Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 26 - FEBBRAIO 1999
  Notes


L'attività del centro Valerio Giacomini
A tre anni dalla sua istituzione il Centro Studi Valerio Giacomini può trarre un bilancio estremamente positivo del suo lavoro.
Quando partimmo, nel maggio del '96, con il convegno di Gargnano dedicato a 'Uomini e parchi oggi', non era davvero scontato che in così poco tempo saremmo riusciti ad affermare una presenza tanto autorevole in una area tematica che potremmo definire per tanti aspetti "di confine".
Che la Federazione dei Parchi, la Regione Lombardia e la Comunità Montana dell'Alto Garda bresciano, sulla base di un protocollo che fissa finalità e modalità operative del Centro Studi, abbiano saputo sviluppare iniziative in cui le tematiche della protezione si sono di volta in volta intrecciate con il ruolo della ricerca scientifica e le riforme istituzionali e amministrative, dimostra quanto fosse giusta l'idea di far uscire le aree protette dal recinto di una autoreferenzialità che ne annichilisce le potenzialità.
Al primo convegno, dedicato all'opera più nota di Giacomini, sono seguiti il seminario sulle riforme Bassanini e infine i due importanti passaggi di Pavia e Gargnano sulla Carta della Natura. In ognuna di queste occasioni, come si può vedere dagli atti pubblicati con encomiabile sollecitudine, la presenza di autorevoli studiosi italiani e stranieri si è sempre accompagnata a quella non meno significativa di amministratori e tecnici dei parchi e delle istituzioni anche centrali. I lettori della rivista hanno avuto modo di conoscere e apprezzare alcuni contributi particolarmente importanti su tematiche e aspetti di grandissima attualità e rilievo dai quali emerge, tra 1' altro, quanto fosse stata giusta la scelta di 'impegnare' anche il mondo dei parchi in campi e temi da molti considerati erroneamente 'estranei'.
Oggi il Centro Giacomini può guardare ai suoi futuri impegni con la certezza di avere imboccato la strada giusta, tanto che anche in altre realtà del paese, sulla base di questa esperienza, si sta verificando la possibilità di dar vita a strumenti analoghi di ricerca e promozione.
Il programma di attività dell' anno in corso prevede appuntamenti assai importanti a cominciare dal Seminario di Bologna sulla classificazione delle aree protette di cui parla in questo numero Cesare Lasen che svolgerà la relazione introduttiva.
Senza entrare più di tanto nel merito, vale la pena di sottolineare che si tratta di un argomento di grosso spessore scientifico, ricco anche di notevoli implicazioni politico-istituzionali, che finora si è preferito eludere, ma che a nostro giudizio non era più rinviabile. Sappiamo, quindi, di affrontare un tema non facile, che si presta a diverse e sovente contrastanti letture e interpretazioni, ma che proprio per questo doveva essere finalmente affrontato.
Non si può continuare, ad esempio, a istituire parchi senza chiari punti di riferimento come sta accadendo nel caso delle Cinque Terre.
In Italia il sistema delle aree protette ha registrato dopo l'istituzione dei parchi storici, due fasi temporalmente distinte, contrassegnate la prima dalle iniziative delle regioni soprattutto del centro-nord, la seconda ad opera specialmente dello Stato che ha riguardato prevalentemente il centro sud. Con la prima fase sono nati i parchi regionali, con la seconda i nuovi parchi nazionali. Oggi quindi disponiamo di una rete di aree protette che copre l'intero paese con una particolarità, però: molti parchi regionali hanno caratteristiche che si attagliano abbastanza bene a quelle previste dalla legge-quadro per i parchi nazionali e parchi nazionali che potrebbero altrettanto bene essere regionali.
A ciò si aggiunge che specie negli ultimi tempi sono andati nascendo nuovi tipi di parchi, o comunque, di aree protette anche comunitarie che rendono il quadro complessivo piuttosto complicato.
Scopo del seminario è quello di mettere un po' d'ordine in questa situazione assai confusa, individuando anche i modi e gli strumenti attraverso i quali lo Stato e le Regioni possono d'intesa ridisegnare, sotto il profilo della classificazione, il sistema delle aree protette. Non si tratta di riaprire vecchi conflitti che qualcuno considera, a torto, ancora aperti tra parchi nazionali e regionali, ma, al contrario, di prendere atto che una fase si è chiusa ed ora occorre che Stato e Regioni gestiscano direttamente ciò che più corrisponde (in base alla legge-quadro) ai propri ruoli.
Non ha molto senso che i due maggiori vulcani del nostro paese siano gestiti uno da un parco regionale e l' altro da un parco nazionale. Ma se questo è un caso eclatante, anche altre situazioni richiedono ugualmente di essere riconsiderate. Non aprendo nuovi conflitti, ma operando insieme per mettere ordine e rendere perciò più efficace l' azione dello Stato e delle Regioni.
Al seminario sulla classificazione seguiranno, un po' come è avvenuto per la Carta della Natura, una iniziativa al Parco della Maddalena e poi a ottobre il Convegno tradizionale di Gargnano su 'Parchi e economia' . In Sardegna vogliamo verificare il ruolo che le aree protette possono giocare in una realtà 'speciale' quale è quella dell'isola. A Gargnano vogliamo proiettare questa riflessione e verifica sulla scala europea perché anche i parchi oggi debbono guardare alla nuova dimensione politico, istituzionale e economico-sociale sovranazionale.
I patti per lo sviluppo, le cento idee, i tavoli nazionali e regionali, per la concertazione delle politiche nazionali e comunitarie richiedono a tutti ormai una rinnovata capacità di progettazione integrata tra istituzioni e parti sociali. I parchi stanno dentro questa grande e complessa partita. Di questo vogliamo discutere nei nostri prossimi appuntamenti.

Politiche ambientali e società sostenibile
In Italia, a differenza di quanto è accaduto in altri paesi europei, la cultura ambientalista 'si è sostanzialmente organizzata intorno ai paradigmi offerti dalle scienze naturali, con qualche significativo contributo maturato in campo economico, ma con una bassissima attenzione da parte delle scienze sociali'.
Così scrive Marcello Fedele nella presentazione del fascicolo di 'Quademi di sociologia' (n. 16/ 98) dedicato alle 'Politiche ambientali e società sostenibile'. Il fascicolo si apre con un intervento dello stesso Fedele dedicato a 'La politica delle aree protette' a cui segue, tra gli altri, un ampio contributo di Giorgio Osti sui percorsi del movimento ambientalista in Italia che, per più di un aspetto, è riconducibile anche al tema dei parchi. Di Osti la nostra rivista ha avuto modo di pubblicare in passato alcuni interventi, nei quali si dava conto di alcune (rare) ricerche sociologiche sui parchi italiani che avevano il pregio e il merito di portare alla luce taluni aspetti della gestione delle aree protette di norma ignorati e quasi sempre sconosciuti al di fuori di una ristrettissima cerchia di ricercatori impegnati in questa disciplina.
Il fascicolo ci dà quindi l'opportunità e l'occasione per tornare su argomenti da noi stessi trattati pur sporadicamente e lo faremo prendendo le mosse soprattutto dallo scritto di Fedele perché non sono frequenti le riflessioni e le ricerche specifiche non a carattere meramente naturalistico o giuridico sull'argomento.
In apertura l'autore, dopo aver sottolineato il carattere sostanzialmente centralistico della legislazione sulle aree protette (la quale esclude o comunque non offre sufficenti garanzie a tutela della autonomia degli enti locali, oltre che di significative categorie che operano a livello periferico), ed avere denunciato il fatto che anziché creare nuove opportunità di valorizzazione del territorio la legislazione sta dando vita a danni economici giudicati non secondari e ad un moltiplicarsi delle attività repressive, conclude che per la politica di tutela il bilancio non è più favorevole, tanto che ci si trova di fronte a 'una sorta di gestione virtuale'. Un giudizio, come si vede, quanto mai severo e drastico che investe con la legislazione l'operato complessivo delle aree protette. Va detto subito che una valutazione così impietosa avrebbe richiesto delle pezze d'appoggio che nello scritto non abbiamo trovato, almeno in misura sufficiente. Anzi, a dire la verità, colpisce il fatto che i riferimenti bibliografici, le 'fonti' riguardo allo 'specifico' della situazione delle aree protette appaiono scarsi, se si fa eccezione dell'indagine Wwf del '95 la quale però risultava assai poco "rigorosa" e attendibile essendo impostata prevalentemente su valutazioni "politiche", spesso superficiali e tendenziose, circoscritte comunque ai soli parchi nazionali.
Ora sappiamo fin troppo bene, purtroppo, che oggi in Italia manca una verifica costante e sistematica di quel che succede nei parchi a cui avrebbe dovuto almeno in parte provvedere la relazione annuale sullo stato dell'ambiente. Questa esce però quando capita e quasi sempre sulle aree protette si limita a fornire un po' di tabelle e di percentuali, ma nessuna analisi tematica comparativa, ad esempio, sulla spesa.
Ma proprio per questo, data cioè questa grave carenza, sarebbe stato opportuno mettere a frutto quel che c'è di disponibile, a cominciare dalla nostra rivista. Non sembri questa nostra osservazione un presuntuoso e sciocco peccato d'orgoglio, ma io sono rimasto sorpreso di non trovare nella bibliografia del fascicolo alcun riferimento a Parchi, che costituisce per molti versi se non l'unico, il principale strumento di dibattito ed anche di documentazione sui temi delle aree protette (tutte) del nostro paese.
Comunque c'è stata anche una conferenza nazionale sulle aree protette e una indagine della Camera dei deputati che pur non colmando i vuoti appena richiamati, qualche utile materiale potevano fornirlo.
Non sapremmo dire se e quanto questo 'limite' può avere condizionato anche l'analisi di Fedele, la quale fra l'altro non fa mai (se non di sfuggita) alcuna distinzione tra parchi, quasi che sia possibile non tener conto, nel momento in cui si giudica 'virtuale' la loro gestione, delle differenze non soltanto tra parchi, nazionali, regionali e così via, ma anche delle differenze inevitabili e oggettive tra parchi di recente o meno recente istituzione.
Anzi, sarebbe stato interessante poter cogliere, proprio da un punto di vista sociologico, cosa ha significato far decollare negli anni settanta i parchi regionali e cosa significa farli partire oggi in presenza di una nuova legislazione che avrà pure i limiti che le si addebitano, ma rappresenta pur sempre una non trascurabile novità e un fondamentale punto di svolta.
Quando si scrive che "i risultati sinora ottenuti non sembrano particolarmente confortanti neanche sotto il profilo della tutela ambientale perché le aree protette non vengono in effetti istituite e perché, se sono istituite, il più delle volte in realtà non funzionano; e, infine, perché pur non funzionando creano comunque conflitti per la impostazione vincolistica che le contrassegna", si ha il dovere, l'obbligo di documentare un giudizio tanto pesante e generalizzato. Proprio un approccio non ispirato unicamente alle scienze naturali o ad analisi di tipo giuridico, dovrebbe fornire elementi e dati in grado di supportare un'analisi che risulta severissima per le aree protette messe, appunto, senza alcun distinguo e specificazione, tutte nello stesso sacco.
Fedele ha solide ragioni, invece, per dire che il processo decisionale a livello nazionale appare frammentato e ciò lo rende anche più distante e impermeabile per il circuito delle autonomie locali, e che quindi non viene rispettata la sostanziale interconnessione tra gli aspetti ambientali, sociali, economici e gestionali presenti nelle aree protette per cui accade che il loro assetto viene tendenzialmente definito privilegiando solo una o al massimo due dimensioni del problema.
Ma anche quì c'è da chiedersi; è così sempre e dappertutto? E i parchi dove si sono adottati e attuati, in tutto o in parte, i piani risultano davvero così unidimensionali nel loro impegno?
Fedele ritiene che "il sistema nevralgico di governo delle aree protette, che ne garantisce il successo o meno, non è collocato ove maggiori sono le attenzioni del legislatore e cioè al centro del sistema amministrativo, ma in quel segmento del processo locale che al momento appare il più trascurato e cioè al livello dell'ente parco, che ancora oggi viene invece troppo spesso identificato con la pura routine operativa". Anche qui - e ci ripetiamo - è così dappertutto? Si può dire che la routine sia il tratto distintivo e inconfondibile della maggior parte dei nostri parchi?
E vero, e non si può non convenire con l'autore, che le dimensioni ambientali, economiche, sociali ed istituzionali debbono essere prese in considerazione nella loro contestualità "perché la realtà territoriale sulla quale si interviene effettivamente, presenta un tale livello di interconnessioni da rendere arbitraria qualunque ipotesi di un loro esame disgiunto".
Un profilo, questo, che riguarda da vicino anche le riforme amministrative in corso volte a rendere meno separate sia le strutture centrali tra di loro sia queste da quelle decentrate regionali e locali.
Ma perché dare l'impressione che ci troviamo davanti ad una pagina bianca, appunto a mera routine, per cui è tutto da fare se non da rifare?
Ha ragione Fedele a porre l' accento sulla esigenza di assicurare alle aree protette una gestione idonea a integrare, per quanto possibile, le finalità del parco con i processi di sviluppo socio-economici come sta avvenendo in molte realtà europee. E ne ha anche di più quando denuncia gli inghippi istituzionali che fanno cadere e dipendere tutto dall'alto (il famigerato sistema a cascata) i cui effetti negativi non pensiamo, però, stiano tanto nel non aver il centro accolto e preso in considerazione le proposte di istituzione di nuove aree protette da parte di associazioni o di elettori. Non ce la sentiremmo davvero di sostenere che il 'centralismo' ha mortificato la spinta all'istituzione di nuove aree protette sia perché esse possono essere istituite anche da regioni ed enti locali, sia, e soprattutto, perché oggi non è il numero dei parchi che difetta ma la loro gestione sistemica. Anzi, per qualche aspetto, l'istituzione di nuove aree protette non va incoraggiata, se si fa eccezione naturalmente per quelle marine che, dopo quasi 20 anni dalla entrata della prima legge che ne prevedeva un bel numero, sono rimaste spesso sulla carta.
Il centralismo, come correttamente lo intende anche l' autore, ha semmai la pesante responsabilità di non essere finora riuscito a far funzionare il complesso tutt'altro che trascurabile di aree protette, istituito prima e dopo la legge 394 come un 'sistema' incardinato sulla 'leale collaborazione'.

Ed è vero che prevale ancora "l'idea che il futuro delle aree protette dipenda essenzialmente da decisioni un po' complesse assunte a livello ministeriale, tra direzioni generali le cui funzioni e i cui ruoli al momento appaiono poco chiari o, quanto meno, in corso di modificazione". E a ciò si accompagna il fatto che per gli enti territoriali interessati "a volte le aree protette vengono vissute come un ostacolo allo sviluppo locale, altre volte le stesse, invece, servono ad ottenere finanziamenti europei, anche laddove queste sono state istituite, ma non risultano assolutamente funzionanti". Ognuno, poi, le aree protette le vede con occhio diverso; gli ambientalisti mirano alla tutela del patrimonio naturale; gli operatori turistici temono invece le limitazioni alla loro attività.

Manca, insomma, una visione generale della finalità che si accompagna ad una bassissima comunicazione orizzontale tra i diversi settori interessati. Gli organismi di governi delle aree protette, operando secondo criteri burocratici, riducono a loro volta queste opportunità perché non riescono ad agire come una 'squadra' compatta. Manca, in sostanza, una visione comune di quella che Fedele definisce la 'missione' assegnata dalla legge alla politica delle aree protette che vengono, diciamo così, ora strattonate in una direzione ora in un'altra.

Sono rilievi critici che colgono indubbiamente 'limiti' di fondo della attività e della politica dei parchi, come sanno benissimo i nostri lettori e chiunque nelle aree protette vi opera. Ma anche a rischio di ripeterci dobbiamo dire che esse avrebbero acquistato una ben diversa incisività ed efficacia se fossero state accompagnate da una verifica più articolata e puntuale dei processi in corso. Più che nell'interesse per l'area protetta, si osserva giustamente, a livello locale l'empasse sta nella difficoltà che dappertutto si trova ad assicurare una effettiva implementazione.

Bene. Ma in questi anni non è cambiato nulla nella sensibilità, nella consapevolezza e diciamo pure, nella capacità dei livelli locali e dei parchi di misurarsi con questi problemi e difficoltà?
E innegabile come rileva l'autore che nella prospettiva ministeriale le problematiche locali sono secondarie. Una ragione in più, però, per capire cosa è successo e sta succedendo a questo livello così trascurato, anzi spesso assolutamente ignorato dal centro.
In questi anni, ad esempio, sono state condotte numerose indagini e ricerche su cosa è cambiato non soltanto in senso politico, ma nelle provenienze sociali, culturali, etc., nel personale impegnato nelle amministrazioni locali, soprattutto dopo l'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di provincia. Rilevanti sono i cambiamenti avvenuti anche negli organi di gestione delle aree protette nazionali, regionali e anche locali. Non è questo un 'filone', un aspetto fortemente connesso e condizionante l'operato degli enti di gestione che meriterebbe qualche ricerca 'sociologica'?
Anche quei cambiamenti nei 'percorsi del movimento ambientalista in Italia', di cui si occupa nel fascicolo Osti andrebbero verificati anche sotto questo profilo.
In altri termini se è vero, come sembra emergere dall'analisi di Osti, che i gruppi ambientalisti raramente vestono i panni del mediatore o facilitatore della partecipazione ai processi decisionali, preferendo vestire i panni della "controparte" o del 'consulente', cosa significa tutto ciò concretamente in Italia dal momento che le associazioni ambientaliste si sono assunte la responsabilità diretta nella gestione istituzionale dei parchi? Insomma, mentre ci si è orientati verso l'istituzionalizzazione specialmente nei parchi, spesso si continua a 'chiamarsi' fuori nell'assunzione di responsabilità politico-istituzionali.
Quanto e come ciò può avere pesato e pesa nella concreta gestione delle aree protette del nostro Paese?
Cosa ha significato questo, specialmente nel momento in cui nella gestione dei parchi si va affermando, sia pure tra contraddizioni e ritardi che sarebbe stato e sarebbe bene indagare, una nuova leva di amministratori ossia di 'specialisti' nel governo del territorio?
Ben vengano dunque questi studi e ricerche sulle aree protette che forse - è questa la notazione conclusiva che ci sentiamo di fare - potrebbero risultare anche più interessanti e documentate se condotte in più stretta collaborazione con chi opera nel settore.

da "Quaderni di Sociologia"
R. Moschini