Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 28 - OTTOBRE 1999
 

Notes
Riflessioni sul codice delle aree protette
Carlo Alberto Graziani *
 



Il "Codice delle aree protette" rappresenta non solo uno strumento utilissimo, ma anche qualche cosa di più perché ci offre un forte stimolo sia dal punto di vista della riflessione teorica sia dal punto di vista della gestione concreta, quotidiana, delle aree protette.
A partire da questa considerazione, intendo svolgere due ordini di riflessione che il "Codice" mi spira.

 

1. I1 primo ordine di riflessione riguarda le aree protette come sistema. Tra gli addetti ai lavori si parla molto di sistema italiano delle aree protette e si comincia anche a parlare di sistema europeo, quanto meno nell'ambito dell'Unione Europea.
Si può parlare di sistema anche dal punto di vista giuridico; ne è prova in un certo senso la stessa pubblicazione del "Codice" che, grazie al lavoro dei redattori, presenta un corpus normativo sufficientemente compiuto.
Del sistema delle aree protette il "Codice" ci disvela innanzitutto l'intreccio delle fonti. Da questo punto di vista esso si pone alla confluenza di due filoni.
Un primo filone, interno, è quello che si conclude con la legge quadro del 1991 (legge 394): esso chiude una fase particolarmente travagliata e ne apre una nuova (all'interno della quale va vista la legge 426 del 1998). La legge quadro ha avviato il processo istitutivo di nuove aree protette - che si è svolto e continua a svolgersi con una rapidità superiore a ogni previsione - e ha innescato inediti e complessi meccanismi di gestione grazie ai quali oggi possiamo parlare del sistema in termini non solamente formali. Per questo mi sento di correggere l'analisi pessimistica che in uno dei commenti contenuti nel "Codice" viene data della legge quadro: in realtà si tratta di una legge che ha dato i suoi frutti, anzi i suoi fecondi frutti.
L'altro filone, sfuggito ai protagonisti del dibattito che aveva portato all'emanazione della legge quadro e ancora oggi largamente assente nella riflessione degli operatori, è quello legato alle fonti internazionali e alle fonti comunitarie. Il "Codice" ha il merito di dare un ordine ad esse richiamando con ciò stesso l'attenzione sul loro ruolo gerarchicamente sovraordinato e sui conseguenti problemi di coordinamento, anche dal punto di vista della gestione delle aree protette, che esigono di essere seriamente affrontati.
I due filoni, così contestualizzati, ci offrono una base assai utile per disegnare il sistema delle aree protette.
A tal fine, però, occorre affrontare il problema della individuazione dei principi generali del sistema. Alla luce di una riflessione teorica inevitabilmente appena delineata e di una stimolante esperienza gestionale, mi permetto di individuarne alcuni su cui comunque occorrono riflessioni ben più approfondite.

I1 primo principio è quello dell'unitarietà. L'elemento dell'unitarietà è legato al concetto stesso di area protetta, e in particolare di parco, così come viene accolto dal nostro ordinamento. Dal quale si evince (e in alcuni commenti contenuti nel "Codice" è detto in modo molto chiaro) che la tipologia introdotta, pur dando vita a differenti regimi giuridici, non corrisponde a diversità di carattere ontologico.

E vero che l'ordinamento parla di interessi internazionali, nazionali, regionali e locali. Ma l'interesse è elemento che resta esterno alla natura del bene (area protetta) ed è legato al contingente. Se esaminiamo in maniera approfondita la normativa possiamo renderci conto che essa non introduce alcuna diversità circa la natura del bene, ma si limita a fare riferimento alla diversità degli interessi: è questa diversità che porta ora la legge nazionale a istituire le aree protette nazionali (parchi nazionali o riserve statali), ora la legge regionale a istituire le aree protette regionali (parchi regionali o riserve regionali), ora la normativa internazionale e comunitaria - ma su questo punto il problema diventa più complesso - a istituire aree protette diverse, diciamo non tradizionali.

Dunque, almeno nel nostro sistema, queste aree non si diversificano a seconda della diversa natura del bene, cioè del diverso valore intrinseco delle risorse in esse contenuto.
Tutto ciò dà una forte unitarietà al sistema: così quando noi parliamo del sistema delle aree protette, non possiamo non parlare delle aree protette nazionali e insieme delle aree protette regionali nonché delle aree protette di diritto internazionale e soprattutto di diritto comunitario.
Sul fronte di queste ultime, che ho qualificate non tradizionali e per lo più sconosciute anche tra gli addetti ai lavori, si affacciano, e diventano ormai ius interno, altre tipologie: penso in particolare alle zone speciali di conservazione legate ai siti di interesse comunitario, di cui alla dir. 92/43 CEE, e alle zone di protezione speciale di cui alla dir. 79/409 CEE, relativa alla conservazione degli uccelli selvatici.
Occorre a questo proposito uno sforzo di riflessione e di approfondimento sia dal punto di vista tecnico-giuridico sia (se così possiamo dire) dal punto di vista tecnico-politico, perché altrimenti si rischia di creare delle diversificazioni pericolose e forse anche delle rotture nel sistema. E significativo che il fronte regionale, nel momento in cui si è reso conto che i siti di intersse comunitario potevano creare nuovi problemi di gestione, abbia cominciato a manifestare le sue perplesslta.

Lo sforzo da fare, a livello di sistema, è quello di confrontare con le nuove aree protette quelle tradizionali, che comunque possiedono una forte carica di innovatività come la prassi gestionale sta dimostrando, sui problemi concreti e in particolare su quelli della gestione.
Un altro principio generale del sistema è quello della sostenibilità.
Preliminarmente occorre risolvere il problema del conflitto tra esigenze diverse: ci si chiede normalmente quali esigenze debbano prevalere, quelle di tutela ambientale oppure quelle dello sviluppo, e di fatto ci si risponde che la soluzione va vista caso per caso, nel segno di un equilibrato e sano compromesso.
Un tentativo di soluzione interessante, ma non convincente, è quello che fa leva sui concetti di diversità, sostenibilità e compatibilità e che introduce per le aree protette il concetto di tutela rafforzata (una sostenibilità rafforzata, come dice Giuliano Salberini in uno dei commenti contenuti nel "Codice"). Sono convinto che il problema della sostenibilità ci pone di fronte a una questione che va risolta non nel segno della supremazia di un'esigenza rispetto a un'altra e neanche del compromesso, ma nel senso della ricerca di una sintesi a più alto livello. Dove la tutela, la più rigorosa possibile, è intrinsecamente compatibile, altrimenti non potrebbe essere rigorosa, con un alto livello di sviluppo sostenibile (che non è solo economico, ma è anche e prima di tutto sociale, civile, culturale).

Questa del resto è l'esperienza che facciamo nella gestione dei parchi, dove su ogni problema è possibile trovare, se vogliamo affrontarlo in termini nuovi e nello stesso tempo concreti, un livello di sintesi più alto all'insegna non del compromesso, ma della soddisfazione più autentica delle vere esigenze in questione.
Un altro principio generale è legato al nodo delle competenze istituzionali e dei rapporti interistituzionali: potremmo chiamarlo principio dell'interistituzionalità o del coinvolgimento interistituzionale e che si oppone al principio delle competenze ripartite.
Come è noto, durante la lunghissima discussione parlamentare che ha preceduto l'avvento della legge 394 era esploso lo scontro tra c.d. centralisti e c.d. regionalisti: in un'ottica regionalistica si configurava il rischio, qualora si fosse accolto il modello Parco nazionale, della violazione dei principi costituzionali; di tanto in tanto, in maniera quali serpeggiante, questo rischio viene ancora adombrato.
L' esperienza dei parchi nazionali dimostra che gli strumenti di gestione, così come previsti dalla legge 394, non sono tali da ridurre le competenze costituzionalmente attribuite in capo agli enti preesistenti (enti locali, regioni). Tutt'altro.
E illuminante la vicenda dei piani: se è vero che la legge afferma, con riferimento ai parchi nazionali, il principio della supremazia del piano del parco rispetto ad ogni altro strumento di pianificazione, la realtà mostra come l'elaborazione del piano comporta il coinvolgimento di tutti gli enti locali e le regioni territorialmente interessati nella veste di co-protagonisti della pianificazione, cioè di copianificatori: il ruolo dell'ente parco non è quello di ritagliarsi una competenza pianificatoria più o meno ampia nell' ambito del sistema previgente, ma quello di creare una nuova dinamica nel rapporto interistituzionale, tale da portare l'attività di pianificazione a un più alto livello qualitativo legato ai nuovi obiettivi fissati dalla legge e ad attribuire quindi a esso un respiro più alto e cioè quello non del compromesso, ma della sintesi tra esigenze di tutela ed esigenza di sviluppo. Questa è la realtà straordinaria dei parchi che impongono a tutti di innalzare il livello della riflessione, della ricerca e degli interventi.

Tale principio generale discende direttamente dalla natura mista dell'organo di gestione. Si è discusso molto sui rapporti tra interessi e loro rappresentanze all'interno degli enti parco, sulla necessità o meno che prevalgano determinate rappresentanze (quelle locali o quelle centrali).
Si tratta di un falso problema. La prassi dei parchi, che comincia ormai a essere abbastanza rilevante dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo, dimostra come il conflitto non si ponga mai, o quasi mai, tra c.d. interessi locali e c.d. interessi centrali.

Parlare in questi termini significa parlare di cose che non esistono nella realtà. Il problema è diverso ed è quello della compresenza e della sintesi di interessi diversi, tra i quali è, come subito vedremo, deviante distinguere tra interessi particolari (di cui sarebbero titolari i rappresentanti degli enti locali) e interessi generali (di cui sarebbero titolari gli altri rappresentanti). Nella prassi dei parchi questa comprensenza di interessi diversi si sta dimostrando un elemento dinamico e stimolante: la partecipazione delle rappresentanze locali non crea inerzia e rallentamento, ma, anzi, assai spesso un dinamismo nuovo e fecondo, soprattutto laddove i rappresentanti degli enti locali si rendono conto delle nuove sfide (e spesso se ne rendono conto più degli altri).

Il problema su cui occorre riflettere, anche sul piano dell'interpretazione delle norme, è quello della natura e della gerarchia degli interessi. Esistono, nel processo istitutivo delle aree protette e soprattutto in quello gestionale, interessi gerarchicamente sovraordinati agli altri? Si possono configurare interessi generali da contrapporre a interessi particolari? Esistono e quale natura han- no gli interessi ambientali? I1 tema è affascinante e meriterebbe un'ampia riflessione. Mi limito ad alcune considerazioni più intuite che elaborate, comunque influenzate da una specifica esperienza gestionale e che pertanto corrono il rischio di essere parziali. Prescindo dall'analisi degli interessi coinvolti nel processo istitutivo delle aree protette (problemi cui ho già accennato, ma che meriterebbero un ben altro approfondimento) e mi limito agli "interessi rappresentati" nell'organo di gestione dei parchi nazionali, così come previsto e disciplinato dall'art. 9 della legge 394, che è, di fatto, modello tipo anche per i parchi regionali.
Interpretare le vicende dei parchi utilizzando come categoria la gerarchia degli interessi o la dicotomia tra interessi generali e interessi particolari sarebbe un'operazione errata dal punto di vista concettuale e mistificante da quello dell'esperienza concreta che non consente certo una lettura di questo genere.

Limitandomi all'aspetto teorico osservo che nessuno dei rappresentanti nominati nel Consiglio direttivo degli enti parco può essere considerato portatore di interessi particolari: non quelli ministeriali, il cui compito non è di far valere interessi in una parte di cittadini, cioè interni di categoria (es., per il rappresentante del Ministero agricolo il compito non è quello di far valere gli interessi degli agricoltori), ma di portare il contributo dello Stato centrale attraverso i suoi settori amministrativi più direttamente coinvolti (e competenti) nelle questioni relative ai parchi; non i rappresentanti delle istituzioni scientifiche, perché l'interesse della scienza e della ricerca non può certo qualificarsi come particolare; non i rappresentanti espressi dalla Comunità del Parco, cioè i rappresentanti degli enti locali, perché 1' ente locale è portatore di interessi generali e non certo particolari. Paradossalmente il dubbio potrebbe porsi per i rappresentanti delle associazioni ambientalistiche proprio in quanto rappresentanti di una parte delle collettività (oltre tutto spesso in conflitto con altre parti della collettività). Ma la scelta del legislatore, pur opinabile (anche qui sarebbe necessario un approfondimento), di coinvolgere negli enti i rappresentanti delle associazioni sembra fondato proprio sulla natura generale degli interessi (interessi ambientali) di cui tali associazioni sono portatrici e che trova un fondamento giuridico preciso nella trasversalità della tematica ambientale accolta dall' ordinamento soprattutto sulla base di precise indicazioni del diritto comunitario: l'ambiente non è settore, ma è elemento che attraversa tutti i settori.

Dalla considerazione della natura mista dell'organo di gestione dei parchi può allora ricavarsi un altro principio che a ragione deve considerarsi come generale: quello della compresenza dialettica di interessi generali. Il sistema delle aree protette si costruisce nel segno del contemperamento, e perciò della complessità, e non della gerarchia, e perciò della semplicità.

Infine il sistema delle aree protette, per come si sta realizzando, è un sistema aperto; e non potrebbe essere altrimenti: proprio in ragione del loro complesso ruolo le aree protette devono ricercare effettivi collegamenti con altre istituzioni, aprirsi ad esse, coinvolgerle. L'apertura diventa quindi un altro principio generale del sistema.

Se pensiamo alla rete ecologica nazionale, ai progetti regionali che si vanno costruendo attorno alle aree protette o comunque ispirati alla filosofia delle aree protette (Ape, Itaca, le Alpi, ecc.), se vogliamo atturare progetti anche comunitari che si innovano a livello di sistemi, dobbiamo fare riferimento a una complessità istituzionale che non può limitarsi solo alle aree protette.

Oggi, però, vedo il rischio che in questi progetti di sistema le istituzioni tradizionali, per la loro forza oggettiva, finiscano per soffocare o comunque porre al margine le aree protette con tutta la loro carica di novità e di vitalità. Perderemmo in tal modo l'aspetto più significativo di quei progetti e soprattutto vanificheremmo quello sforzo che i Parchi stanno compiendo per affrontare i problemi a un più alto livello qualitativo.

 

2. L'altro ordine di riflessioni suscitate in me dal "Codice", proprio perché si presenta come corpus normativo compiuto, porta al di là di esso e della sua compiutezza e pone questioni de iure condendo, legate innanzitutto al ruolo delle aree protette. Si aprono in proposito ampi spazi tanto alla elaborazione teorica quanto all'indagine pratica legata alle scelte gestionali da effettuare ai differenti livelli, istituzionali e non.

Sul ruolo delle aree protette ciascuno offre la sua interpretazione. Secondo la mia interpretazione - che peraltro si inserisce all'interno di un movimento culturale di cui uno dei protagonisti autorevoli è la Federazione italiana dei parchi e delle riserve naturali, che pur non costituendo, ovviamente, una fonte di interpretazione autentica, è comunque un operatore particolarmente significativo per la sua rappresentatività - le aree protette sono luoghi di sperimentazione dello sviluppo sostenibile nel senso a cui ho fatto riferimento in precedenza e cioè luoghi di ricerca di soluzioni dei problemi a livello alto.

Se si accoglie questa interpretazione ci si deve chiedere se sia sostenibile la tendenza assai diffusa, presente anche nelle indicazioni del Ministero dell' ambiente, di considerare le aree protette come delle specie di agenzie che devono produrre reddito e che pertanto possono esigere finanziamenti pubblici solo entro certi termini, perché per il resto prima o poi devono essere in grado di autofinanziarsi. Si tratta di un'interpretazione che era apparsa anche nel dibattito sulla legge quadro, ma che oggi deve essere verificata alla luce degli interessi generali oltre che del dettato normativo.
Se il parco è luogo di sperimentazione di uno sviluppo sostenibile, non è possibile attestarsi su una definizione di parco come agenzia che deve produrre reddito.
Vi è preliminarmente un ostacolo concettuale: se il parco è luogo (territorio), non può essere agenzia (ente, soggetto, persona). Né questo ostacolo potrebbe essere superato facendo leva sulla distinzione, peraltro corretta, fra parco territorio e parco persona, perché la finalità del parco persona, cioè dell'ente parco, fissata dall'ordinamento, non è certo quella di diventare produttore di reddito (imprenditore?), bensì di operare perché nel parco territorio si inneschi un meccanismo di sviluppo che abbia come protagonisti gli operatori del territorio, pubblici e privati.

In altri termini lo sviluppo sostenibile previsto dal legislatore, in termini a volte espliciti a volte impliciti, e comunque voluto ormai dalla coscienza collettiva, non viene realizzato dal parco persona (ente parco), ma dall'intera società del parco: compito dell'ente parco è quello di stimolare, porre nuovi obiettivi, coordinare, individuare percorsi, trovare canali finanziari, controllare, ma non certo "guadagnare".

Ciò non significa che l'ente parco non possa, o non debba, trovare autonome fonti di reddito (autonome rispetto ai finanziamenti statali o regionali e in genere ai finanziamenti pubblici), non debba offrire sul mercato servizi anche a pagamento (è la legge stessa a prevedere, ad esempio, la concessione dell'uso dell'emblema e della denominazione), ma non può essere questo tipo di attività a caratterizzare la politica del parco né il nuovo modello di sviluppo.

Il parco dovrà invece operare perché nel suo territorio si inneschi quel meccanismo di sviluppo sostenibile che può rappresentare un modello anche per il resto del territorio.
Questo operato non ha oggi un valore di mercato e pertanto deve essere sostenuto fortemente dai finanziamenti pubblici. L'efficacia dell'azione del parco si misurerà pertanto non dal "reddito" che direttamente esso riuscirà ad ottenere, ma dal grado di efficacia del meccanismo di sviluppo che avrà saputo innescare e che, questo sì, dovrà avere valore di mercato e produrre reddito.

* Presidente del Parco Nazionale dei Monti Sibillini