Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 26 - FEBBRAIO 1999
  Parchi e non-profit: malintesi e opportunità
Giorgio Osti *


Diversi servizi dei parchi naturali, come l'animazione, la gestione di centri-visita, la guida e il controllo dei turisti, sono spesso affidati ad organismi non-profit. Questa tendenza potrebbe diventare dominante per tante ragioni, fra queste non ultima vi sarebbe la spinta alla privatizzazione, così forte a scala mondiale. Con l'affidamento di determinate funzioni ad organismi senza fini di lucro potrebbe sembrare più tollerabile il passaggio al privato. Pare che nei parchi statunitensi la tendenza a decentrare al non-profit sia in una fase avanzata, soprattutto per quel che riguarda la sorveglianza. A fronte di questi scenari si osservano già solo nel contesto nazionale alcuni problemi: vi è una scarsa chiarezza nei rapporti fra parchi e questi organismi; questi stessi appaiono molto precari dal punto di vista organizzativo e finanziario; si registra una certa conflittualità fra le varie componenti del non-profit e fra queste e alcune figure professionali impegnate nei parchi.

Lo scopo di questo articolo è tentare un chiarimento della questione parchi e non-profit, portando qualche criterio dirimente. Ciò dovrebbe servire a rasserenare i rapporti e/o renderli più proficui rispetto ai fini generali del parco.

Per raggiungere questo obiettivo bisogna capire quale è il tratto peculiare del mondo non-profit e da questo risalire ai suoi vantaggi sociali ed economici e quindi ai corretti rapporti con l'ente-parco. La confusione nasce dai malintesi sulla natura prima di tutto sociale del non-profit. La domanda è dunque: quale è l'aspetto essenziale di questo ambito? Cosa lo qualifica in primis?

Non-profit è la classica definizione in negativo; viene definito ciò che non deve esserci, il lucro. E il vincolo a non distribuire gli utili di una attività economica. A questa caratteristica il diritto aggiunge la necessità che l'organismo abbia uno statuto democratico (un uomo, un voto, assemblee libere, elezione dei dirigenti..) e sia autonomo dallo Stato e dalle imprese. Queste due ultime condizioni non vengono pienamente rispettate dalle fondazioni, comunemente incluse nel terzo settore, mentre sono rispettate da associazioni e cooperative. Per le cooperative non-sociali vi sono pareri discordi sul fatto che siano completamente non-profit. La facoltà di remunerare il capitale dei soci fino al 2,5% in più dei rendimenti dei buoni postali fruttiferi rende meno stringente il vincolo della non distribuzione.

Ci si può chiedere, però, al di là della definizione economica o giuridica, quale sia il volto in positivo del non-profit. L'assenza di fini di lucro dovrebbe essere la conseguenza, la formula esteriore di un modello di interazione principalmente basato sulla reciprocità. Anche questo termine ha molti significati. Qui si adotterà il seguente: è uno scambio di cui non sono precisati i termini temporali e i contenuti; è uno scambio per lo scambio; il passaggio di oggetti serve a cementare un legame. Posta in questi termini la reciprocità può anche essere definita "ciclo del dono": un dare e un avere continuo che ha come scopo rinsaldare il rapporto in sé. Allora, il carattere che distingue il non-profit è un modo di interagire per il gusto di farlo; qualifica un modo di stare assieme oblativo e egualitario. La gratificazione deriva dal legame di reciprocità che tradotto in altri termini significa fiducia, solidarietà, gioco. Questo dovrebbe essere il 'volto' in positivo del non-profit: fare qualcosa per il gusto di farlo assieme, esaltare le doti del gruppo rispetto ai singoli.

Questa modalità interattiva è stata in qualche modo premiata dallo Stato. Esso riconosce dei vantaggi a chi si unisce in questi termini (sgravi fiscali, aiuti, servizi, ecc.). Le forme del sostegno pubblico si sono consolidate nel tempo, si sono stratificate e si modificano solo lentamente e parzialmente; si formano così giungle regolamentari dove il vecchio e il nuovo si mescolano (').

In linea generale, al di là dei problemi della regolamentazione, è giustificato il trattamento di favore per gli organismi non-profit. Dovrebbero essere chiari a tutti i vantaggi per la società dall'avere persone che fanno cose diverse, anche di spessore economico, primariamente per il gusto di stare assieme ('). Questa motivazione di fondo permette infatti di .... a) abbassare i costi delle relazioni. Chi vuole stare assieme impiegherà presumibilmente meno tempo a trovare un accordo. Questo vantaggio nel linguaggio degli economisti si traduce nell'abbattimento dei 'costi di transazione'; b) abbassare i costi delle prestazioni, perché la gratificazione primaria non è la remunerazione del prodotto ma il fatto di farlo assieme ad altri; se guardiamo al costo come una rinuncia ad un beneficio, allora il socio di una organizzazione non-profit avrà costi minori perché il suo beneficio immateriale è molto elevato(1); c) diffondere attività e servizi vari; dato che lo scopo è stare assieme vi è la ricerca continua di nuove persone da inserire nelle proprie attività; inoltre, si può presumere che un gruppo sia più efficace di singole persone nella diffusione di valori, idee e servizi. Ovviamente, con il tempo diverse altre motivazioni si sono aggiunte in questo o quel gruppo: a) visti i vantaggi fiscali e le simpatie pubbliche, si sono create forme di attività non-profit solo per godere di ciò; ecco la formazione di rendite e lo sfruttamento indebito di denaro pubblico; b) la professionalità dei singoli, cresciuta nel tempo, è diventata più importante del gusto di stare assieme; la crescita diseguale delle abilità professionali suscita il problema della equa remunerazione all'interno del gruppo; c) il non-profit si trasforma in una attività economica tout court che serve a tenere basso il costo del lavoro (data la maggiore flessibilità organizzativa e contrattuale) per essere competitivi in mercati deboli (aree marginali) o in mercati poco remunerativi (mansioni a bassa produttività); d) grandi associazioni nazionali si diversificano e utilizzano attività non-profit come strumenti di consolidamento organizzativo e finanziario. In conclusione - all'idea originaria - fare qualcosa per stare assieme, si sovrappongono continuamente una serie di motivazioni non pertinenti; a ciò si cerca di porre rimedio con la regolazione pubblica. Anche ora è in corso un tentativo di regolare gli aspetti fiscali di questo mondo attraverso il varo delle Onlus (Decreto Legislativo 4.12.1997, n. 460). Tuttavia, spesso la regolamentazione finisce per aumentare le procedure burocratiche senza bloccare gli abusi. Resta dunque il problema di individuare criteri discriminanti il non-profit autentico da quello pesantemente camuffato. Alcuni criteri dirimenti possono essere i seguenti:

  • il radicamento territoriale. Se non-profit significa essenzialmente fare in gruppo, se ne deduce che è più ampia la gamma delle persone con cui esso è in contatto; un gruppo può contare su una rete di relazioni più vasta; un gruppo poi significa una sede, un territorio di riferimento, uno spazio di azione; insomma un'area in cui è conosciuto e operoso;
  • azioni di coinvolgimento di cittadini, utenti, associati. Se si fanno servizi per il gusto di stare assieme, significa che si è maturata una competenza speciale nel diffondere ad altri questo entusiasmo; il far partecipare è uno stile educativo connaturato all'essere gruppo;
  • attenzione a soci e utenti svantaggiati. Se il fine è la relazione con l'altra persona, è probabile una attenzione particolare a quel socio o a quell'utente meno dotato di risorse fisiche, intellettuali e professionali.

Si tratta di criteri difficili da parametrare e applicare. Si tratta di criteri prevalentemente qualitativi, legati a valutazioni soggettive. E un primo tentativo che richiede molti raffinamenti. Ad esempio, il radicamento territoriale è riferito all'area-parco o riguarda anche aree esterne? A quali reti si fa riferimento? Vi sono infatti reti di affari, reti puramente affettive, reti virtuali o reali, monotematiche o meno. Come si può, poi, misurare il grado di coinvolgimento degli utenti in attività educative? E anche vero, però, che un amministratore, che conosce bene il proprio territorio, non avrebbe insormontabili difficoltà ad applicare questi criteri a singoli enti non-profit operanti nell'area-parco.

Lasciato per ora il problema della operazionalizzazione dei criteri, di per sé non facilmente risolvibile (1), bisogna chiedersi come debba regolarsi un parco nell'ipotesi che voglia decentrare o autorizzare delle attività ad un organismo non-profit. Volendo essere coerente, ingaggerà o faciliterà una tale organizzazione solo quando potrà esaltarne le peculiarità a favore dei fini del parco. In linea teorica, i provvedimenti di un parco che implicano un' azione corale sono molti. Facciamo solo qualche esempio:

  • l'educazione ambientale: si può immaginare che fatta da un gruppo esalti alcune dimensioni pedagogiche: il confronto, la percezione delle soluzioni alla crisi ambientale come responsabilità fra persone e non solo fra singoli e oggetti ambientali da proteggere, il correlare più facilmente usi dell'ambiente e popolazione che vi abita, l'utilizzo più agevole di tecniche di gruppo;
  • visita dei luoghi di vita delle popolazioni locali del parco; nell'ipotesi - sempre attuale che il parco sia anche una comunità vivente di cui apprezzare i segni del passato come del presente, il gruppo non-profit a forte radicamento locale diventa uno strumento indispensabile. Può più agevolmente avvicinare i visitatori ai locali; - azioni politiche in senso lato verso i locali (partecipazione alle decisioni, costruzione del consenso, animazione culturale ..). Tutte queste azioni diventano sicuramente più efficaci se mediate da un gruppo non-profit, purché goda della fiducia di tutti ovvero sia formato a partire dalla disinteressata voglia di stare assieme.

Molti altri servizi soprattutto di natura turistica e di orientamento dentro-verso il parco possono essere esaltati se svolti da un gruppo di persone. Se si parte dall'idea che la fruizione turistica, in particolare quella del parco, è una esperienza di socialità, di festa e di celebrazione collettiva (Padiglione, 1989), allora, il servizio a partire da un gruppo diventa uno strumento molto adatto. Lo strumento di animazione diventa infatti la prova effettiva che quei valori di convivialità sono presenti o possibili dentro l'area protetta. Certamente, vi sono casi in cui il non-profit non apporta alcun vantaggio competitivo nella promozione e fruizione di un parco. Alcune attività di tutela e di studio non hanno alcun addentellato sociale. Si pensi, poi, a tutta l'informazione attraverso i mass-media (una emittente, molti riceventi, feed-back quasi nullo) o quella più spicciola di sportello. Tutte le volte che lo scambio fra operatore e utente è quasi completamente unidirezionale, di natura strumentale, con debole compresenza fisica la mediazione di un gruppo è superflua, forse dannosa perché frena la velocità di trasmissione delle informazioni. Già però nella comunicazione telematica può tornare ad essere importante il passare attraverso un gruppo. Non sfuggirà a nessuno che vi sono forum o carrefour telematici particolarmente attivi ed altri che si spengono quasi subito. Dietro le reti più attive c' è una idea vincente ma probabilmente anche gruppi promotori compatti. E cosa rende compatti tali gruppi? E difficile immaginare che sia la pura comunicazione via filo o via etere; serve sempre e comunque una comunicazione diretta, una frequentazione reciproca abbastanza assidua. Ad esempio, almeno qualche incontro durante l'anno. Ecco che rispunta il tema del gruppo e quindi di un ruolo per il non-profit. E importante comunque ribadire che vi sono servizi particolarmente adatti al non-profit, altri in cui il loro timbro originale è indifferente, altri ancora dove è meglio evitarli. Il criterio discriminante resta appeso a tre parole: gruppo, radicamento, coinvolgimento (5). Quando serve uno di questi tre processi è auspicabile che il parco mobiliti il mondo del non-profit.

Tornando ora alla questione iniziale, bisogna verificare se la descrizione sin qui eseguita aiuti a chiarire i contorni del rapporto fra organismi non-profit e parchi. Il principale malinteso è sulla scorrettezza della competizione. Prendiamo ad esempio un'associazione ricreativa, una cooperativa di servizi turistico-ambientali e un' impresa privata del settore turistico-alberghiero di fronte alla prospettiva di gestire un servizio di accoglienza per giovani in un parco.

L' associazione sarà in diritto di farlo se sarà primariamente un servizio ai propri soci, un piacere di stare assieme allargato a nuovi venuti. Un servizio siffatto sarà largamente basato sull'autogestione e sul volontariato. Se lo scopo è stare assieme fra soci e nuovi venuti saranno i soci stessi a voler gestire direttamente il servizio. Esso quindi avrà costi bassi. Non per auto sfruttamento ma perché il piacere dello stare assieme e ciò che largamente remunera gestori e partecipanti (6), In questa situazione sarebbe perciò sbagliato fare comparazioni con altre forme di accoglienza e ristoro e quindi parlare di competizione scorretta.

Se invece tale servizio diventa una vera e propria attività economica, senza alcuna compenetrazione fra soci e avventori, allora sarebbe giusta una modifica della forma giuridica verso l'impresa, cooperativa o meno. E noto l'escamotage in molti casi come questo: la consegna della tessera a prezzo simbolico a tutti gli avventori, indipendentemente dal grado di partecipazione effettiva alla vita dell' associazione. In questo caso è difficile una via d'uscita formale: cioè proibire a tutte le associazioni di fare attività di accoglienza e non sarebbe neppure giusto per quelle che lo fanno per una reale ricerca di nuovi soci e di diffusione della propria esperienza di socialità. Sta al buon senso dell'amministratore del parco e al senso di responsabilità dei gestori dell'associazione ricreativa valutare il reale grado di compartecipazione fra soci e avventori. Ogni parametro formale rischierebbe di portare a dei soprusi.

Più semplice è stabilire se vi sia competizione scorretta nel caso di una cooperativa e di una impresa tout court. Già la cooperativa è orientata al mercato; si potrà derogare ai principi della gara di appalto quando essa fornisce garanzie di radicamento territoriale e di diffusività dei propri benefici; ad esempio, a parità di condizioni economiche, sarà in grado di coinvolgere nel lavoro più persone del luogo.

Di una certa frequenza è il conflitto fra associazioni nazionali che propongono attività varie al parco e cooperative locali che sarebbero in grado di gestire le stesse attività (ricerca, monitoraggio, assistenza turistica... ). Il criterio di assegnazione dovrebbe essere sempre lo stesso. Queste attività passano attraverso un gruppo e mirano al coinvolgimento? Questi aspetti 'di aggregazione' sono cruciali per la riuscita delle attività stesse? Se non è così, devono valere le regole della competizione ad armi pari (mercato), cioè con tutti i contendenti che assicurano per i propri lavoratori standard minimi di trattamento (misure antidumping).

In conclusione, pare assodato che esistano dei criteri dirimenti, bisogna affinarli non nel senso di irrigidirli in regole formali ma corroborarli con una ricca casistica. I parchi ormai hanno tutti esperienza in questo campo. Si tratta di raccogliere e comparare le esperienze. Tale lavoro dovrebbe fornire strumenti per ridurre i rischi di abusi di autorità da parte del parco e di furberie da parte di finti organismi non-profit. Inoltre, bisogna approfondire quale sia la reale portata del fare servizi in gruppo. La somma di singoli professionisti non dà certo un gruppo affiatato. Alcuni campi - come l'educazione ambientale - si prospettano ricchi di sviluppi in questo senso.

Il parco "leggero" ovvero una struttura agile che concentra in sé le funzioni direttive e di controllo e decentra quelle più ricche di socialità si coniuga bene con lo sviluppo del mondo del non-profit. L'uno e l'altro devono però fare uno sforzo maggiore nella ricerca della propria e altrui identità. Grazie a questo scambio delle prospettive molti fraintendimenti fra gli operatori dei parchi naturali verranno sicuramente superati.

* Università di Trieste

 

Bibliograila:
BARBETTA G.P. (a cura di) (1996), Senza scopo di lucro. Dimensioni economiche, legislazione e politiche del settore non-profit in Italia, Il Mulino, Bologna.

BORZAGA C., FIORENTINI G. e MATACENA A. (a cura di) (1996), Non-profit e sistemi di welfare. Il contributo dell'analisi economica, Nis, Roma.

CISPEL (1996), Servizi pubblici locali e cooperative sociali, D'Anselmi Editore, Roma.

COLOZZI I. (a cura di) (1997), Terzo settore e sviluppo civile. Verso una "regolazione promozionale", Angeli, Milano.

GODBOUT J.T. (1996), Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino.

MACCARINI A. (1998), La cultura ambientalista: verso una nuova società civile? Angeli, Milano.

OSTI G. (1998), La natura, gli altri, la società. n terzo settore per l'ambiente in Italia, Angeli, Milano.

PADIGLIONE V. (1989), Il ritorno alla sacralità della natura, ovvero al parco, come spazio festivo, in ISPES, Parchi nazionali e aree protette in Italia - Situazioni e prospettive, Roma.

SACCOROTTI R.(a cura di) (1994), La riconquista della città, Wwf Italia, Roma.

STIZ G. (1997), Strategie di cooperazione tra pubblica amministrazione e terzo settore sulle problematiche ambientali, Iref, Milano, 18 marzo, (mimeo).l. Basterebbe citare quante 'leggine' ad hoc sono state varate per dare sostegno a singoli organismi non-profit. Basterebbe prendere la legislazione sulla cooperazione, assai intricata e stratificata.

2. Nella cooperazione storicamente lo scopo era anche quello di permettere ai piccoli produttori di unirsi per non essere schiacciati dal mercato. Vi è anche una cooperazione modellata sugli studi professionali. In questo caso, la struttura cooperativa serve a gestire più efficacemente alcuni servizi comuni ma il lavoro è eminentemente individuale.

3. Amartya Sen, audizione presso la Commissione Affari Sociali della Camera, 14 maggio 1998. Testo integrale riportato nel settimanale Vita dei 30 ottobre 1998.

4. Si potrebbe dimostrare che in un campo come questo non si arriva mai ad una buona parametrizzazione, perché ogni tentativo di contare un fenomeno così raffinato come le relazioni di reciprocità porta inevitabilmente alla arbitrarietà. Serve allora lo stesso criterio che si usa dentro il non-profit ovvero la fiducia fra committente e organismo non-profit.

5. I criteri potranno sembrare restrittivi. In effetti sono di natura esclusivamente sociologica. Un vantaggio del non-profit spesso messo in luce dagli economisti è quando vi sono le cosiddette asimmetrie informative. Quando il cliente non conosce bene il prodotto che gli serve tende ad acquistarlo da un ente non-profit presupponendo che questo - data l'assenza del lucro - sia meno orientato ad approfittare della sua ignoranza. Come si vede in questo caso, ciò che vale è la fiducia nell'assenza in sé di fini di profitto più che il fatto che sia un gruppo a fornire il bene.

6 . Un' ulteriore critica è che questo tipo di attivita toglie posti di lavoro che sarebbero creati se essa avesse una struttura aziendale. Questo è sbagliato perché bisogna supporre che vi sia in chi gestisce e in chi fruisce il desiderio di avere una relazione reciproca non remunerata o non mercificata. Se un "cliente" volesse un servizio di accoglienza turistica completamente monetizzato potrebbe scegliere un qualsiasi albergo. Ovviamente, vi sarà chi camuffa con il desiderio di reciprocità la ricerca di una vacanza a buon mercato. Ciò non è eliminabile come chi si sposa non per amore ma per i soldi del partner. In tal caso, la soluzione non è monettizzare la relazione matrimoniale quanto lavorare a livello psicologico e culturale per chiarire i ruoli e le attese reciproche.