Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 27 - GIUGNO 1999
Integrando le pianificazioni: più idee di parco
Riflessioni a margine di un seminario
Maurizio Piazzini
 

Il seminario su "Pianificazione e gestione in un sistema regionale di parchi" svoltosi a Portonovo ai primi di giugno è stato certamente utile per approfondire una serie di temi sui quali il Parco del Conero ha coinvolto, da angolature diverse, i numerosi studiosi di diversa formazione disciplinare impegnati a vario titolo nella redazione dei piani riguardanti l'area del Conero: oltre al Piano del Parco, recentemente approvato, il piano naturalistico, il piano socio-economico, il piano forestale, il piano agricolo; ma, soprattutto, è servito per fare emergere, attraverso un dibattito insolitamente serrato, differenze sostanziali - dal punto di vista dell'approccio concettuale, con tutto quello che ne consegue - che probabilmente sono le stesse che generalmente si mimetizzano dietro formule passe-partout come: sviluppo sostenibile, qualità ambientale, tutela e valorizzazione e via declinando.
Accade, infatti, nei dibattiti sulle aree protette, forse più di quanto avviene altrove, che proprio i termini più caricati di intenzioni denotative, evocati ad ogni e diversa occasione per distinguere le pratiche virtuose, acquisiscano una sorta di flessibilità semantica legata ai diversi e, non di rado, opposti contesti argomentativi nei quali sono utilizzati: in questo modo essi perdono - si potrebbe dire per troppo successo o per abuso - I'originaria funzione denotativa e finiscono per assumere una sorta di ambigua universalità sotto la quale coesistono, nella confusione dei significati, posizioni spesso inconsapevolmente ma radicalmente contrastanti. Alcune, non trascurabili, difficoltà che oggi si incontrano nella pianificazione e gestione dei parchi hanno la loro origine diretta o indiretta nella scarsa consapevolezza riguardo ai sistemi di concetti nettamente differenziati e talora opposti che ci condizionano nell'uso, pure apparentemente omologante, di quei termini. A Portonovo la riflessione intorno ai fondamenti concettuali ha delineato uno sfondo sul quale si è confrontata in modo più o meno esplicito gran parte degli interventi, quasi rispondendo ad una inespressa domanda di chiarezza. Una domanda che il carattere interdisciplinare dell' incontro rendeva quasi ineludibile: infatti, è evidente che la comunicazione tra cultori di diverse discipline, se non è rito accademico o esercizio superficiale, abbisogna di significati non ambigui almeno per i termini di uso comune. Essendo, però, le singole discipline intente a progredire soltanto all'interno dei propri specialismi, la ricerca degli elementi di un linguaggio comune che attraversi gli steccati costituisce una pratica affatto desueta per la quale risultati positivi non sono garantiti da metodi o procedure scientificamente "testati": la chiarezza "interdisciplinare" dei significati - che è anche una chiarezza tendenzialmente erga omnes, disponibile ben oltre i limiti di tutti gli specialismi - non può che scaturire dalla determinazione di mettere a punto, attraverso un confronto ostinato ma anche inevitabilmente accidentato perché "privo di metodo", un'attrezzatura concettuale che non sarà mai interamente identificabile con nessuna di quelle dominanti all'interno dei singoli recinti disciplinari.
Questo esercizio, probabilmente, non rivelerà nulla che già non si conosca (così è stato, in fondo, anche nella giornata di Portonovo) ma, al termine, ognuno avrà l'impressione di conoscere un po' meglio l'armamentario di idee che è abituato ad usare.

Due idee di parco
Sono note le due interpretazioni più ricorrenti dell'idea di parco, nettamente divergenti: da un lato quella più antica di "luogo della natura incontaminata", tipica della tradizione nord-americana ma profondamente ancorata anche all'origine dei parchi italiani, dall'altro il parco come luogo dotato di particolare pregio che, però, non è così diverso dagli altri territori da non poter essere assunto come "laboratorio" dove si sperimentano modi di intervento e di gestione di valore
generale, applicabili anche al di fuori delle aree protette.
Non sono, però, state abbastanza indagate in tutte le loro implicazioni, a mio avviso, le concatenazioni logiche che inevitabilmente collegano ciascuna di queste due posizioni fondamentali con gli atteggiamenti che determinano, ad esempio, I'impostazione di un testo legislativo ovvero il modo di fare il piano di un parco, fino alle scelte più minute che si debbono affrontare nella gestione quotidiana.
Se, per semplificare e tralasciando quelle intermedie, chiamiamo parco-wilderness la prima e parco-laboratorio la seconda di queste due posizioni fondamentali, si può constatare come esse diversamente orientino gli atteggiamenti rispetto a questioni decisive.
Tra queste, prenderemo in esame tre insiemi di questioni, a ciascuno dei quali viene correntemente applicata una coppia di concetti alternativi: le tematiche che hanno a che fare con la valutazione degli interventi antropici, dominate dalla dialettica naturale/artificiale, le questioni che riguardano le relazioni con i territori esterni ai parchi e, in generale, col resto del mondo, contraddistinte dall'alternativa in merito al carattere ordinario/ straordinario dei territori, ed infine le problematiche correlate con la concezione del tempo, imperniate sulla coppia conservazione/trasformazione.

Il parco-wilderness
Sulla valutazione degli interventi antropici e dei fenomeni artificiali i fautori del parco-wilderness hanno atteggiamenti generalmente e, spesso, pregiudizialmente negativi, essendo i valori del "sistema naturalistico-ambientale" gli unici esplicitamente riconosciuti. La presenza, soprattutto in Italia, di territori disseminati senza soluzione di continuità di testimonianze storico-culturali ha costretto a prendere atto, più recentemente, dell'esistenza anche di un "sistema storico-culturale" i cui valori possono essere positivamente affiancati a quelli naturalistici: si è, così, delineato, in qualche caso, un "sistema naturalistico-culturale-ambientale" che, tuttavia, non è del tutto ben accetto ai teorici più ortodossi della naturalità assoluta, a causa del carattere comunque ibrido.
Viene tendenzialmente esclusa ogni proposta di intervento umano nei parchi; infatti, dovendo ancora essere attuata, non potrebbe, per definizione, beneficiare dello speciale bonus accordato sia pur con difficoltà agli eventi di interesse storico-culturale, mentre, per contro, è dato per inevitabile l'effetto di disturbo (nel migliore dei casi) al libero, autonomo dispiegarsi delle potenzialità naturali.
Un parco, secondo questa impostazione, è sempre una riserva integrale, per giunta vietata agli eventuali visitatori, la cui presenza potrebbe rivelarsi pericolosa per le finalità del parco: tra le conseguenze un po' paradossali dell'applicazione rigorosa di queste premesse vi è che il parco, totalmente riservato alla natura, sarebbe un parco senza fruitori.
Se, dunque, I'esclusione degli interventi antropici porta, coerentemente, all'esclusione degli uomini, c'è da chiedersi per chi fare i parchi: non è il solo caso in cui un certo radicalismo ambientalista conduce ad esiti opposti rispetto a quelli che dichiara di voler perseguire.
Altra conseguenza macroscopica dell' applicazione coerente di questo atteggiamento è che non si sa bene che cosa fare dei territori fortemente antropizzati, nei quali, non essendo realisticamente ipotizzabile un ripristino di condizioni naturali assolute (peraltro ben difficili da individuare) semplicemente non si dovrebbero fare i parchi. In Italia, per non andare altrove, non si dovrebbe fare neppure un parco.
Su quest'ultimo aspetto in Italia è invalsa nei fatti una versione un po' annacquata della dottrina del parco-wilderness che ha portato a localizzare il maggior numero di parchi, non esistendo territori non antropizzati, nei territori in cui l'antropizzazione stava attraversando una fase di debolezza connessa con un parziale abbandono.
Il Parco del Conero, come è noto, costituisce una plateale eccezione a questa tendenza, insistendo su un territorio densamente urbanizzato, stretto fra le aree più fortemente urbanizzate ed industrializzate della regione: non è un caso che nel dibattito di Portonovo la difficoltà di ipotizzare impossibili restauri di scenari-wilderness sia più volte rimbalzata come indiretta prova dell'inutilizzabilità degli schemi del parco-wilderness nell'affrontare le problematiche del Parco del Conero.
C'è, qui, un terreno di confine con l'altro insie-
me di questioni, quello riguardante il rapporto dei parchi con gli altri territori, ed il Parco del Conero è, a suo modo, un caso significativo anche sotto questo aspetto. Infatti, I'area del Conero, pur dotata di rilevanti risorse naturalistiche e paesistico ambientali, non si contrappone al territorio molto antropizzato che la circonda (che, peraltro, è tutt'altro che privo di pregi nonostante le disordinate trasformazioni recenti) ma è in rapporto di sostanziale continuità con esso.
Al contrario, la teoria del parco-wilderness postula come inevitabile la separazione ed anche la contrapposizione tra il parco e gli altri territori, a cominciare da quelli circostanti: il predominio della natura incontaminata deve essere preservato, "protetto" dai contatti con le realtà circostanti dove si esercitano le pericolose attività umane. Il parco non solo non comunica con l'intomo ma necessita di chiusure, recinzioni, separazioni che lo difendano da quanto lo circonda. I1 parco è un territorio "altro" rispetto alla realtà territoriale complessiva, una specie di isola circondata da un oceano ostile.
Di qui la sua condizione "straordinaria" rispetto all'ordinarietà degli altri territori; una straordinarietà che si ripercuote sul carattere di eccezionalità e sulla non esportabilità dei modelli d'intervento.
L'idea del parco-wilderness appare, dunque, concatenata con la visione "insulare" dei parchi ed anche con l'affermazione del carattere eccezionale delle politiche che vi si attuano; pertanto, i piani dei parchi, proseguendo nella concatenazione, non solo non sono tenuti ad intrattenere rapporti con gli altri piani territoriali di qualunque natura, ma, essendo interpreti di un'istanza di eccezionalità (che si traduce in priorità, preminenza degli obiettivi e delle motivazioni) semplicemente li abrogano all'interno dei recinti dei parchi, ovvero, come si esprime la legge 394/91, li "sostituiscono".
I1 terreno sul quale la teoria del parco-wilderness ha prodotto le maggiori polemiche è, però, quello delle questioni connesse con la concezione del tempo, attinenti all' alternativa conservazione/trasformazione.
Se l'unico attore legittimato è la natura, le sole trasformazioni ammissibili non possono che essere quelle dovute ai processi naturali in assenza di interventi antropici. Di norma, tuttavia, viene adottata una visione molto statica e semplificata dell'evoluzione naturale, da cui le trasformazioni sono quasi espunte e, comunque, ridotte a fenomeni inessenziali.
Anche le trasformazioni antropiche sono cancellate: escluse quelle attualmente possibili perché sempre pericolose, quelle compiute nel passato sono eternate ed irrigidite nella forma fissata una volta per tutte dalla tradizione storico-culturale. Per i cultori del parco-wilderness la natura è, sì, protagonista assoluta nei parchi ma è anche piuttosto immobile nel tempo, mentre le modificazioni di origine antropica sono plausibili soltanto nella prospettiva storica ed immutabili per definizione.
Nell'alternativa tra trasformazione e conservazione la prima viene semplicemente abrogata ma la seconda assume un aspetto inquietante: gli scenari wilderness non sono scenari evolutivi, sembrano definiti una volta per tutte ed il compito dei parchi è, soprattutto, di conservarli o, se scomparsi, di ripristinarli; così il tempo viene annullato. Compito dei piani dei parchi è ridisegnare questi scenari senza tempo.
Ma in un territorio dove 1' opera dell'uomo ha reso del tutto problematico il riconoscimento di uno "stato di natura" originario e dove la storia ha continuamente modificato i paesaggi, quali scenari riproporre e quali criteri darsi per individuarli? E poi, come renderne credibile il recupero attraverso azioni concretamente ed economicamente sostenibili? A Portonovo si è constatato che domande come queste, se si resta nell'ambito della concezione del parco-wilderness, sono destinate a restare senza risposta.

Il parco-laboratorio
L'altra posizione fondamentale di fronte al problema dei parchi, quella del parco-laboratorio, si è venuta formando soprattutto nell'ultimo decennio nel vivo delle polemiche che hanno accompagnato la costituzione dei numerosi nuovi parchi e nel mentre si avviavano le prime concrete esperienze di pianificazione di aree protette, in coincidenza con la stagione segnata dalla forte ripresa della pianificazione di area vasta; purtroppo, non era ancora sufficientemente consolidata tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90 quando avrebbe potuto influire sulla definizione della legge-quadro nazionale e, subito dopo, su quelle regionali, che, invece, sono state fortemente condizionate dalla concezione del parcowilderness, con tutte le difficoltà conseguenti che oggi siamo costretti a constatare.
Nella visione del parco-laboratorio viene superata la pregiudiziale negativa nei confronti dei fenomeni artificiali, che era controbilanciata dalla valutazione acriticamente positiva di ogni fenomeno naturale, e viene introdotto un metodo meno manicheo di valutazione, più attento alla complessità dei fattori in gioco.
Un contributo decisivo, in questo senso, è stato portato dal concetto di biodiversità, che progressivamente si è andato affermando, anche a livello europeo, in tutto lo spettro delle politiche ambientali, ed ha gradualmente sostituito un mal definito ed incerto "grado di naturalità" come criterio di riferimento per la valutazione degli interventi.
Un aspetto peculiare della dinamica della biodiversità, è stato scientificamente provato, consiste nell'indifferenza, in termini generali, rispetto alla dialettica naturale/artificiale così come viene concepita dai fautori del parco-wilderness: interventi antropici possono accrescere il grado di biodiversità in un luogo così come un'evoluzione naturale spontanea può farlo diminuire e lo stesso tipo di intervento in contesti diversi può produrre esiti opposti.
Ne consegue che in ogni situazione debbono essere specificamente ed attentamente studiati i comportamenti da seguire e che rispetto al fine di salvaguardare ed accrescere la biodiversità sono sostanzialmente irrilevanti le distinzioni tradizionali tra naturale ed artificiale.
Nella giornata di Portonovo, l'immagine di un esemplare di una specie floristica molto rara prima inesistente in zona, nata inaspettatamente nell'acquitrino di una costruzione interrotta all'interno del parco, ha mostrato icasticamente come la forza delle possibili ed a volte imprevedibili interazioni fra fattori naturali ed artificiali possa smentire e sbeffeggiare la moltitudine di luoghi comuni che ancora gravano su queste tematiche. Il superamento dell'antinomia naturale/artificiale nella prospettiva del parco-laboratorio consente un rapporto molto più sinergico ed equilibrato con le testimonianze storiche (che secondo i seguaci del parco-wilderness abbiamo visto essere una sorta di appendice tollerata delle risorse naturalistiche) ma, soprattutto, è i presupposto per fondare un atteggiamento progettuale nei confronti delle trasformazioni possibili, dal momento che all'intervento antropico vengono finalmente riconosciute potenzialità positive anche nei confronti degli equilibri "naturali".
Il piano del parco, da strumento di registrazione statica e un po' notarile degli scenari naturali, quale è delineato nella legge 394/91, dovrà divenire, in questa nuova prospettiva, il contenitore dei progetti di una trasformazione finalizzata alla crescita della biodiversità ed alla riqualificazione del paesaggio.
Qui siamo entrati inavvertitamente nell'altro insieme di questioni, quello che investe la dialettica tra trasformazione e conservazione; anche in questo caso, come in precedenza tra naturale ed artificiale, e come sarà poi per il rapporto ordinarietà/straordinarietà dei luoghi, la nuova prospettiva rivela che la soluzione più ragionevole sta nel superamento delle supposte antinomie.
La disciplina della pianificazione fuori dai parchi ha da tempo scoperto che non è possibile nessuna forma realistica di conservazione che non accetti anche un'ottica di sostanziale trasformazione, così come tutte le trasformazioni, quanto più incidono in profondità, tanto più hanno necessità di conservare, al di là delle apparenze, aspetti non secondari della realtà precedente. Si tratta di adeguare i nostri strumenti, anche concettuali, alla complessità dei fenomeni, che quasi mai si lascia inquadrare negli schemi di cui ci serviamo (ad esempio le coppie antinomiche).
I territori sono sistemi quanto mai complessi, in perpetua evoluzione: volerli irrigidire con azioni astrattamente conservative è velleitario e rischia di produrre effetti opposti a quelli perseguiti; tanto vale porsi nella prospettiva di una trasformazione guidata, o, se si vuole, di una "trasformazione conservativa", che assecondi il movimento delle cose (facendo leva su di esse così come sono attualmente) cercando di indirizzarlo verso gli esiti prescelti (ad esempio, la crescita della biodiversità).
In questo atteggiamento sta probabilmente anche la soluzione dell'annoso problema, ritualmente evocato in tutti i convegni e nelle relazioni dei piani, di coniugare "tutela e valorizzazione", dove la "e" anziché una congiunzione è stata, finora,
la presa d' atto di una disgiunzione; nella prospettiva della "trasformazione conservativa", invece, non vi sono congiunzioni, mentre sostantivo ed aggettivo sono tra loro intercambiabili (conservazione trasformativa).
Queste ultime considerazioni sono applicabili alla realtà dei parchi ma sono maturate nel contesto della pianificazione di area vasta. Infatti, adottando la prospettiva del parco-laboratorio, il piano del parco comincia ad essere meno diverso rispetto agli altri piani territoriali e si aprono le possibilità di interazioni positive che attualmente sono ostacolate dalla rigida normativa della 1. 394/91 e derivate: la copianificazione può coinvolgere finalmente anche il piano del parco.
Questo modo di guardare al parco permette, dunque, di cogliere gli elementi di continuità e di similitudine tra il territorio del parco e gli altri territori: per questa via si scopre che gli interscambi tra il parco e l'esterno non solo non sono da demonizzare e non solo giovano alle aree esterne, ma possono aiutare il parco nella soluzione dei suoi problemi e possono perfino indurre effetti benefici anche al suo interno.
I1 territorio del parco perde un po' della sua straordinarietà e la comunica ai territori ordinari, con reciproco vantaggio.
Diviene credibile, letteralmente, la prospettiva del parco-laboratorio accennata all'inizio di questo scritto: il parco viene utilizzato a vantaggio anche degli altri territori, come terreno di sperimentazione per pratiche virtuose di pianificazione e gestione, che usufruiscono, certamente, di condizioni più favorevoli per quanto riguarda i mezzi di intervento, ma che affrontano problematiche condivise, almeno qualitativamente, anche agli altri territori. Ne deriva un compito per i parchi di indicazione e di proposta di carattere più generale.
Sono così abolite, almeno concettualmente, le recinzioni e l'isola-parco comincia a comunicare con il continente.

* Architetto, progettista del Piano del Parco del Conero