutela delle risorse ambientali, partendo dal presupposto, essenziale, che la tutela del patrimonio naturalistico e della biodiversità non è un optional da lasciare agli interessi locali ma un'esigenza nazionale e, anzi, planetaria che va anche, in qualche modo, organizzata e imposta. Si può anche pensare di premiare chi lavora bene in questa direzione e di penalizzare chi, al contrario, ignora le direttive prevedendo in tal caso anche poteri di surroga.

 

3. La situazione in Italia

In Italia esiste un elenco ufficiale delle aree protette che comprende: parchi nazionali, riserve naturali statali, parchi naturali regionali, riserve naturali regionali, altre aree naturali protette. In questa sede non ci si occupa della problematica dei parchi e delle riserve marine che pure svolgono una funzione essenziale e che sono caratterizzate da problemi non certo marginali: anche questo è un settore in cui non mancano le complicazioni.

Tale elenco ufficiale non esaurisce tuttavia la problematica delle diverse tipologie di aree protette. Di fatto esistono altre tipologie che meritano di essere considerate: parchi comunali, comprensoriali, suburbani, biotopi di diversa entità e livello di protezione (non tutti sono inseriti nell'elenco, ufficiale, basti pensare a quelli della Prov. Autonoma di Bolzano esclusi in quanto vi è consentito l'esercizio venatorio), oasi gestite da associazioni protezionistiche o da privati.

Esistono inoltre, sia pur con caratteristiche che certamente ne impediscono l'inserimento in elenco ufficiale, altre zone di interesse naturalistico e ambientale, individuate dalla pianificazione regionale o provinciale (i cosiddetti PTRC, PTP, piani d'area, ecc.). Queste aree sono comunque riferimenti importanti per la tutela della biodiversità e per qualsiasi programmazione di livello nazionale. Ancora più determinanti, anche se attualmente in itinere, e comunque mancanti di un riconoscimento ufficiale (ma esistono delibere di recepimento del nostro Ministero dell'Ambiente che si è limitato a trasmettere quanto proposto dalle Regioni), sono le aree individuate nell'ambito del progetto Bioitaly, che includono anzitutto i SIC (siti di interesse comunitario), i SIN (nazionale) e i SIR (regionale). Nell'ambito del progetto Bioitaly, derivante da iniziative comunitarie collegate alla rete Natura 2000 e al Corine, sono state individuate anche le ZPS e ZSC (zone speciali di protezione e conservazione), la cui identificazione, quasi sempre sovrapposta ad aree già protette, fa perno in particolare sulla direttiva habitat e su una lista di uccelli considerati minacciati e a rischio di estinzione. Si tratta di un argomento molto interessante e complesso, sul quale non è circolata molta informazione e che merita certamente uno spazio a sé stante.

E inoltre noto che si sta lavorando alla predisposizione della Carta della Natura (argomento al quale questa Rivista ha già dedicato specifici servizi) e che si va sempre più imponendo il concetto di "corridoi ecologici" quali spazi minimi vitali da tutelare per evitare la frammentazione della rete di aree protette, unica garanzia per la sopravvivenza (o per garantire condizioni accettabili per i grandi carnivori che potrebbero rioccupare spazi oggi in gran parte abbandonati dalle attività umane) di alcune specie.

Nella già ampia e complessa panoramica di aree potenzialmente protette (e comunque ecologicamente interessanti) non si dovrebbe trascurare la biodiversità legata alla foresta. Pochissime sono le aree lasciate senza interventi gestionali alla libera evoluzione mentre, almeno nei parchi e nelle foreste più significative ed estese, è di fondamentale importanza il concetto di "riserva forestale". L'uomo deve sapere ciò che accadrebbe normalmente in natura senza il suo intervento; è una regola basilare per ogni sperimentazione scientifica poter disporre della prova cosiddetta "in bianco". Altri Paesi, di cultura e possibilità economiche inferiori alla nostra, reputano fondamentale investire risorse per tenere sotto controllo l'evoluzione dei principali ecosistemi attraverso un monitoraggio standard che consente di rilevare rapidamente eventuali variazioni di tipi climatico, e da fico, ecc.. In ogni caso non sarebbe molto difficile incentivare la conservazione delle pregiate risorse forestali, sia per capire il funzionamento della natura che per scopi applicativi. Servono indirizzi che prevedano la tutela dei boschi da seme, dei germoplasma, la conservazione di ecotipi nostrali per evitare o limitare un inquinamento genetico che nei rimboschimenti ha creato non trascurabili guai. La mancanza di una cultura ecologica nel senso più ampio ed originario del termine ha già prodotto effetti nefasti.

Alla luce della situazione attuale, comunque relativa ad aree protette in qualche modo già identificate ancorché non ancora sottoposte a particolari vincoli di tutela o di gestione attiva (è doveroso sottolineare che la conservazione di alcuni habitat e di specifiche biocenosi è legata ad interventi antropici mirati e che conservazione non vuol dire soltanto tutela passiva), si deve osservare che vi sono ancora diverse aree di grande valenza biogeografica che non godono di alcun tipo di protezione. Forse le risorse investite per la Carta della Natura; al di là dei problemi di natura tecnica, informatica e di rappresentazione cartografica che indubbiamente esistono, poteva rappresentare l'occasione (in tal senso Bioitaly è stato utilizzato bene solo da alcune regioni, e ciò determinerà non trascurabili squilibri nell'assetto complessivo con possibili negative conseguenze nelle decisioni operative) per avviare quell'opera di minuto censimento del territorio che non richiede grandi mezzi tecnici ma una fitta rete di persone (che certo non mancano) da coordinare localmente per l'esplorazione e il rilevamento delle aree (e ve ne sono ancora da scoprire) a più elevata naturalità o di maggiore pregio naturalistico.

Il risultato è che Ministero e Regioni forniscono dati quantitativi sull'estensione delle zone protette (talvolta solo sulla carta) senza disporre effettivamente del quadro reale. A ciò si aggiunge un'eccessiva frammentazione che nei fatti impedisce o limita le possibilità di una gestione oculata e rispettosa delle esigenze ecologiche più elementari.

Per fortuna, ma spesso è già tardi sorgono ormai spontanei, in diversi contesti locali, movimenti che si preoccupano della qualità della vita e che tentano di opporsi alla realizzazione di opere considerate troppo impattanti e nocive per la salute. Le carenze normative sulla valutazione di impatto ambientale non lasciano molto spazio alla speranza di poter seguire questa via almeno fin tanto che tale valutazione sarà a carico dell'impresa che progetta l'intervento. L'esperienza diretta, mi suggerisce che solo rimuovendo alla radice questa situazione si potrebbe confidare in futuro sui risultati di tali studi di impatto ambientale.

Per evitare l'ulteriore compromissione di ambiti ecologicamente significativi vi sarebbe a disposizione uno strumento legislativo che potrebbe risultare molto efficace e di semplice attuazione. Si tratterebbe di inserire nella realizzazione dei P.R.G. comunali (e di altri strumenti di pianificazione sovraordinati) l'obbligo (certamente incentivandolo con specifiche risorse) di individuare in dettaglio le aree più sensibili e meritevoli di tutela (biotopi) prevedendo una commissione di esperti (non di amministratori) su base regionale o provinciale che verifichi la validità e la congruenza, sulla base di tutte le conoscenze già acquisite, delle indicazioni raccolte. Ciò a prescindere da scelte successive in cui la mediazione politica potrà esercitarsi, come, del resto, è sempre avvenuto finora. In altri termini se si decide di sacrificare un lembo di territorio caratterizzato da elevate valenze naturalistiche e biogeografiche è comunque importante sapere che lo si fa per le esigenze dello sviluppo e se ne assumono, di conseguenza, le relative responsabilità. Si constata infatti che, a fronte della crescita numerica e della percentuale della superficie protetta, continuano le aggressioni al territorio che incidono negativamente sulla conservazione della biodiversità e degli spazi prossimo-naturali. Ciò continua a verificarsi nonostante l'esistenza di una complessa normativa (forse troppo farraginosa ...), utile sì a bloccare alcune iniziative (talvolta anche positive) ma che non impedisce un utilizzo improprio delle residue risorse ambientali.

Infine, sarebbe necessario che i paesi dell'UE concordassero politiche unitarie per la tutela dell'ambiente e criteri omogenei. Spesso nella ratio di alcune direttive comunitarie si leggono proposte di intervento che sono confezionate su misura per i paesi del Centro e Nord-Europa, spesso a bassa biodiversità, mentre i Paesi del Mediterraneo, che dispongono di un patrimonio molto intaccato ma sempre largamente superiore, non hanno a disposizione i mezzi finanziari per realizzare interventi mirati di tutela. E quindi più facile, in ultima analisi, che vengano rese disponibili significative risorse finanziarie per realizzare interventi di recupero di zone degradate o manomesse da precedenti sbagliati interventi (ad esempio nei settori agricolo e forestale) piuttosto che favorire la conservazione (evitandone la distruzione) di zone ancora prossimo-naturali, ad elevata valenza e sensibilità ecologica. Sarà sufficiente analizzare i bilanci del Ministero dell'Ambiente per verificare quante risorse sono disponibili per opere e interventi che con la vera conservazione della natura e degli habitat hanno poco a che vedere. E ciò vale anche per le aree protette, come potrei ampiamente dimostrare sulla base dell'esperienza diretta.

 

4. L'evoluzione delle aree protette dopo la 394/91

Il panorama delle aree protette si è indubbiamente molto arricchito negli anni '90. Quindici sono i nuovi parchi nazionali che si aggiungono ai cinque storici ed altri sono già in itinere. A livello quantitativo un successo formidabile, ma non sono tutte luci. Ci si limita a ricordare alcune situazioni di sofferenza o comunque di evidente contrasto.

  • Un tentativo di trasformazione di parchi regionali in nazionali, non sempre motivato.
  • L'esistenza di spinte alla creazione di nuove aree protette che non sempre sono motivate da requisiti scientifici e, talvolta, neppure da quelli socioeconomici.
  • L'esistenza di molte regioni che non hanno ancora adeguato la propria normativa alla 394/91. - I veri e propri piani di smantellamento delle aree protette (a partire dalle strutture amministrative) che altre regioni hanno avviato.
  • L'esistenza di situazioni così diversificate per dimensioni, popolazione residente e tipologie territoriali che rendono problematico il ricorso a criteri di finanziamento e di gestione comuni. Si pensi ad esempio, alla differenza tra il Vesuvio e il Pollino a tra il Cilento e la Val Grande. Opportunamente nella recente legge che adegua la 394/91, la 426 del 9 dicembre 1998, si accenna finalmente a sistemi (Alpi, Appennino, isole e coste, dimenticando forse i fiumi) che meritano specifiche azioni di livello nazionali.
  • Tra gli stessi parchi regionali esistono eccessive differenze che sollecitano una classificazione fondata su criteri più oggettivi. Solo un esempio e riguarda il Veneto. Tra i cinque parchi regionali vi è quello dei Colli Euganei, molto antropizzati con decine di migliaia di abitanti e problemi di cave, ripetitori, agricoltura intensiva e, allo stesso livello, quello delle Dolomiti d'Ampezzo, gestito dalle Regole (un solo proprietario e gestore) privo di abitanti stabili e con l'unico problema di limitare o razionalizzare il flusso turistico.

Le differenze e i problemi appena menzionati rendono, nei fatti, difficilmente raggiungibile un obiettivo strategico che dovrebbe essere prioritario e comunque necessario: quello della creazione di un vero sistema di aree protette, una condizione senza la quale il nostro paese è destinato a recitare un ruolo ancora marginale. E attraverso la realizzazione di un sistema di aree protette (variamente integrato e con diverse valenze, purché obiettive) che si potranno cogliere le opportunità derivanti da un patrimonio straordinario che tutti ci riconoscono e che è fatto da una straordinaria biodiversità di natura, arte, cultura.

 

5. Requisiti scientifici e soluzioni politiche

 

Alla luce della situazione fin qui esposta, sembra necessario raccomandare con forza l'opportunità di avviare un serio lavoro teso a ricondurre le diverse tipologie di aree protette a una scala di valori che, senza imitare le serie calcistiche, stabilisca dei requisiti minimi standardizzati che devono essere rispettati per poter appartenere a una delle categorie. Ci si limita, in questa sede, ad alcune esemplificazioni:

  • Per essere parco nazionale dovrebbe servire anzitutto una dimensione minima e si dovrebbe inoltre stabilire una percentuale minima significativa di territorio le cui caratteristiche ricadano nella categoria Il dell'IUCN. Le valenze naturalistiche eccezionali devono essere comprovate e si potrebbero ammettere solo dei correttivi che tengano conto del contesto socioeconomico di area depressa (senza snaturare i requisiti ambientali).
  • Tra gli attuali parchi regionali ve ne sono alcuni di indubbio interesse nazionale (è il caso dell'Etna) che solo per motivi di ordine politico, spesso legati all'esistenza di autonomie regionali e provinciali, mantengono tale qualifica. Altri, al contrario, sono molto antropizzati e ben strutturati (è il caso del Ticino) e in essi si realizzano gestioni simili a quelle dei cosiddetti "Piani d'area". Esiste quindi un concetto di parco molto ampio (direi anche troppo ...) che va da zone di sostanziale riserva naturale (alcuni tra quelli dell'Emilia Romagna e del Piemonte, le Dolomiti d'Ampezzo, le Dolomiti Friulane) ad altri che ospitano contemporaneamente zone prossimo naturali assai pregiate e siti più o meno antropizzati o talvolta anche degradati (esempio Panoveggio - Pale di San Martino, Lessinia, ...) a territori che sono decisamente poco naturali (La Mandria, etc.) pur non mancando di elementi di pregio per altre motivazioni, certamente degne di essere adeguatamente considerate e valorizzate.

A proposito di parchi e riserve naturali è opportuno ribadire che una differenza dovrebbe riguardare anzitutto le dimensioni mentre è importante sottolineare anche l ' aspetto della fruizione: in una riserva dovrebbe vigere il numero chiuso e va evitata una fruizione turistica di massa. Molto importante, nell'ambito dei parchi (che quindi per chiamarsi tali, dovrebbero avere una dimensione minima) è il ruolo della zonizzazione, che anche nei parchi soggetti a fruizione deve salvaguardare le aree più vulnerabili.

Quanto alle incongruenze che sono state determinate da motivazioni politiche che nulla hanno a che spartire con la vocazione del territorio e con le esigenze effettive di tutela, si possono citare altri esempi, scelti tra i più eclatanti ma non esclusivi in quanto la serie sarebbe molto più nutrita:

  • Tra il Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi e quello naturale provinciale di Paneveggio - Pale di San Martino (Trento) esistono in linea d'aria solo pochissimi Km di distanza (sono pressoché contigui). La zona che li separa è la Val Noana, territorio di straordinario interesse naturalistico e forestale dove albergano comunità di abeteti e abeti-faggeti che rappresentano quanto di meglio è possibile reperire oggi nelle Alpi sudorientali. Evidentemente gli ostacoli potenziali di natura amministrativa hanno prevalso sulle caratteristiche dei territorio.
  • Tra Etna (parco regionale) e Vesuvio (parco nazionale) riesce difficile fornire una spiegazione fondata su reali valenze ambientali e sui requisiti scientifici.
  • Le foreste demaniali di Tarvisio sono sicuramente tra le più note e produttive, ricche di storia e di valenze ambientali ben documentate. Pur essendo di proprietà pubblica non si è ancora riusciti a trovare il modo per garantire una gestione unitaria e per valorizzare la funzione di conservazione oltre a quella produttiva. Discorso analogo vale per il Cansiglio dove più enti sono coinvolti nella gestione. Manca una scelta precisa tra gestione pubblica e privata e tutto viene rinviato in attesa di tempi migliori. Il caso delle riserve biogenetiche dell' ex ASFD è troppo recente e paradigmatico per non essere considerato esemplificativo.
  • Nella montagna lombarda le aree protette o sono mancanti o si fa di tutto per distruggere quanto era stato faticosamente costruito. In compenso (ciò che in assoluto, sia ben inteso, non è un fatto negativo) sono costituiti in parco aree assai antropizzate quali il Ticino, le Groane, le zone agricole a sud di Milano, ...). Si concorda sul principio che si potrebbe ritenere che non servono i parchi in zone di alta montagna che, in realtà, non necessitano di particolari modelli gestionali (avere parchi di crode e di soli ambienti nivali poco frequentati potrebbe essere superfluo se l'ambiente si tutela da sé). In tal caso, si dovrebbero rispettare alcune regole generali e ciò che non convince e crea evidenti disparità è l'esistenza di situazioni molto diversificate nelle varie regioni e ciò alimenta confusioni deleterie nei cittadini, ognuno dei quali ipotizza un proprio modello ideale di parco o di riserva.
  • Nell'area dolomitica, dove pur esistono lembi di territorio a vario titolo protetto, restano fuori, e forse non è soltanto casuale, alcune delle zone più fragili e interessanti (Giau, Pelmo, le torbiere del Comelico).

E infine auspicabile che, pur con tutti i limiti che non è qui il caso di sottolineare ulteriormente, il lavoro relativo al programma comunitano Bioitaly che ha portato all'individuazione dei SIC, e quindi dei SIN e SIR, abbia contribuito ad individuare, almeno nella maggioranza delle regioni, le aree effettivamente meritevoli di tutela sulla base della loro effettiva valenza biogeografica.

Quanto alle altre difficoltà che evidenziano l'urgenza di rivedere in modo serio il sistema di classificazione della aree protette (non è azzardato definire quello attuale confuso e superato) basti citare le vicende relative al Parco delle Cinque Terre, al già citato Delta del Po, alle difficoltà dei parchi sardi.

Al fine di evitare di essere considerati dei fautori della tutela integrale ad ogni costo (del resto difficile per chi è nato e vissuto in montagna) va rilevato che alcune forme tradizionali di uso del territorio non solo sono compatibili ma vanno ritenute essenziali per la tutela della biodiversità. E il caso, ad esempio, delle praterie dolomitiche senza le quali il fascino dei Monti Pallidi sarebbe sicuramente molto inferiore. Esse devono essere mantenute per l'armonico equilibrio del paesaggio e in altri Paesi europei già da alcuni decenni (Svizzera, nella zona di Davos) sono attivi programmi sperimentali e ben funzionali per la conservazione e il monitoraggio dei prati da sfalcio.

 

6. Alcune proposte e idee per un riordino

A) Si auspica una svolta che porti alla revisione dell'attuale sistema di classificazione. Essendo difficile ipotizzare, nella nostra realtà amministrativa, una rivoluzione, si può ragionevolmente puntare a una graduale sensibilizzazione verso l' urgenza di una presa d' atto della situazione, senza escludere correttivi e modifiche che già oggi appaiono non rinviabili.

B) Appare necessario un pieno coinvolgimento delle Regioni (e degli altri enti locali) per poter delineare una politica di sistema. Anche ad alcuni parchi regionali va riconosciuta una qualifica di parco di interesse nazionale, fondata anzitutto sul vero valore ambientale e, in tal caso, si dovrebbero prevedere incentivi finanziari qualora si rispettino determinate regole (ad esempio: nessun contributo se è possibile la caccia o se il piano del parco è troppo permissivo, risorse aggiuntive se sì valorizza seriamente l'agricoltura biologica e se si istituiscono riserve forestali).

C) Nel nostro sistema mancano vere e proprie "riserve forestali". E molto importante la gestione (tenendo presente che anche il non intervento è una scelta gestionale). E giunto il momento di risolvere le situazionì già citate (Cansiglio, Tarvisio, ma ve ne sono molte altre) attualmente lasciate solo alla buona volontà di alcuni e soggette ai cambiamenti di umore e di tendenza politica dei vari assessorati. Dove possibile le riserve forestali dovrebbero essere incentivate anche all'interno dei parchi. Una recente iniziativa di censimento, del resto fondata sul volontariato e avviata dal WWF, non è stata sufficiente a sintetizzare il valore del patrimonio forestale. Non è chiaro il motivo per cui tali iniziative, senza dubbio assai lodevoli, non partano direttamente dagli organismi ministeriali competenti, eventualmente avvalendosi anche del contributo delle associazioni.

D) Stabilire dei criteri da concordare a livello UE che considerino diversi parametri quali:

  • Le risorse vanno attribuite anche per gestioni di carattere naturalistico e per i ripristini e non solo per incentivi alle popolazioni locali (senza dubbio utili nella fase iniziale per far accettare I ' idea di parco). Non si può immaginare, ad esempio, che la gestione delle riserve naturali possa avvenire a costo zero.
  • Agire sulla zonizzazione interna dei parchi, siano essi nazionali o regionali. Ciò per evitare una tendenza a far rientrare nei parchi le aree maggiormente antropizzate al solo fine di ottenere maggiori finanziamenti.

E) Favorire la creazione di biotopi, ad ogni livello, diffusi sul territorio. E fondamentale nel Piano per la biodiversità.

F) Accelerare la predisposizione della Carta della Natura e definire i corridoi ecologici per evitare l'attuale, eccessiva frammentazione.

G) Ridiscutere i concetti stessi di parchi e riserve per ridurre la confusione. E necessario definire con maggiore precisione dove si intende far prevalere gli interventi inerenti alla fruizione turistica e ricreativa e dove invece le azioni di tutela e conservazione con mirate e specifiche misure. In tal caso non è sempre sufficiente una buona zonizzazione. In occasione di convegni e tavole rotonde si è avuto modo di verificare l'esistenza, di idee poco chiare su tali concetti fondamentali e spesso si cerca di far convivere anche le posizioni più diametralmente opposte alimentando attese che non potranno mai essere soddisfatte .

H) Qualora non si volesse sconvolgere l'attuale sistema (dal momento che i nomi delle diverse tipologie di aree protette di fatto già esistono) si potrebbero introdurre delle suddivisioni interne. In conseguenza di ciò, esemplificando, i parchi nazionali della Val Grande e del Cilento - Vallo di Diano non potrebbero rientrare nella stessa categoria. Analogamente tra i regionali non si potrebbero equiparare Ticino e Dolomiti Friulane. Si dovrebbe lavorare per individuare parametri precisi da concordare anche in sede europea. E un passaggio che certo potrà scontentare qualcuno ma che appare ineludibile se si vuole evitare di alimentare confusioni.

I) Si tratta di individuare un sistema di incentivazioni mirate alla creazione di aree protette fondato non su basi quantitative (esempio la superficie) ma qualitative e nel rispetto di criteri scientifici. Ha molto più senso infatti proteggere una fragile e delicata zona di torbiera, o ambiti fluviali ricchi di biodiversità, piuttosto che crode e detriti in cui i vincoli sono poco significativi e sostanzialmente non necessari ai fini gestionali. Si tratterebbe di premiare Regioni, Province e Comuni che lavorano bene per tutelare il proprio territorio, salvaguardandone la biodiversità. Parallelamente va sperimentato un sistema di penalizzazioni per gli enti che non si adeguano e che distruggono zone importanti (di qui l'importanza di una Carta della Natura realistica e fondata su parametri validi).
E chiaro che non è semplice garantire l'indipendenza di giudizio ma l'ingresso nell'UE dovrebbe favorire una politica comune e facilitare l'individuazione di commissioni di controllo indipendenti.

J) Lavorare a fondo sul concetto di area contigua. Per i parchi alpini (e forse anche per quelli della parte centro-settentrionale dell' Appennino) è un passaggio fondamentale, e non solo per la soluzione dell'annoso problema della caccia che tanti ostacoli ha creato all'avvio dei parchi. Ipotizzando che anche le aree contigue vengano considerate una zona del parco a pieno titolo, si potrebbero in tempi rapidi istituire nuovi parchi e potenziare quelli esistenti garantendo nel complesso una migliore tutela del territorio.

* Segreteria tecnica della Federparchi