Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 27 - GIUGNO 1999
Notes
Molte sfide per il Sud
Giuseppe Riggio
 

Non sono infinite, ma certamente numerose le strade che portano allo sviluppo sostenibile. Per il Mezzogiorno d'Italia, e per i parchi che vi sono stati istituiti, il turismo ecocompatibile e l'agricoltura sono indubbiamente le vie da percorrere in via prioritaria per dare uno sbocco occupazionale alle popolazioni locali; ma per far questo occorre lanciare una nuova sfida: destinare un terzo degli immobili esistenti all'interno dei terreni di proprietà demaniale ad attività economiche non assistite.
Dopo la sfida storica dell'ambientalismo italiano (l'ormai famosa meta del 10% per cento di territorio nazionale protetto) è il momento di provare a mettere veramente al servizio della collettività l'enorme patrimonio di proprietà pubblica presente nelle regioni meridionali, con l'obiettivo di creare una rete di piccole strutture ricettive montane da offrire sul mercato internazionale per soddisfare la crescente richiesta di soggiorni e attività nella natura. Contemporaneamente occorre qualificare ed organizzare il mondo degli operatori agrituristici che nel Mezzogiorno sta dimostrando una crescente vitalità. Ma vediamo di affrontare separatamente le due questioni, in riferimento alla specifica situazione siciliana, anche se nella realtà esse hanno numerosi punti di contatto.

La riconversione dei beni di proprietà pubblica
Come la "manomorta" di origine medievale, così la proprietà pubblica di numerosissimi edifici e fabbricati di vario genere presenti nei demani è diventata in Sicilia sinonimo di uso improduttivo delle risorse. Patrimoni ingentissimi vengono lasciati decadere sino alla completa distruzione oppure vengono utilizzati per fantomatici o comunque sporadici "motivi di servizio". In realtà nessuno conosce esattamente la consistenza degli immobili di proprietà pubblica presenti all'interno dei terreni demaniali. Ciò in dipendenza della svariata titolarità dei beni stessi: la Regione Sicilia in primo luogo (direttamente o tramite l'Azienda foreste demaniali), ma anche le province, i comuni e svariati enti pubblici hanno la disponibilità di beni immobili. Pur non esistendo censimenti attendibili estesi all'intero territorio regionale è possibile comunque fornire dei dati, scaturenti dalla conoscenza diretta di alcune parti dell' isola, che danno una idea sufficientemente esauriente del fenomeno più generale. Basta citare il dato del Parco delI'Etna dove su circa 29 mila ettari di terreni demaniali insistono almeno una trentina di immobili di proprietà pubblica (Azienda foreste demaniali soprattutto, Provincia regionale di Catania ed ente parco in misura minoritaria) che attualmente sono o destinati in via esclusiva al servizio delle attività istituzionali (ricovero di attrezzi, luogo di riparo e ristoro per gli operai forestali ecc.) oppure vengono utilizzati - gratuitamente, ma senza alcuna forma di gestione - per il bivacco degli escursionisti. Con il risultato che la domanda crescente di escursioni e pernottamenti all'interno dell'area protetta, trovando come unico e inadeguato sbocco il bivacco all'interno di questi rifugi forestali, non attiva nessuna ricaduta economica a favore delle popolazioni locali. Il contrasto non potrebbe essere più stridente: nella regione della disoccupazione a due cifre il turista che richiede un servizio di pernottamento e ristoro (ad esempio perché interessato alla sempre più diffusa pratica del trekking a piedi) in moltissime aree del parco non potrà essere soddisfatto. E quasi superfluo ricordare che nelle stesse aree in cui insistono gli edifici di proprietà pubblica, la normativa istitutiva del Parco dell'Etna non consente - giustamente - l'edificazione di nuove costruzioni e pertanto anche qualora esistesse una imprenditoria privata pronta ad investire su strutture ricettive da realizzare ex novo ciò non sarebbe legalmente consentito. Va peraltro sottolineato che la "sfida del 33%" (un terzo degli immobili di proprietà pubblica da riconvertire ad attività economiche produttive) non troverebbe, nemmeno all'interno di un'area protetta come il Parco dell'Etna, ostacoli di natura legislativa in quanto il decreto del Presidente della Regione che istituiva, nel 1987, il Parco conteneva già delle specifiche disposizioni (punto 6 della parte terza degli allegati) inserite proprio al fine di consentire la ristrutturazione (ed in qualche caso l'ampliamento) degli edifici di proprietà pubblica, sia in zona di riserva integrale ("A") che di riserva generale ("B"). Similmente il regolamento del Parco dei Nebrodi (all'art. Il) elenca ben 34 immobili su cui è possibile effettuare interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, ma anche di restauro e risanamento conservativo "a prescindere dalla zona in cui ricadono", in deroga pertanto alle limitazioni esistenti per gli edifici ricadenti nelle zone di massima protezione.
A ulteriore dimostrazione che il caso etneo non costituisce una eccezione ma la regola si possono citare gli edifici di proprietà forestale disseminati sulle Madonìe, dove invero esiste già una buona ricettività articolata su una quarantina di strutture appartenenti a tutte le tipologie - dall'albergo tre stelle sino al rifugio alpino, passando per un buon numero di aziende agrituristiche - senza ricomprendere in questo computo Cefalù che pure è comune del parco ma che ha evidentemente una valenza ed un richiamo suo proprio.
Per suffragare le dimensioni e di conseguenza le opportunità scaturenti dalla "sfida del 33%" è opportuno ancora ricordare le bellissime costruzioni rurali restaurate (spesso con grande cura e con dispendio di mezzi economici) dall'Azienda foreste demaniali sui monti Iblei in provincia di Ragusa, così come gli immobili presenti sull'intera catena dei Peloritani (in provincia di Messina), sovente contornati da aree attrezzate (posti di cottura, fontanili, tavolini ecc.) realizzate con cura dagli operai forestali. A tal proposito va dato atto all'Azienda foreste demaniali della Regione Siciliana di avere usualmente condotto i lavori di realizzazione o di restauro delle strutture di cui trattasi con grande rispetto per le tipologie architettoniche e le tecniche costruttive tradizionali, ma questo non è evidentemente sufficiente a giustificare l'esistenza o addirittura l'accrescimento (come sta ancora avvenendo) di un patrimonio che per la collettività costituisce uno spropositato immobilizzo improduttivo. Giusto al fine di evitare accuse di eresia, è opportuno ricordare che non vi è nessun nesso fra la tutela e la disponibilità pubblica dei beni ambientali (per i quali l'immissione nel demanio regionale può in qualche caso costituire l'unica garanzia di definitiva tutela) e la presenza al loro interno di un consistente numero di edifici utilizzati solo in via saltuaria, per i quali sono fra l'altro richiesti una continua opera di menutenzione ed un costante utilizzo di risorse pubbliche. E giunto insomma il momento di chiedersi se sia necessario o utile mantenere a carico della collettività un così cospicuo patrimonio a fronte di un marginale e inefficiente servizio pubblico (pernottamenti di sparuti gruppi di turisti in condizioni assolutamente spartane, qualche struttura di supporto per gli escursionisti domenicali che godono delle aree boscate). Tutto questo quando i vincoli di bilancio e la necessità di dare un futuro a intere generazioni di giovani meridionali impongono di riconsiderare l'intera questione. Dalla "sfida del 33%" possono invece nascere significative opportunità per il turismo meridionale. Riconvertire a rifugi montani e ostelli un terzo delle strutture esistenti all'interno dei terreni di proprietà demaniale significherebbe attivare centinaia di posti di lavoro (in molti casi con limitati investimenti finanziari), ma soprattutto genererebbe un consistente indotto anche nei centri abitati limitrofi e farebbe crescere quella cultura dell'accoglienza che costituisce il grande vantaggio competitivo delle regioni a vocazione turistica.
Naturalmente, data la delicatezza degli ambienti interessati e per offrire una ulteriore agevolazione ai futuri imprenditori andrebbe utilizzato lo strumento della concessione (ponendo a carico dei gestori - a fronte di un canone simbolico - le spese di ristrutturazione e adattamento dei locali) e non quello della vendita pura e semplice dei beni pubblici. Il provvedimento di concessione fornirebbe inoltre gli strumenti giuridici per assicurare un livello minimo di servizio pubblico (come avviene generalmente per i rifugi alpini) ma anche per evitare che i beni ceduti in concessione finiscano per restare lungamente inutilizzati, a causa di manifeste incapacità imprenditoriali. D'altra parte andrebbe garantito ai futuri gestori dei beni sottratti alla "manomorta" che la stessa burocrazia che oggi fatica a immaginare un qualsiasi ritorno economico dalla gestione dei beni pubblici non si trasformi nell'occhiuto gendarme voglioso solo di riprendersi il bene sottratto alla sua sacra sfera di competenza. E vero che oggi tanti funzionari dell'amministrazione regionale sono convinti che il ruolo della regione (in materia di gestione dei beni demaniali) non può più essere solo quello di assicurare la pace sociale nelle zone interne e svantaggiate tramite le assunzioni operate dagli Ispettorati forestali. Ma è altrettanto reale il pericolo che le migliori intenzioni si infrangano contro il muro di gomma costituito da quella parte dell'apparato amministrativo pronta a respingere qualsiasi iniziativa percepita come minaccia per il proprio ruolo istituzionale.

Nuove frontiere per l'agriturismo
Del resto, e qui la "sfida del 33%" si collega alla questione agriturismo, l'obiettivo di riformare la gestione del demanio forestale se l'era dato lo stesso governo regionale nel lontano settembre del 1995, varando il primo programma agrituristico annuale (approvato con d.P.R. del 12 ottobre 1995) in cui c'era scritto (capoverso 4.1.3): "La regione deve favorire lo sviluppo delle attività agrituristiche avviate presso aziende di rivitalizzazione rurale e/ o ambientale costituite all'interno del demanio forestale e di altre terre pubbliche. In queste aree si ritiene che possano essere organizzati e creati dei posti di ristoro e/o di soggiorno, anche plurigiornaliero, strutturati in modo diverso secondo le finalità a cui intendono fare fronte". Un testo certamente coraggioso, considerato che non soltanto immagina l'apertura delle terre pubbliche alle attività ricettive, ma dà per scontato che occorre far tornare l'agricoltura dove non c'è più da decenni (dopo la cessione delle proprietà private al demanio) attraverso una azione definita di "rivitalizzazione rurale". Quasi una rivoluzione copernicana se dietro quelle righe sopra citate ci fosse stata una convinta volontà politica e sempre che quella enunciazione non nascondesse la volontà di scrivere un nuovo capitolo della fallimentare storia sulla regione-imprenditrice (ovvero aziende pubbliche agrituristiche da avviare all'interno del demanio). Dal 1995 poco o nulla è stato comunque fatto per "rivitalizzare" le aree demaniali. Probabilmente quell'indicazione controfirmata dalla Giunta regionale del tempo era ancora prematura. Ma oggi essa va ripresa con forza proprio dagli enti parco regionali, che in quanto rappresentanti una novità istituzionale e in quanto soggetti liberi dalla gestione di ingombranti patrimoni immobiliari possono fare un salto di qualità e proporre nelle sedi competenti di sperimentare nuovi criteri di gestione per il demanio pubblico. Altrimenti assisteremo ancora una volta alla divaricazione (anche in Sicilia, anche dove storicamente l'iniziativa privata è afflitta da antica debolezza) fra il cammino dell'amministrazione pubblica (tuttora diffusamente autoreferente) e le esigenze della collettività. A tal proposito lo sviluppo che sta facendo registrare l'agriturismo in Sicilia costituisce un esempio significativo: benché la Regione Sicilia sia arrivata con grave ritardo a legiferare in materia (l.r. 9 giugno 1994, n. 25) le aziende agricole che hanno avviato le nuove attività integrative erano 64 alla fine del 1996, sono diventate 153 a febbraio del 1999, mentre altre 200 aziende hanno già ottenuto il nulla osta degli Ispettorati per l'agricoltura (come riferisce Silvana Balletta, dir. coordinatore dell'Assessorato reg. Agricoltura e foreste sul periodico La freccia verde) e sarebbero solo in attesa dell'autorizzazione comunale. Certamente la Sicilia in materia di agriturismo non è ancora all'altezza delle regioni che hanno fatto scuola in Italia (Toscana e Trentino-Alto Adige soprattutto), ma dimostra la ricchezza di risorse e di inventiva che esiste ancora nel Mezzogiomo. Non è difficile immaginare quale tipo di arricchimento potrebbe avere l'offerta turistica in Sicilia (nel segmento legato alla fruizione delle risorse ambientali e culturali) se accanto ad una convinta azione di sostegno alle iniziative dei privati nel settore agrituristico (soprattutto in termini di semplificazione amministrativa) si giungesse anche alla riconversione di una parte degli immobili esistenti all'interno del demanio a fini ricettivi. Tutto ciò con modestissimi oneri a carico del bilancio regionale ed anzi con la possibilità di indirizzare verso i posti di lavoro che si verrebbero a creare una pur piccola parte dei giovani che attualmente trovano uno sbocco stagionale nelle assunzioni operate dagli ispettorati forestali. Tre azioni di importanza fondamentale resterebbero all'amministrazione pubblica: controllare che le nuove attività economiche si svolgano entro i limiti della eco compatibilità; pubblicizzare sui mercati internazionali in cui nasce la domanda turistica l'esistenza, in Sicilia, di questo nuovo segmento di offerta (ciò in quanto l'insieme di piccoli e piccolissimi operatori turistici che si verrebbe a creare non avrebbe certamente la forza economica per allestire le necessarie campagne informative); assicurare la formazione professionale dei neo-imprenditori. La "mano-pubblica" ritroverebbe così un suo ruolo (benché ridimensionato) e una sua ragion d'essere, ma solo dopo aver debellato l'anacronistica "manomorta".