Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 29 - FEBBRAIO 2000


Quale rete ecologica?
a cura di Giulio Ileardi
 



Introduzione

Cos'è la rete ecologica nazionale? Un progetto ambizioso ma realizzabile di ricucitura delle politiche ambientali operanti su diversi piani in Italia, oppure la messa a sistema delle aree naturali protette collegate fra loro da corridoi ecologici? L'integrazione in ottica ecosostenibile dei vari sistemi di pianificazione o una sorta di Natura 2000 più articolata e "spalmata" sul territorio? L'ultima frontiera della conservazione oppure, in due parole, "aria fritta"? Rete, metafora di successo. Come rileva anche Roberto Gambino in questo dossier, sempre più è la forma di organizzazione spaziale - anche solo concettuale, basti pensare al web - scelta a descrivere molti fenomeni contemporanei. Anche nel mondo dei parchi gli apprezzamenti non sono certo mancati. A partire dal convegno di Catania sulle "Cento idee per lo sviluppo" (dicembre '98), e relativo battesimo del progetto a firma del Ministero dell'ambiente, la formula Rete ecologica nazionale (abbreviata in REN) è entrata di prepotenza nel vocabolario delle aree protette italiane. Come per il Giubileo nella promozione turistica di qualunque scampolo di Bel Paese, anche il riferimento alla rete in ogni documento su un parco trentino piuttosto che su una riserva siciliana è divenuto semplicemente d'obbligo. Non è difficile comprendere almeno alcuni dei motivi di tale consenso. I nostri parchi soffrono d'isolamento, in specie amministrativo: naturale che guardino con favore a chi prospetta loro collegamenti territoriali ma pure - soprattutto? - sponde istituzionali. Che al lupo o all'orso servano corridoi ecologici per spostarsi da un parco all'altro, poi, è un concetto magari troppo approssimativo o addirittura infondato in termini scientifici ma di presa immediata nel grande pubblico, dunque anche tra i politici. Ma il favore riscontrato è frutto anche del respiro del progetto, in grado di delineare per le aree protette un orizzonte più ampio dei loro confini. Quale rete ecologica? a cura di Giulio Ielardi E in sede di programmazione dei fondi comunitari, ecco il risultato probabilmente più importante, il settore ambientale ha o avrebbe potuto finalmente acquisire un ruolo non secondario. "Per la prima volta nel nostro Paese si è tentato di impostare un Programma nazionale di sviluppo socio economico attraverso metodologie e con finalità veramente innovative", dice il Presidente della Federparchi Enzo Valbonesi, "capaci di orientare i progetti di intervento verso azioni di sviluppo sostenibile. Purtroppo questa grande innovazione metodologica proposta dal Servizio Conservazione Natura non è stata assunta a livello centrale" - aggiunge Valbonesi - "perché il Programma della rete ecologica nazionale del ministero dell'Ambiente non è stato inserito tra i Programmi selezionati dal ministero del Tesoro e del Bilancio. E tantomeno a livello regionale, dove la gran parte dei Programmi per i fondi strutturali europei 20002006 sono soprattutto caratterizzati ancora dalla vecchia logica delle grandi infrastrutture".

Su cosa in realtà sia o debba essere la Rete ecologica, però, le interpretazioni e le aspettative che si raccolgono sono tante e tali da far ritenere che in giro un po' di confusione vi sia. Intanto, va chiarito che accanto al progetto targato ministero ce n'è almeno un altro a carattere nazionale. Anzi c'era ben prima, visto che è dal 1996 che l'Anpa (Agenzia nazionale di protezione ambientale) ha avviato una linea di ricerca dal titolo "Reti ecologiche", volta a "mettere a punto degli strumenti di supporto per la pianificazione a scala locale". La rivista vi ha già fatto cenno, ad esempio nel n.27 in un articolo di Bernardino Romano, e qui ne scrive il coordinatore del progetto, Matteo Guccione. Dove vuole portare in concreto rete ecologica? Il ministero dice: a "interrelazionare e connettere ambiti territoriali dotati di una maggiore presenza di naturalità". Certo non si tratta, almeno non solo, di istituire una nuova categoria di area protetta (i corridoi ecologici o biocanali o green ways e via declinando). Neppure solo di predisporre una metodologia tecnica. Né soltanto di offrire un supporto progettuale centrale per guidare i programmi di spesa delle regioni, pur se quest'ultimo obiettivo - niente affatto secondario - sembra già essere stato colto, come sostengono su queste pagine Marco Agliata e Vincenzo Cingolani del ministero dell'Ambiente, che annunciano entro la fine dell'anno l'avvio dei primi interventi. Un po' progetto di sviluppo socio economico, un po' strategia di conservazione, in realtà così come ci viene descritta REN lascia molti interrogativi aperti. Quali dovrebbero essere i rapporti con gli strumenti di pianificazione territoriale, e cioè piani dei parchi e loro aree contigue, piani paesistici, piani di bacino, piani provinciali etc. etc., soprattutto a tutela delle aree a naturalità diffusa? Quali le differenze o le sovrapposizioni con altri strumenti programmatori da tempo attesi, come le linee fondamentali dell'assetto del territorio? Sui limiti del progetto ministeriale da un punto di vista squisitamente scientifico e guardando alla tutela della biodiversità al di là, quindi, del suo disegno politico di sviluppo sostenibile - punta lucidamente l'indice Luigi Boitani. Le sue osservazioni propongono correzioni di rotta non banali, ma devono aver colto nel segno visto l'incarico di studio recentemente ricevuto dal Servizio conservazione natura proprio sugli aspetti del progetto REN legati alla conservazione della biodiversità - insieme a Roberto Gambino per la pianificazione, ad Antonio Calafati per l'economia e a Legambiente per la comunicazione. Boitani va anche oltre, riprendendo e amplificando considerazioni già avanzate (ad esempio in occasione della stessa Conferenza nazionale sui parchi del settembre '97) sulla reale consistenza del contributo degli attuali parchi italiani alla tutela della biodiversità del nostro Paese. E non è certo un caso che proprio in questo dossier dedicato alla Rete, accanto alla "difesa" dei parchi sostenuta con argomentata e soprattutto realistica passione da Renzo Moschini, compaia una schietta riflessione di Roberto Gambino sulla quasi ineluttabilità di guardare oltre le aree protette. Non sembri inopportuna, sulla rivista dei parchi, una riflessione sui limiti attuali della loro efficacia e rispondenza alle finalità originarie. Al contrario, questa andrebbe vista come segno di maturità di un sistema cresciuto negli ultimi tempi tumultuosamente: una formula di successo. Se preso sul serio andrà pur detto chiaramente - il progetto REN sarà il banco di prova del sistema nazionale delle aree protette poiché si avranno ripercussioni su temi cruciali come la classificazione, la perimetrazione, la pianificazione dei parchi attuali e la possibile istituzione di quelli futuri. "Io non vedo però nessun motivo per rivedere il ruolo dei parchi", precisa ancora Valbonesi, "anzi ritengo sia ora più che mai necessario accentuare la loro funzione come nodi centrali e dinamici della REN. Per fare ciò abbiamo alcune importanti opportunità che si chiamano Appennino Parco d'Europa, Coste Italiane Protette, Itaca, Alpi etc.". Un'ultima annotazione su uno dei primi frutti di REN, e cioè lo studio a scala nazionale sulla distribuzione dei nostri vertebrati cui fa cenno nel dossier lo stesso Boitani. Quanto mai opportuno, va detto subito. Ma non è facile comprendere la necessità di simili tortuosi (e tardivi!) percorsi per giungere a quell'obiettivo fondamentale e propedeutico, linearmente indicato dalla 394, che è la mappatura dello "stato dell'ambiente naturale in Italia, evidenziando i valori naturali e i profili di vulnerabilità territoriale". Di priorità ne avrà fin troppe sulla sua agenda il neoministro Willer Bordon, ma una ci permettiamo di indicargliela. Si chiama Carta della Natura.

Giulio Ielardi

 


 

Reti ecologiche in Provincia di Roma:
un caso di studio Corrada Battisti
* Anna Guidi** Stefano Panzarasa***

Nell'ambito delle attività di pianificazione promosse dall'Amministrazione Provinciale di Roma sulla base degli indirizzi inseriti nel recente Piano Territoriale di Coordinamento (Provincia di Roma, 1998), è stata attivata una Convenzione tra l'Amministrazione e l'Agenzia Nazionale Protezione dell'Ambiente nell'ambito del progetto nazionale "Reti ecologiche" (ANPA, 1998). Scopo del lavoro è stata la definizione di metodologie atte a permettere l'individuazione di reti ecologiche in ambiti specifici e per opportuni taxa obiettivo, indirizzando l'attività di pianificazione territoriale in tal senso. Si è ritenuto procedere, almeno nelle fasi preliminari del lavoro, analizzando separatamente gli aspetti geologici, floristicovegetazionali e faunistici così da individuare per ogni disciplina specifiche metodologie, indirizzi e problematiche. Compito e sfide future saranno l'elaborazione di un indirizzo comune di pianificazione finalizzato alla conservazione delle preesistenze naturalistiche, dei processi e delle dinamiche ecologiche del contesto esaminato come banco di prova per una pianificazione allargata a scala provinciale. L'area di studio è compresa fra il limite della periferia urbana nordest di Roma, il fiume Tevere, il fiume Aniene e i Lucretili occidentali e sudoccidentali.

GEOLOGIA, MORFOLOGIA E IDROLOGIA DI SUPERFICIE
(Stefano Panzarasa)

L'area di studio si presenta molto differenziata sia dal punto di vista geologico (litotipi e loro età di deposizione) che da quello morfologico. Si passa, infatti, dalle strutture principalmente carbonatiche mesozoiche dei Monti Comicolani, della parte ovest dei Monti Lucretili e dei monti a nord di Tivoli (M. Catillo), alle strutture sedi mentarie argillose e sabbiose pliopleistoceniche che insieme ai depositi vulcanici quaternari del Vulcano Sabatino caratterizzano localmente il lato destro collinare del bacino del Fiume Tevere. Dal punto di vista morfologico l'area di studio presenta tre "forme" principali. La prima è rappresentata da vallate e colline costituite principalmente dai litotipi sabbiosiargillosi e tufacei con altezza non superiore ai 200 m che degradano altimetricamente verso la valle del Tevere. La seconda unità è quella dei Monti Comicolani (in senso stretto), al centro dell'area di studio, con altezze non superiori ai 400 m. L'ultima unità, una vera e propria "barriera morfologica", è rappresentata dal contrafforte carbonatico dei Monti Lucretili e dei monti a Nord di Tivoli che culmina a 1271 m con la cima Zappi, la più alta del complesso del Monte Gennaro (M. Lucretili). Dell'ambiente collinare più o meno elevato fanno parte i parchi dell'Inviolata e Marcigliana e le riserve di Gattaceca e Nomentum, mentre il contrafforte carbonatico è quasi totalmente tutelato dal Parco dei M. Lucretili e dalla Riserva di M. Catillo. Per quanto riguarda l'idrologia superficiale, l'area di studio, considerando la piccola barriera morfologica centrale dei M. Cornicolani, è solcata, intorno a questa, da corsi d'acqua rilevanti localmente ma di modeste dimensioni. Ad Ovest vanno segnalati principalmente il Fosso dell'Ormeto che interseca le due aree protette di Marcigliana e Nomentum e il Fosso Le Spallette di S. Margherita che attraversa il territorio di Marcigliana, e infine il Fosso Buffala che nasce all'interno del territorio di Gattaceca per affluire poi nel Fosso Fiora che insieme agli altri corsi d'acqua citati confluisce nel Tevere. Dal centro dell'area (lato Ovest dei M. Cornicolani, Gattaceca) nasce il Fosso di S. Lucia che scorrendo verso Sud Ovest attraversa il Parco dell'inviolata per gettarsi infine nel Fiume Aniene. Infine va ricordato il Fosso delle Dame, anch'esso affluente dell'Aniene che raccoglie le acque del territorio compreso tra i Monti Lucretili e i Monti Comicolani. Lo stesso Fiume Aniene che contorna l'area nel lato sud rappresenta un collegamento naturale con il resto del territorio del settore Nord Est appenninico della Provincia di Roma (lato est dei M. Lucretili, M. Prenestini, M. Ruffi, M. Simbruini) (AA.VV., 1988a, b, 1996, 1998).

USO DEL SUOLO, TUTELA, FLORA E VEGETAZIONE IN RELAZIONE ALLE CONNESSIONI BIOLOGICHE NELL'AREA
(Anna Guidi)

Uomo e territorio nell'area di studio La porzione di territorio che dal Grande Raccordo Anulare di Roma raggiunge le pendici dell'Appennino Centrale è soggetta a continue trasformazioni ed è densa di contraddizioni. Per un verso infatti vi si sono sviluppate aree di periferia urbana degradata (intendendo come componenti del degrado accumuli di rifiuti, abusivismo edilizio, situazione degli scarichi ancora non sanata, scarsità di spazi verdi fruibili, un certo grado di insicurezza sociale, e così via), vi si rinvengono importanti nuclei industriali e insediativi decentrati rispetto alla metropoli (prevalentemente addensati in prossimità di Bagni di TivoliGuidonia - area considerata come nuova "centralità di piano" sulla quale insistono importanti progetti di sistemazione urbanistica - e Tivoli, lungo il corso del Fiume Aniene, e in misura minore nell'area intorno a Monterotondo), impianti produttivi sparsi nel territorio (cave, cementifici), importanti direttrici di trasporto ferroviario e su gomma (in particolare il collegamento autostradale fra Bagni di Tivoli e Fiano Romano), fenomeni di inquinamento. Nello stesso tempo si osserva che gran parte di tale territorio è sede di aziende agricole, boschi cedui, aree a bassa densità insediativa per le quali si è sviluppata gradualmente una politica protezionistica, e ovunque straordinari elementi estetici e storicoculturali si uniscono a valori più prettamente biologici ed evoluzionistici, in particolare in relazione alla conservazione della biodiversità (ricchezza di specie, complessità bio geografica, diversità di paesaggio). Tutta l'area considerata costituisce dal punto di vista geobotanico una zona di incrocio fra diverse flore: vegetano una accanto all'altra sclerofille mediterranee, latifoglie decidue e corteggio floristico del bosco mesofilo, specie occidentali adatte all'influenza tirrenica, specie di areale SudEst europeo - balcanico - pontico (il cosiddetto "contingente orientale"). La diversità che ne segue è ulteriormente aumentata dall'alternarsi in un piccolo spazio di substrato alluvionale, vulcanico, e contrafforti calcarei, e dalla complessità degli usi del suolo e dei rapporti uomoterritorio, intensi fin dall'epoca preistorica, quando la transumanza costituiva già un elemento di forte influenza antropica sull'area." In linea generale ed esclusi i principali nuclei industriali e insediativi citati, a partire dal G.R.A. di Roma, andando verso NordEst, gli insediamenti urbani e i seminativi di grande estensione diminuiscono gradualmente, mentre prendono il sopravvento la coltura dell'olivo (oliveti e piccoli frutteti), aziende agricole di piccole dimensioni, aziende sperimentali, boschi governati a ceduo a gestione pubblica o privata, aree dove persistono modalità tradizionali residue di esercitare agricoltura, pascolo e artigianato. Da sottolineare la presenza di scenari incantevoli, come le cascate dell'Aniene e i templi di Vesta e della Sibilla sullo sfondo dei Monti di Tivoli, o i tanti punti panoramici in cui dall'asse LucretiliSan PoloTivoli si riconoscono le principali emergenze geomorfologiche dell'area Cornicolana e di gran parte della Provincia di Roma, cavità carsiche di eccezionale suggestione come il Pozzo del Merro, e infine un gran numero di beni culturali e archeologici poco conosciuti (come ad esempio le rovine del castello di Grotta Marozza a Gattaceca) disseminati in modo puntiforme nel territorio. L'assenza di una valorizzazione sistematica di tali risorse ha reso l'area immune dai danni che altrove ha portato l'introduzione nei grandi circuiti turistici. Elementi di analisi sinora considerati L'area è stata inquadrata sotto l'aspetto degli usi del suolo, dei valori naturalistici e storicoculturali, delle principali direttrici di trasporto e delle principali attività produttive. Il territorio è stato quindi esaminato sotto l'aspetto del regime di protezione esistente: è stato redatto l'elenco delle aree protette, con legge istitutiva ed ente gestore, dei siti di importanza comunitaria, nazionale e regionale, di altri siti la cui importanza ambientale è stata segnalata in ricerche di tipo scientifico, atti di pianificazione, documenti redatti da associazioni ambientaliste. Sono stati cartografati i fossi sottoposti a vincolo di protezione dalla "Legge Galasso". Sono stati quindi presi in considerazione il fitoclima, il paesaggio vegetale, la flora e la vegetazione dell'insieme territoriale e di ciascuna delle singole aree protette e dei singoli siti segnalati. Per ogni sito sottoposto a tutela è stata redatta una scheda contenente le principali informazioni sull'ambiente fisico, il paesaggio, la flora e la vegetazione, ove disponibili cenni sui valori storicoarcheologici, informazioni sul regime di protezione. Dove non è stato possibile reperire bibliografia esauriente sulla flora e la vegetazione delle aree protette elencate, si è provveduto a una ricognizione di campo per ottenere dati e descrizioni originali, con particolare riguardo alle Riserve naturali di: Nomentum, Macchia di Gattaceca e Macchia del Barco, Monte Catillo. Si è verificato che le aree protette sono numerose ma discontinue, e lasciano quasi completamente scoperte vaste porzioni di territorio, dove altri vincoli di protezione, come quelli derivanti dalla applicazione della "Legge Galasso" tutelano principalmente le fasce corrispondenti al corso dei fossi principali. Dal punto di vista della tutela della diversità di ecosistemi e di fitocenosi è evidente come questo tipo di protezione selezioni particolari ambienti, caratterizzati in genere da notevole acclività e dallo sviluppo di una flora composita e ricca di specie azonali, cioè di specie non strettamente legate alla collocazione geografica ma alla possibilità di propagarsi lungo i corsi d'acqua o in concomitanza con condizioni create dall'uomo (es. apertura di strade). Benché la protezione di tali ambienti sia necessaria e doverosa, questa va accompagnata alla tutela di frammenti residuali tipici di condizioni geomorfologiche "standard" dell'area. Nel nostro caso, ad esempio, forre e versanti calcarei molto acclivi conservano spesso una copertura vegetale arboreo arbustiva spontanea, soprattutto perché in tali siti è difficile accedere con mezzi meccanici distruttivi, mentre la vegetazione boschiva di aree pianeggianti e collinari è soggetta - in assenza di interessi locali al turismo e alla gestione compatibile delle risorse o di misure di protezione - a facile distruzione. Di qui la necessità di non limitarsi a proteggere linee di continuità fisica di aree coperte da generica vegetazione arboreoarbustiva, ma di entrare anche nel merito della composizione floristica e della analisi di qualità ambientale degli elementi di paesaggio e di copertura vegetale che si intende tutelare, dove la qualità ambientale sia interpretabile in base a finalità di conservazione e modelli interpretativi biologici definiti ed espliciti (ad es. numero delle specie presenti in un'area, percentuale di specie cosmopolite, criteri basati sulle caratteristiche ecofisiologiche e sulla distribuzione geografica delle specie). Importanza delle formazioni arboreo arbustive di piccole dimensioni Il ruolo di siepi, filari, boschetti e altre piccole formazioni arboreoarbustive disseminate nel territorio è documentato da una inesauribile letteratura scientifica, all'interno della quale abbiamo individuato tre grandi sezioni. La prima comprende una serie di preziose ricerche condotte su fattori abiotici e comunità biotiche a partire dagli anni Sessanta e Settanta soprattutto in URSS e nell'Est europeo allo scopo di migliorare la produttività agricola; un secondo filone più strettamente finalizzato alla conservazione della natura e all'ecologia del paesaggio si è sviluppato di preferenza nel mondo occidentale, raggiungendo una grande diffusione nell'ultimo ventennio, mentre in Italia gli studi attinenti al tema sono grossomodo riconducibili all'area qualità ambientale/ diversità/dibattito sulla carta della natura e la gestione delle aree protette. Si è quindi integrata la descrizione della vegetazione dell'area con i risultati di un nostro precedente studio ove erano state rilevate e valutate la composizione floristica e la struttura di siepi e altre formazioni presenti lungo un tracciato di strada rurale da Palombara Sabina a Montecelio. Il sistema analizzato era situato lungo una linea di collegamento fra il Parco Naturale Regionale dei Monti Lucretili e il sistema di boschi dell'area Cornicolana. Tali aree ad alto valore naturalistico nelle cartografie a piccola scala e nei dati di uso del suolo Corine 1994 appaiono nettamente separati da un'area intensamente coltivata. Sul campo però si possono rilevare numerosi elementi di connessione biologica. Tra questi, siepi di confine, boschetti residuali, cespuglieti, oliveti abbandonati invasi dalla vegetazione spontanea. Per valutare qualitativamente il potenziale dinamico, e quindi il valore di difesa per tutto l'ambiente circostante, rappresentato dal sistema di formazioni lungo il tracciato PalombaraMontecelio, sono stati considerati indicatori di qualità i seguenti fattori:

1 - alto numero di specie vegetali presenti, alto numero di specie fanerofitiche;

2 - coerenza corologica della flora rilevata (alto rapporto fra le specie strettamente legate per fattori naturali alla zona fitogeografica in esame e le specie a distribuzione cosmopolita o sinantropiche);

3 - elevata complessità strutturale delle formazioni, evidenziabile soprattutto da una stratificazione della formazione lineare con presenza simultanea di individui di diverse età e dimensioni;

4 - presenza di un alto numero di plantule delle specie dominanti nei boschi potenziali dell'area (nel nostro caso roverella, cerro, carpino orientale);

5 - diversificazione delle formazioni (siepe, filare, boschetto, cespuglieto, aggruppamento isolato);

6 - continuità fisica delle formazioni;

7 - appartenenza delle specie alla vegetazione tipica di condizione geomorfologiche prevalenti dell'area (non appartenenza a habitat particolari come forre e fossi);

8 - presenza e distribuzione di specie protette o a rischio (nel nostro caso è stata mappata la Styrax officinalis);

9 - omogeneità degli elenchi floristici con elenchi di aree protette vicine. Linee di lavoro prioritarie Allo stato attuale dello studio non è possibile trarre valutazioni conclusive in merito alla continuità ambientale, che potranno derivare solo dalla raccolta di ulteriori dati di campo e dal confronto con risultati provenienti dall'analisi concertata di fauna, suolo e fattori antropici, con particolare riguardo all'espansione urbanistica e allo svilup po infrastrutturale. Un obiettivo a lungo termine è certamente quello di ricostruire la storia dell'evoluzione degli usi del territorio e di conseguenza i cambiamenti storici nella copertura vegetale, analizzarne le tendenze evolutive ed effettuare previsioni sul rapporto fra l'uso umano delle risorse e le capacità del sistema naturale di conservare o ripristinare il suo equilibrio in tutta l'area. A breve e medio termine vanno però scelte aree di studio prioritarie dove mirare a risultati relativamente rapidi in modo da tradurre i risultati tecnici in progressive indicazioni e orientamenti per "aggiustamenti di tiro" (anch'essi progressivi) nella gestione delle aree protette e nella redazione e attuazione dei PRG.

Elenchiamo di seguito cinque possibili linee di lavoro.

A) Analisi della connessione fra il Parco dei Monti Lucretili e la R.N. di Monte Catillo, finalizzata alla redazione di contributi a indirizzi di pianificazione e al superamento di eventuali barriere. La Riserva naturale di Monte Catillo sembra essere attualmente, fra le riserve naturali presenti nell'area di studio, la più promettente come serbatoio genetico per il territorio e come fonte di informazione e di chiarificazione sulle dinamiche di ricostituzione del manto vegetale dopo gli incendi e di rinaturalizzazione di ambienti coltivati e pascolati. Questa Riserva appare fin d'ora, per la ricchezza e la complessità corologica ed ecologica della sua componente vegetale, l'area d'elezione degli studi floristicovegetazionali per ricercare qualche chiave per l'analisi di meccanismi di propagazione, di risposta all'impatto umano, di interrelazione fra le specie.

B) Promozione di forme di tutela delle piccole formazioni arboreoarbustive fra i Lucretili e i Monti Cornicolani.

C)Valutazione concertata della continuità ambientale nel contesto territoriale in fase di perimetrazione definitiva delle aree protette; eventuale progettazione di interventi di restauro ambientale (disinquinamento fossi, impianto siepi).

D) Verifica e valutazione della componente vegetale lungo le fasce di rispetto dei fossi: verifica del rapporto fra specie zonali e azonali, qualità ambientale, confronto con vegetazione aree protette vicine.

E) Censimento dei luoghi di particolare valore archeologico e storico o di particolare suggestione estetica nell'area, al fine di rafforzare l'opzione di protezione di un reticolo di collegamenti biologici fini fra tutte le aree citate, concertata con organismi deputati alla promozione sociale e culturale del territorio.

Attualmente la necessità di conquistare consenso per le misure di protezione ha reso maggioritaria la tendenza a divulgare un'immagine ottimistica dello stato di salute dell'ambiente nelle aree protette, in particolare per quanto riguarda la vegetazione, concentrando l'attenzione del pubblico e lo sforzo degli amministratori sulla formazione degli utenti e sullo sviluppo turistico e compatibile delle aree. Va però ricordato il rischio di contaminazione, degrado e distruzione che questi ambienti corrono e che non sembra diminuire. L'insieme delle caratteristiche biotiche e abiotiche dell'area protetta va considerato non solo come un patrimonio da conservare e valorizzare in situ, ma soprattutto come una fonte di informazione per l'esterno. L'area protetta può essere considerata una sorgente indispensabile di un flusso di informazione a diversi livelli: informazione genetica (diversità dei genotipi che può essere tutelata attraverso interventi per la conservazione exsitu), di comunità, strutturale, psicologica (per quanto attiene allo sviluppo delle capacità percettive dell'essere umano rispetto all'insieme delle specie viventi), scientifica (fornisce chiavi interpretative per comprendere le dinamiche naturali esterne). Per tali ragioni è stato in questo studio valorizzato il ruolo delle aree protette nell'analisi delle connessioni biologiche del territorio.

LA FAUNA:
INQUADRAMENTO, PROBLEMATICHE DI ISOLAMENTO E FRAMMENTAZIONE, INDIRIZZI DI LAVORO

(Corrado Battisti)

Riguardo alla fauna il caso studio ha permesso la stesura di un programma di lavoro preliminare, il cui scopo sarà quello di formulare indirizzi di pianificazione basati sui recenti sviluppi teorici, metodologici e applicativi inerenti la disciplina delle reti ecologiche. Si è ritenuto opportuno, dapprima, procedere attraverso un lavoro di analisi della letteratura scientifica (lavori di Biologia della Conservazione, ecologia, biogeografia, pianificazione, suddivisibili, a loro volta, per temi più approfonditi: es. dinamiche di popolazione, metapopolazioni, source/sink, design di riserve naturali, biogeografia insulare, effetto margine, strategie di conservazione, scale e livelli ecologici di riferimento, limiti e problematiche, ecc.). Ciò ha permesso l'individuazione di un primo quadro di riferimento tecnico. Sulla base della letteratura analizzata e dal confronto multidisciplinare scaturito dai convegni promossi dall'ANPA nel corso del progetto, si è tentata una individuazione di possibili reti ecologiche, finalizzate alla fauna, secondo tre distinti, anche se complementari, approcci:

1) strutturale (reti di ecosistemi);

2) funzionale (reti funzionali a dinamiche biologiche);

3) gestionale (reti di aree protette).

Ad una prima lettura "strutturale" del territorio, sono state individuate, di concerto all'analisi vegetazionale, le principali unità ecosistemiche e gli elementi di origine antropica cartografabili alle scale impiegate, attraverso le cartografie tematiche ISTAT (1990) e Corine Land Cover (1994): aree forestali, urbane, agroecosistemi, ambienti umidi e ripariali. Attraverso i dati disponibili da letteratura e da atlanti faunistici, benché a scala diversa, si è risaliti ad una prima checklist di specie faunistiche presenti nell'area (limitatamente ai vertebrati), suddivise, ove possibile, in relazione alle unità ecosistemiche individuate. Ad un inquadramento preliminare, l'area è, già di per sé, caratterizzata da una naturale discontinuità (ecosistemica, fitoclimatica, orografica) rappresentata dal massiccio dei LucretiliM. Catillo che agisce da barriera a livello di areali faunistici (con una marcata sovrapposizione degli areali in prossimità di tale barriera; Ingravallo com. pers.; dati Ministero dell'ambiente, 1993). Come risultante si assiste ad un marcato turnover delle specie dai Lucretili, ai Cornicolani, all'area Tiburtina. A tutto ciò si sovrappone, come effetto delle recenti trasformazioni antropiche e delle differenti potenzialità ambientali un gradiente faunistico di impoverimento specifico verso l'area urbana di Roma (v., ad es., Boano et al. 1995, per l'avifauna), che meriterebbe un analisi dettagliata. Dalle checklists così ottenute è stato ricavato, poi, un elenco preliminare e di massima delle possibili specie obiettivo (targetspecies) utili nel lavoro di pianificazione di rete ecologica (Soulè, 1991). Il criterio di scelta delle specie è stato di tipo conservazionistico (da liste rosse; Bulgarini et al., 1998), biogeografico (da atlanti disponibili a diverse scale e letteratura; Boano et al., 1995 per l'avifauna; Societas Herpetologica Italica, 1996 per l'erpetofauna; Calò e Verucci, 1993 per i mammiferi, ecc.), ecologico (es.: vulnerabilità alla frammentazione; ad es.: Bright, 1993 per i mammiferi; Hinsley et al., 1995, Massa et al., 1998 per gli uccelli), gestionale (es., specie di interesse venatorio, sp. invasive e/o alloctone, ecc.) (sull'argomento vedi ad es., Gimona, 1999). A questo proposito è subito emersa una carenza di dati ecologici intrinseci (sensibilità all'isolamento, alla frammentazione, all'effetto margine, ecc.) e di distribuzione (alla scala di studio) per alcuni gruppi. Una volta compilata una prima lista di specieobiettivo, gli elementi territoriali potranno essere letti in senso funzionale e specie (gruppo)specifico valutandone il livello di frammentazione e di isolamento e le possibili interferenze sulle dinamiche di dispersione (continuità/discontinuità naturali ed antropiche) delle specie individuate. Le discontinuità antropiche, su cui concentrare il lavoro di analisi, sono state categorizzate, in lineari (sistemi viari, ferroviari, canali, ecc.) e diffuse (aree urbanizzate ed agricole). L'espansione urbanistica ed infrastrutturale appare particolarmente marcata nell'area (hinterland romano, Bretella FianoS.Cesareo, viabilità principale e secondaria, ecc.), sì da caratterizzare marcatamente il contesto territoriale. In particolare, su una matrice antropica (urbana, industriale ed agricola) si inseriscono, con modalità complesse, frammenti forestali di dimensione e forma differente, analizzabili in senso faunisticoecologico. Per ogni gruppo faunistico e per le diverse unità ecosistemiche indagate sono state ipotizzate differenti e specifiche metodologie di indagine. Se, almeno a livello strutturale, è possibile, nell'area in esame, individuare reti di agroecosistemi e ambienti fluviali, seppur con problematiche di discontinuità, le aree forestali appaiono, invece, fisicamente frammentate e isolate con scarse o assenti connessioni fisiche. Su questi sistemi si è ritenuto approfondire il lavoro di ricerca sul campo provvedendo a com piere censimenti qualiquantitativi dell'avifauna nidificante in sette aree forestali (quattro nella Riserva naturale Macchia di Gattaceca e del Barco, tre nella Riserva naturale di Nomentum), a diverso grado di frammentazione ed isolamento. La scelta dell'avifauna come gruppo di indagine è legata alla possibilità di ottenere in tempi ristretti e in modo speditivo, informazioni ecologiche preliminari. Sarà opportuno estendere l'analisi ad altri gruppi faunistici con appropriate metodologie. L' analisi sia della struttura delle comunità forestali, che delle affinità faunistiche e biocenotiche tra esse, potrà essere utile per valutarne l'isolamento in senso ecologico quantitativo più che meramente fisicoterritoriale. Ciò può anche essere utile per individuare eventuali interior species forestali (v. Wilcove et al., 1986), particolarmente sensibili alla frammentazione ed all'effetto margine. L'uso di metodi ecologici, a livello di comunità, consentiranno, di analizzare approfonditamente ed oggettivamente le biocenosi indagate, approfondendo le conoscenze scientifiche e la reale necessità di ipotizzare interventi di pianificazione e conservazione, valutando anche, oltre che l'efficacia degli eventuali interventi di restoring, il ruolo degli elementi lineari nel mosaico paesaggistico (es.: fasce boschive ripariali: individuabili, ad un approccio strutturale, come elementi di continuità ma, non sempre funzionali alle dinamiche dispersive di specie interior forestali). Può essere possibile, poi, raccogliere informazioni sull'entità dell'effetto margine e della matrice circostante sulle comunità e sulle singole popolazioni faunistiche. Un ulteriore livello di analisi è quello relativo all'individuazione di una rete di aree protette nell'area di studio (approccio "gestionale"), la cui finalità è quella di proporre indirizzi e strategie di pianificazione ecologica che, a livello di ente locale ed attraverso strumenti come i PTC e i PRG, possano portare ad un design delle aree naturali protette e del territorio secondo i recenti criteri espressi in Biologia della Conservazione (v., per una sintesi, il recente Massa e Ingegnoli, 1999). Altre aree a differente regime di vincolo (SIC, siti BioItaly, aree venatorie, militari, fondi chiusi) potranno essere considerate nell'elaborazione di una strategia gestionale del contesto in dagato (Battisti, 1999). L'integrazione dei diversi approcci (strutturale, gestionale, funzionale) può contribuire all'individuazione di eventuali incongruenze tra rete di aree protette istituite (frutto di iter tecnicopolitici) e rete di ecosistemi funzionali a specie (gruppi) target (individuabili secondo stretti criteri di conservazione). La redazione dei piani di assetto potrà essere una concreta occasione per applicare tale pianificazione. L'esperienza accennata, estremamente preliminare, vuole rappresentare una linea di lavoro da seguire nelle politiche di pianificazione ecologica nella Provincia di Roma, in linea con gli indirizzi del recente Piano Territoriale di Coordinamento. Si vogliono fare, infine, a questo proposito, alcune considerazioni emerse durante questa esperienza. In particolare la necessità di:

1) basarsi sui concetti teorici di base espressi da discipline consolidate quali l'Ecologia, nelle sue diverse branche, e la Biologia della Conservazione;

2) individuare terminologie comuni, chiare ed univoche in una tale disciplina trasversale e multidisciplinare;

3) definire attentamente gli obiettivi, le scale territoriali e di pianificazione, i livelli e i processi ecologici di riferimento;

4) utilizzare in modo complementare i diversi approcci (strutturale, funzionale, gestionale) per l'individuazione di possibili reti ecologiche.

Provincia di Roma, Servizio Pianificazione ambientale, sviluppo Parchi, riserve naturali Ufficio Aree protette e Conservazione della natura (*) fauna, (**) flora e vegetazione, (***) geologia

 

Bibliografia geologia:

AA.VV., 1988a. Carta Idrogeologica del Territorio della Regione Lazio, Regione Lazio, Università degli Studi di Roma "La Sapienza". AA.VV., 1988b. Modello Stratigrafico Strutturale della Regione Lazio, Regione Lazio, Università degli Studi di Roma "La Sapienza". AA.VV., 1996. Carta dei principali Vincoli Ambientali, Provincia di Roma, Servizio Geologico e Difesa del Suolo. AA.VV., 1998. Carta Litostratigrafica, Provincia di Roma, Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale. fauna: ANPA, 1998. Programma Triennale ANPA 19982000. Progetto "Monitoraggio delle reti ecologiche". Roma, 1 giugno 1998. BATTISTI C., 1999. Hunting and the ecological network on a provincial scale: preliminary discussion points for the province of Rome. PLANECO (Planning in Ecological Network) Newsletter, 2: 36 (http:// dau.ing.univaq.it/planeco) BOANO A., BRUNELLI M., BULGARINI F., MONTEMAGGIORI A., SARROCCO S., VISENTIN M., 1995. Atlante degli uccelli nidificanti nel Lazio. Alula, II (12): 1225. BRIGHT P.W., 1993. Habitat fragmentation - problems and predictions for British mammals. Mammal rev., 23: 101114. BULGARINI F., CALVARIO E., FRATICELLI F., PETRETTI F., SARROCCO S. (Eds.), 1998. Libro rosso degli Animali d'Italia - Vertebrati. WWF Italia, Roma. CALÒ C.M., VERUCCI P., 1993. I mammiferi della Provincia di Roma. Provincia di Roma, Assessorato all'Ambiente. GIMONA A., 1999. Theoretical framework and practical tools for conservation of biodiversity at the landscape scale. PLANECO (Planning in Ecological Network) Newsletter, 2: 13. (http:// dau.ing.univaq.it/planeco). HINSLEY S.A., BELLAMY P.E., NEWTON I., SPARKS T.H., 1995. Habitat and landscape factors influencing the presence of individual breeding birds species in woodland fragments. J. Avian Biol., 26: 94104. MASSA R., BANI L., BOTTONI L., FORNASARI L., 1998. An evaluation of Lowland reserve effectiveness for forest birds conservation. Biol. Cons. Fauna, 102: 270277. MASSA R., INGEGNOLI V., 1999. Biodiversità, Estinzione, Conservazione. UTET Libreria, Torino. Ministero dell'Ambiente, 1993. Banca Dati Nazionale sulla Fauna. Dipartimento di Biologia Animale e dell'Uomo Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Provincia di Roma, 1998. Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale. Parte seconda: il Ptcp strutturale. Vol. 1: 4255 (vedi "Il piano provinciale delle aree protette verso la creazione di una rete di collegamenti biologici tra aree protette discontinue", pag. 43). Societas Herpetologica Italica, 1996. Atlante provvisorio degli anfibi e rettili italiani. Ann. Mus. Civ. St. Nat "G. Doria", Genova, Vol. XCI: 95178. SOULÈ M.E., 1991. Theory and strategies. In: Hudson W.E. (ed.). Landscape linkages and biodiversity, Island press. WILCOVE D.S., MCLELLAN C.H., DOBSON A.P., 1986. Habitat Fragmentation in the Temperate Zones. In: SOULÈ M.E. (Ed). Conservation biology. Sinauer Associates Inc. Sunderland, Massachussetts.

 

Reti ecologiche a scala urbana
Franco Viola, Stefano Reniero,
Renzo Gonzato, Gian Paolo
Barbariol e Andrea Fiduccia*

 

La crescita delle città e la progressiva occupazione degli spazi rurali, rese necessarie per far luogo ad attività portanti per l'economia e per l'organizzazione sociale, hanno messo in evidenza la crescente fragilità dei sistemi ecologici sottoposti alla pressione esercitata da gran parte delle attività umane. Da un lato ciò ha sollevato il problema della conciliazione tra economia ed ecologia, ovvero, usando la locuzione di Polunin, della crescita senza degrado, ma ha anche dato impulso a nuovi e importanti settori di ricerca e di applicazione tecnologica, come quelli mirati al mantenimento, al recupero o al ripristino del territorio ferito nel suo tessuto naturalisticamente più pregiato.

L'utilità di azioni a grande scala
Da molti anni ormai si argomenta di sostenibilità dello sviluppo, e si è presa coscienza, soprattutto in agricoltura, che molte tecniche colturali possono essere rivisitate per abbatterne drasticamente gli effetti negativi sul piano ambientale ed ecosistemico. Si è tuttavia anche appurata l'impossibilità di porre rimedio a molti guasti perpetrati nel recente passato, come quelli inerenti la disordinata crescita degli abitati disegnati sotto la spinta forte "dell'esplosione" economica e demografica, oltre che dei cambiamenti sociali che ne sono conseguenza diretta, cui non sempre hanno saputo dare ordine i vari strumenti messi in campo dalla pianificazione. Donde l'attualissimo problema di quale strategia possa essere sviluppata e attuata per dare continuità nel tempo, se non possibilità di recupero nello spazio, ai residui e preziosi frammenti di naturalità presenti nelle nostre terre, soprattutto nelle grandi pianure industrializzate del nord, infrastrutturate e urbanizzate spesso oltre misura. In gran parte del Paese di questi frammenti si è fatto censimento nei più recenti documenti programmatori di economia e di territorio dal livello regionale a quello comunale. Dall'analisi dei ri sultati conseguiti pare tuttavia che più che su grandi strategie, buone sul piano teorico e formale a scala regionale, o nazionale, sia meglio fare conto su azioni mirate e ben dimensionate a grande scala, dove si possono organizzare e muovere sinergicamente le attese di una comunità ristretta, e dunque attenta alla propria terra, e la volontà politica e tecnica degli amministratori locali. Tuttavia non sempre è facile individuare i luoghi su cui intervenire e il modo con cui farlo alimentando buone attese di successo. Così, ad esempio, dell'ancestrale tessuto di sistemi ecologici dell'area padana, e di quella orientale in modo particolare, restano ormai pochi e miseri frammenti, perlopiù relegati nei siti economicamente e agronomicamente più marginali, soprattutto a causa dei condizionamenti imposti dall'ambiente che li connota. Essi sono spesso relegati ai margini degli ambiti fluviali, dove quasi sempre si pongono in conflitto da un lato evidenti opportunità di conservazione naturalistica e dall'altro lato altrettanto stringenti necessità di presidio idrologico, ovvero di difesa contro il rischio idraulico. Se è vero che il tasso di degrado ambientale si coglie con la maggiore evidenza dalla celerità con cui scompaiono, o si riducono, le aree interessate da ecosistemi prossimonaturali, è altresì universalmente condivisa l'idea che la vulnerabilità di questi possa essere contenuta entro valori accettabili attraverso la conservazione, o il ripristino, di "elementi di contatto" tra aree naturalisticamente valide, ma disgiunte. Ciò implica la necessità di ripristinare, o costruire, "canali" che consentano l'interscambio tra sistemi ecologici separati o segregati dall'interconnessione di sistemi ormai così antropizzati da risultare pressoché impermeabili al trasferimento di piante e di animali, ovvero al mantenimento di quella "biodiversità" che oggi da tutti è riconosciuta essere fattore di stabilità della biosfera e, in una certa misura, garanzia di sopravvivenza per la stessa umanità. Si assume così che valga anche per la natura il "modello di interdipendenza funzionale", sposato dalle attuali concezioni economiche dei sistemi urbani e costruito sul concetto di connettività. Tale modello è stato sperimentato nell'interpretazione dei sistemi a dimensione metropolitana, la cui capacità di reggere alle sollecitazioni inerenti l'uso degli spazi e delle risorse, per averne servizi qualitativamente e quantitativamente soddisfacenti, sembra controllabile solo attraverso la creazione di una trama di interdipendenze, o di circuiti di comunicazione e di trasferimento, che collegano e legano i luoghi di decisione con quelli di coordinamento e di gestione dei servizi e dei beni energetici e materiali. Ma anche la attuale complessità del territorio aperto, che non è più espressione solo di semplice ruralità estesa su vaste superfici, ma appare sempre più articolato in minuscole aree connotate da usi del suolo assai diversificati, si presta ad essere interpretato, e dunque pianificato e organizzato, come "sistema di sistemi", anch'essi collegati da relazioni multiple, adeguatamente traducibile in un modello rispondente al cosiddetto "paradigma reticolare". È opinione diffusa che questo sia uno dei più fertili strumenti concettuali oggi a disposizione dell'urbanista e del pianificatore d'area vasta, poiché fin dalle sue prime applicazioni, pur se limitate e imperfette, ha dimostrato d'essere in grado di superare le insufficienze, gli schematismi e le rigidità proprie dello zoning monofunzionale.

Dalla teoria alla pratica
Grazie alla interdisciplinarità, che si sta imponendo ovunque come strumento efficace di lavoro operativo rivolto alla gestione del "complesso", subito se ne è voluta sperimentare l'applicazione anche nei campi dell'ecologia del paesaggio e della pianificazione ecologica. Qui si è preferito usare la locuzione "rete ecologica", che giova soprattutto a descrivere l'insieme delle relazioni spaziali tra le componenti naturali del sistema "ambiente", dentro e fuori le aree densamente e intensamente urbanizzate. In primo luogo, dunque, le città. Purtroppo, tuttavia, la lunga consuetudine delle discipline della natura a preferire la descrizione della realtà e dei suoi processi alla quantificazione dei fenomeni, sta rallentando la traduzione del concetto di rete in fatto tecnicooperativo. Per tale motivo si sta tentando, da molte parti, di far superare alle reti ecologiche la dimensione idealedescrittiva che ancora oggi le connota, per renderle strumento sì di qualificazione, ma anche di quantificazione delle connessioni esistenti tra gli ecosistemi di un certo ambito territoriale, individuato con opportuna scelta di scala, da quella (inter)nazionale a quelle regionale o locale. Potrebbero allora recuperare nuovo impulso alcune idee calate in molti piani territoriali degli anni passati, e mai tradotte in atti concreti, come quelle definite dai termini: aree di ripristino ambientale, fasce di rispetto, aree tampone, corridoi ecologici, ed altri ancora, spesso evocati nella speranza di poter perseguire l'obiettivo della conservazione naturalistica, della tutela della qualità ambientale, dell'integrità ecologica e della biodiversità dei residui sistemi prossimonaturali. Un caso particolare è quello delle città, dove emblematici sono sempre stati, e restano, i problemi legati alla banalizzazione delle strutture ecosistemiche e del tessuto degli elementi naturalistici residui nello spazio edificato, al recupero di una sufficiente qualità dell'ambiente urbano, fatto non solo di aria, di acque, di rumore, ma anche di paesaggio, di verde e di arredi, di ristoro psichico per la gente, che rimpiange sempre più queste ormai rare risorse. Su questi argomenti, che da noi hanno ancora breve vita, sono stati altrove eseguiti non pochi studi, alcuni dei quali hanno portato a valide applicazioni, soprattutto nell'Europa centrale. Ad esempio, nei Paesi Bassi sono ormai "storici" le analisi e i progetti relativi all'area metropolitana di città come Rotterdam e Utrecht; in Germania vanno citati almeno i lavori sviluppati per le città di Berlino, di Colonia e di Lipsia ed i progetti più recenti di Neumunster e di Kaiserlautern. Anche in Svizzera, a Zurigo, nell'ambito di un programma articolato di ripristino dei corsi d'acqua che interessano l'abitato, si è dato amplissimo spazio al concetto di rete ecologica e alle sue positive ricadute anche sugli aspetti paesaggistici, scenici, culturali e più generalmente sociali. Anche a casa nostra, tuttavia, qualcosa si sta facendo. Ad esempio, come è noto, l'Agenzia Nazionale per la Protezione dell'Ambiente ha avviato, nell'autunno del '96, uno studio preliminare, volto a trovare e a dare dimensione alle lacune di conoscenza in tema della connettività ecologica del territorio (vedi il contributo di M.Guccione e N.Bajo in questo stesso dossier, ndr). In Veneto, nell'area delle risorgive tra Astico e Brenta, per iniziativa e incarico di ARPAV è stato sperimentato un metodo d'analisi quantitativa degli elementi di "rete" che, attraverso lo sviluppo di un apposito Sistema Informativo Territoriale, s'è dimostrato in grado di limitare la soggettività insita nelle valutazioni ecologiche di sintesi (sintesi interpretative del sistema reticolare). Le altre fasi del processo di interpretazione dei sistemi ecologici rilevati del territorio e quelle di restituzione documentale del lavoro, per quanto possibile sono state quasi totalmente automatizzate attraverso lo sviluppo, la taratura e l'applicazione di appositi algoritmi. Con il loro impiego si è infatti mirato alla quantificazione del processo, nell'ipotesi che un dato "misurato" giovi a rendere oggettiva la procedura. Grazie alla sua struttura logica e matematica, essa è ora infatti ripetibile e reiterabile, come pure reiterabili sono le osservazioni e le misure di campagna, compiute in osservanza di un rigoroso protocollo di analisi georeferenziata. È sulla base di questa esperienza che si è maturato il convincimento che con gli opportuni adattamenti e con la specifica taratura degli algoritmi, il metodo abbia titolo per essere applicato anche allo studio delle reti ecologiche in area urbana, ovvero nel sistema che oggi ancora appare strutturalmente il più complesso e ecologicamente il più difficile da leggere e da interpretare.

Le trame verdi delle nostre città
Si parte dalla constatazione che da tempo, e in differenti maniere, si cerca di dare dimensione e sostanza all'idea che le aree verdi interne agli abitati hanno motivi per sostenere, con ottimi risultati, funzioni multiple. Le "idee" che oggi guidano la pianificazione urbanistica, e che in larga misura hanno già recepito il valore e promosso il recupero del disegno "verde" della città, potrebbero ancora guadagnare più consistenti dimensioni naturalistiche se dessero risalto al sistema delle interconnessioni tra i "sistemi verdi" interni all'abitato e tra questi e le aree naturalisticamente di pregio esistenti oltre i confini amministrativi della città. In sostanza si crede che il mi glioramento qualitativo dell'ambiente urbano e il pieno sfruttamento delle potenzialità di fruizione di molte tra le aree verdi dell'ambito cittadino si conseguono attraverso il potenziamento, e la moltiplicazione, dei legami e delle connessioni tra i sistemi "naturali" esistenti all'interno e all'esterno della città. La riqualificazione del continuum verde della città verso il territorio periurbano, cui si collegherebbe la presenza di animali "graditi", porterebbe infatti a positive ricadute sulla popolazione, tra cui meritano d'essere ricordate alcune già verificate da numerose ricerche scientifiche.

Tra le altre:
Tutti i sistemi verdi, proporzionalmente a parametri di massa e di volume, sono efficaci elementi d'abbattimento di numerose forme d'inquinamento. Da anni si sa, ad esempio, che il "verde" agisce sulla qualità dell'aria intercettando il particolato e le polveri sospese, riducendo il contenuto di anidride carbonica, agendo da barriera frangivento e da barriera fonoassorbente. Per tale motivo molti studiosi sostengono che in assenza di un sistema verde ben sviluppato sia lecito attendersi un aumento delle patologie a carico del sistema respiratorio e delle alterazioni del sistema immunitario.

Sono altrettanto noti i benefici portati dal contatto col "verde" sulla crescita psicologica, sulla maturazione e sull'educazione dei giovani, ma anche degli adulti. Si sostiene che ciò sia legato ad un rinnovato senso di "appartenenza" alla natura, e questo gioca un ruolo determinante nella costruzione intellettiva, cioè nella capacità di potenziare le facoltà di immaginazione e di inventiva, l'abilità nel trovare soluzioni ai problemi, la proprietà nelle associazioni. È anche dimostrato che il "verde naturale" induce l'idea di "rifugio", che tutela dalle ansie e dalla frenesia della vita urbana.

Lo stimolo a realizzare investimenti alternativi e compatibili e che comprendono tutta una serie di occasioni d'impresa e occupazionali (impianto e manutenzione del verde, ingegneria naturalistica, attività sportive e ricreative, educazione ambientale, servizi turisticoricreativi e sociali complementari) che niente hanno ad invidiare agli storici schemi di sviluppo economico legati allo spazio fisico, che per altro oggi sempre più patiscono della limitatezza delle risorse e degli impatti ambientali, spesso irrecuperabili, che ne sono la diretta conseguenza.

Il riequilibrio dell'ecomosaico urbano, che porterebbe rapidamente a compensare l'impoverimento biocenotico, o di biodiversità, di cui oggi siamo tutti testimoni. Associato alla accresciuta presenza diffusa di cibo, ovvero di risorse energetiche distribuite nello spazio e nel tempo, il basso numero di specie con cui il "cittadino" ama dividere gli spazi urbani ha determinato l'involontaria pullulazione di molte specie poco gradite, come piccioni, storni, ratti, nutrie e tantissime altre ancora, grandi e piccole, spesso fortemente dannose per l'uomo. I modelli ecosistemici sviluppati e tarati per valutare le condizioni di equilibrio e di stabilità delle strutture ecologiche, portano a prevedere importanti potenzialità di rafforzamento dell'ecosistema urbano attraverso l'incremento della biodiversità, da cui il contenimento demografico delle popolazioni sinantrope.

E questo dovrebbe essere obiettivo d'ogni pianificazione urbanistica, cui l'applicazione dei metodi d'analisi e di progettazione delle reti ecologiche, a scala urbana, potrebbe fornire importanti strumenti operativi. Tuttavia, poiché di norma non è possibile ampliare, se non che in modestissima misura, l'area occupata da sistemi verdi provvisti di potenzialità di fruizione multipla, per sostenere le attese sociali verso i positivi servizi dei sistemi "naturali" ora indicati, pare percorribile solo la strada dell'incremento, per ripristino, ricostituzione o formazione ex novo, dei collegamenti verdi tra città e sistemi naturali contermini.

Ad esempio, come si sta prospettando per la città di Padova, ciò si può ottenere attraverso:
La valorizzazione della rete di fiumi e di canali mediante interventi di recupero e/o di ripristino dei sistemi ecologici nelle aree connesse.

Il recupero, il rimodellamento o, laddove possibile, la formazione di ulteriori aree verdi nel tessuto urbano.

La sistemazione della viabilità pedonale e di quella ciclabile con l'inserimento di strutture arboree, arbustive ed erbacee che non siano solo elementi estetici gradevoli e gratificanti per l'utente, ma che possano anche essere l'avvio ad un recupero ecosistemico capace di produrre vera omeostasi. Tali strutture meritano d'essere particolarmente curate nelle aree di confine tra il territorio urbano e quello periurbano, che hanno attitudine a diventare una nuova forma di ecotono tra urbs e ager, nell'accezione di Phylippe Duvigneaud.

Lo sviluppo di una ipotesi di "piano integrato dell'area metropolitana" che dia spazio al concetto di rete ecologica e investa risorse sull'obiettivo di mantenere, o di ricreare, i necessari equilibri tra uomo e natura. Anche in tale caso, come spesso succede quando si vuole intervenire sulla natura, pare fondamentale perseguire la più efficace integrazione disciplinare e professionale tra quanti operano nel campo della pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale, ovvero nel settore della progettazione degli interventi sulle strutture verdi non produttive presenti nelle aree urbane e nel territorio agricolo periurbano.

In particolare:
Vi dovrebbe essere integrazione di obiettivi già conosciuti da molti settori della pianificazione e della progettazione territoriale ed ambientale, che andrebbero coniugati in un disegno di potenziamento o di ricomposizione del residuo tessuto naturalistico del territorio intorno alle città e di quello presente nelle aree urbane. Si darebbe così pratica attuazione ad alcuni dei più recenti documenti d'indirizzo dell'Unione Europea, che sono tra l'altro motori di importanti finanziamenti comunitari.

Andrebbero comunque coinvolte differenti strutture amministrative e tecniche, ciascuna competente in specifici ambiti territoriali, quali Comuni, Province, Servizi agricoli regionali, Consorzi di Bonifica, ed altri soggetti ancora.

Andrebbero prodotti, per tutti questi soggetti, tarandoli sulle rispettive specifiche esigenze, strumenti tecnici utili a scegliere, tra diverse alternative di progetto e di intervento, quelle più efficaci nel coniugare la riqualificazione naturalistica del territorio e il miglioramento degli aspetti ambientali con altri fondamentali obiettivi di indole urbanistica, economica e sociale, quali la riqualificazione delle strutture insediative, la valorizzazione a fini multipli di aree che oggi paiono marginali, lo sviluppo di occasioni economiche a basso impatto ambientale per il comparto agricolo, la mitigazione di forme di inquinamento, l'educazione, la formazione e l'informazione ecologica, ed altri ancora.

Agli enti territoriali preposti alla pianificazione urbanisticoambientale del territorio verrebbe così fornito un contributo interdisciplinare di conoscenze, di metodo, di criteri e di indirizzi utilizzabili, in primo luogo, per l'aggiornamento in senso ecologico dei piani urbanistici a partire dai piani regolatori di livello comunale e sovracomunale. Si finirebbe con l'avviare un processo di pianificazione e di gestione urbanistica del territorio ecologicamente consapevole.

Con l'applicazione "urbanistica" del concetto di rete ecologica si verrebbero via via a identificare, a dimensionare, a recuperare e a potenziare le componenti ecosistemiche residue nelle aree urbane e periurbane. Da un lato dunque si qualifica o si può qualificare il tessuto urbanistico dei centri abitati o delle aree già destinate a questa funzione, mentre dall'altro lato si verrebbe a costituire il vero corredo "naturalistico" del territorio produttivo agricolo. In tal modo potranno anche essere adeguatamente individuate e valutate le funzioni multiple attribuibili al territorio aperto a scala metropolitana, avendo cura comunque di guardare in direzione dei settori naturalisticamente più di pregio a scala provinciale e regionale.

Nel caso dell'area urbana, il risultato atteso da un simile impegno culturale e tecnico diviene la riorganizzazione del "verde", qualora pertinente e possibile, o la sua organizzazione ex novo, in termini di localizzazione, di composizione, di assetti formali e di massa, tale da:

potenziarne le funzioni di connessione con il territorio extraurbano, in risposta agli obiettivi della rete ecologica valevoli a questa scala;

ottimizzarne, in tal senso, anche altre funzioni, come quelle urbanistiche di servizio e di riqualificazione urbana, attraverso il coordinamento degli interventi tra i diversi settori del verde urbano e gli altri servizi per la vita collettiva, come, ad esempio, quelle ricreative;·

conferirgli il significato di "itinerario" verso mete ecologicamente e ambientalmente gratificanti, anche per gli aspetti storici e culturali, o verso siti appositamente attrezzati per rispondere a fini ludici, educativi o di salutare impiego del tempo libero;

potenziarne le funzioni igieniche e ambientali, come elementi di mitigazione microclimatica, di abbattimento di alcuni inquinanti, di barriera antirumore ed altri ancora;· esaltarne la funzione paesaggistica, per favorire scelte di mobilità alternativa o la riconquista sociale di spazi altrimenti destinati al degrado;

riqualificare le aree agricole inurbate e compresse dalle periferie, conferendo loro nuovi signifi cati produttivi, ad esempio con particolari coltivazioni "biologiche" capaci di recuperare significati culturali propri di tradizioni rurali che la "gente" sempre più rimpiange.

E questi, ancora, dovrebbero rientrare tra gli obiettivi d'ogni pianificazione urbanistica.

* Università degli Studi di Padova
e Università degli Studi di Roma "La Sapienza"

 

Alcuni riferimenti bibliografici
CAMBRUZZI P., FIDUCCIA A., NOVELLI. L. (1999), WATERS VIEW (Visual Intelligent Early Warning): monitoraggio "real time" per l'ecosistema lagunare di Venezia. Paper presentato alla III Conferenza Nazionale ASITA, Napoli, 1999. DIMAGGIO C., GHIRINGHELLI R. (1999), Reti ecologiche in aree urbanizzate, Atti del Seminario, Milano, 5 febbraio 1999, Provincia di Milano - ANPA, Quaderni del piano per l'area metropolitana milanese n. 13. FARINA A. (1993), L'ecologia dei sistemi ambientali. Cleup Edizioni. Padova, pp.199. FORMAN R. T. T. (1995), Land Mosaics. The Ecology of Ladscapes and Regions. Cambridge University Press, Cambridge. GAMBINO (1994), Recupero e valorizzazione della rete fluviale e del verde pubblico interconnesso. Comune di Padova, non pubblicato. GUGGIONE M. (2000), Ecologia e pianificazione del verde in città. Paper presentato al Convegno "L'eco" della città, del lavoro e del turismo. Il contributo dell'Anpa per l'approccio ecologico nella pianificazione del territorio, Bologna - EUROPOLIS 2000, 3 febbraio 2000. INGEGNOLI V. (1993), Fondamenti di ecologia del paesaggio. Città Studi, Milano. MALCEVSCHI S. (1999), La rete ecologica della provincia di Milano, Provincia di Milano, Quaderni del piano per l'area metropolitana milanese n. 4. MALCEVSCHI S., BISOGNI L. G., GARIBOLDI A. (1996), Reti ecologiche ed interventi di miglioramento ambientale, Il Verde Editoriale, Milano, pp. 222. MARCHESINI R. (1997), Animali di città. Red Edizioni, pp. 243. RENIERO S., ROSSI C. E FERRONATO A. (1999), Monitoraggio delle reti ecologiche nel veneto: il sistema delle risorgive nella pianura compresa tra l'Astico ed il Brenta, ARPAV, in corso di stampa.

 


 

Natura 2000, l'Europa verde
Cesare Lasen*

Per chi si occupa di protezione di specie e di habitat naturali (botanici, zoologi, ecologi in prima linea), la Rete Natura 2000, uno dei programmi strategici dell'Unione Europea, rappresenta un riferimento essenziale per orientare le proprie attività di ricerca. Ma, al di là di aspetti inerenti soprattutto lo studio e la conoscenza (pur elementi di innegabile e intrinseca valenza), si vorrebbe tentare, in questo contributo che ha sollecitato la direzione della Rivista, una sintetica analisi di luci ed ombre che si sono già manifestate a livello applicativo o che, presumibilmente, si evidenzieranno in tutta la loro potenziale esplosività non appena si passerà dalla fase delle congetture e dei principi generali (sui quali, di norma, non è difficile concordare), oppure degli obiettivi strategici di mediolungo termine, alla fase dell'applicazione diretta sui territori, spesso fragili, già soggetti a vincoli, certamente condizionati da varie pressioni e, fatto certo non marginale, soggetti a proprietà privata. L'obiettivo di questo contributo non è certamente quello di evidenziare storture e incongruenze (del resto facili da individuare) ma di suggerire un percorso e dei possibili correttivi che favoriscano, nel nostro Paese, la realizzazione di un vero sistema di aree naturali protette, effettivamente interconnesse per formare quella "Rete Ecologica Nazionale" che non può restare una semplice e sia pur fascinosa meta virtuale, o un brillante esercizio di fantasia capace di produrre solo idee ed illusioni.

I SIC: sì, no, forse
Nella riunione convocata dal Servizio Conservazione Natura il 14 febbraio, va dato atto al Ministero, e in particolare al Direttore Generale Cosentino, di aver tentato una sintesi dei problemi supportata da adeguata distribuzione di documentazione alla quale è utile e necessario fare riferimento. In particolare il dossier Dire, supplemento al n. 302 del 28121999, fornisce i riferimenti essenziali sulle strategie dell'UE, sulle spesso richiamate direttive "Uccelli" e "Habitat", sullo stato di avanzamento dell'istituzione di SIC (Siti di Interesse Comunitario) e ZPS (Zone di Protezione Speciale), sul finanziamento del programma LIFE e sulla distribuzione, regione per regione, di queste "nuove" tipologie di aree protette. In realtà, nella discussione con i rappresentanti delle regioni, non sono emersi né problemi tecnici legati alle strategie sulla conservazione dell'ambiente, né valutazioni sull'efficacia della normativa o sui correttivi da apportare ai diversi elenchi; il nucleo della contesa Statoregioni è riconducibile, in modo pressoché esclusivo, ad un problema giuridico: l'immediata applicabilità della normativa europea sui proposti SIC (e, a maggior ragione, sulle ZPS). La posizione delle regioni, che richiedevano ulteriori atti formali per la convalida dei SIC proposti era opposta a quello del Ministero che sosteneva l'efficacia formale e la completezza di tutte le procedure. In sostanza gli elenchi trasmessi a Bruxelles, anche in attesa di una definitiva validazione in sede UE, erano da interpretare come volontà delle regioni di sottoporre a tutela le aree perimetrali. Alcune regioni (è il caso del Veneto, la situazione che meglio conosco) hanno deciso, successivamente all'invio degli elenchi (che il Ministero, senza esercitare alcun filtro per rispettare la volontà della periferia, ha poi trasmesso a Bruxelles) di riconoscere soltanto quelle aree che già rientravano in zone protette (parchi e riserve). Evidentemente il timore di nuovi vincoli è più forte della volontà di progettare un percorso di interventi sostenibili in aree ad elevata valenza naturalistica. Nel corso della discussione, si è stati informati, direttamente dal DG Cosentino, che l'UE ha già avviato procedure di infrazione per interventi considerati incompatibili in aree proposte quali SIC e ZPS.

Le luci ...
La filosofia strategica che ha ispirato il programma è largamente condivisibile. La pressione antropica e le profonde trasformazioni degli ultimi decenni imponevano nuove misure a tutela dei livelli di biodiversità, in evidente declino. È notorio che il numero delle specie minacciate o vulnerabili (se non proprio in serio pericolo di estinzione) è molto elevato, in particolare tra i vertebrati, ma anche tra le piante si considerano a rischio, più o meno elevato, circa 3.000 angiosperme sulle 10.000 presenti nei territori UE. Nei singoli paesi sono stati avviati censimenti che hanno prodotto un sensibile miglioramento delle conoscenze a prescindere da situazioni locali e distorsioni che, inevitabilmente, pesano poi sulla qualità del lavoro svolto. Sono state mobilitate risorse finanziarie e umane che hanno certamente contribuito alla crescita dei valori ambientali e alla maggiore consapevolezza dei nostri limiti nella gestione delle risorse naturali. In Italia sono state identificate numerose aree che, integrandosi con il Progetto "Carta della Natura" dovrebbero contribuire finalmente a organizzare un quadro d'insieme attendibile e rappresentare quindi i capisaldi della costruenda Rete Ecologica Nazionale. È risaputo che per la sopravvivenza di specie e habitat in ambiti a diffusa naturalità, sono necessarie estensioni che i i singoli parchi (e tanto meno le riserve) non possiedono. Sommando gli attuali parchi e riserve, con SIC, ZPS, oasi ed altre zone a qualsiasi titolo già vincolate, si potrebbero, finalmente, individuare le possibile aree di collegamento (corridoi ecologici), necessarie per rendere meno vulnerabile il sistema, ancora molto fragile. Nel caso si ipotizzi attualmente una severa e rigorosa applicazione delle norme di tutela, esse avrebbero una limitata efficacia in quanto molte specie animali non rispettano certamente i confini amministrativi. L'esigenza di una protezione diffusa sul territorio (necessaria per una corretta gestione, che non significa solo tutela passiva) va concepita superando l'idea di un area protetta in cui tutto è vietato e al cui esterno tutto è concesso. Sfortunatamente le aree protette (nonostante i numerosissimi esempi che lo possono smentire) sono ancor oggi considerate quali dispensatrici di nuovi vincoli e ostacolo al progresso. Superata una fase in cui poteva essere importante puntare al numero e alla visibilità dei parchi, l'attenzione va oggi posta sulle politiche ambientali più generali e, in tal senso, l'idea della Rete Ecologica Nazionale è stata concepita. Le aree protette devono essere punti di eccellenza ma devono poter guardare oltre i propri confini. Rete Natura 2000 garantisce inoltre importanti risorse finanziarie, anche per interventi di gestione attiva. Nei fondi strutturali 20002006 dovrebbero emergere chiaramente priorità per interventi di conservazione e riqualificazione nelle aree già identificate quali SIC e ZPS. Le regioni, inoltre, dovrebbero prevedere, anche in prospettiva e in attesa di una definitiva validazione dei siti, dei piani di gestione per le singole aree. Ciò significa, indipendentemente da conflitti di competenze (si ricordino, a tal proposito, le obiezioni sollevate dalle province autonome, regolarmente respinte), che si può avviare una interessante fase di lavoro, capace di mobilitare risorse e di analizzare il territorio, recuperando conoscenze necessarie e indispensabili per una sua più efficace gestione. Il fatto che per qualsiasi intervento da attuarsi in zone SIC o ZPS sia prevista una valutazione d'incidenza (che qualche funzionario regionale ha proposto, per semplicità amministrativa, di assimilare alla VIA), rappresenta un salto di qualità e offre qualche ulteriore garanzia sull'efficacia delle norme di protezione ambientale. Non ultimo, è infine determinante che le politiche inerenti la gestione degli habitat naturali o prossimonaturali rientrino a pieno titolo negli obiettivi fondamentali dello sviluppo e non siano relegati al margine, quale nicchia specializzata che deve essere tollerata per esigenze etiche o di pura immagine.

... ed alcune ombre
Avendo portato, sia pure marginalmente, un contributo tecnico alla fase di individuazione dei SIC della regione Veneto, ed avendo comunque potuto seguire gli sviluppi a livello nazionale, si ritiene che, fermi restando lo spirito delle direttive e la strategia complessiva, debbano essere apportate sostanziali modifiche tecniche al regolamento di attuazione (che comunque va rivisto per motivi giuridici).

Gli elenchi degli habitat prioritari.
Come già richiamato in un precedente articolo sulla classificazione delle aree protette, è necessaria una loro ridefinizione ed integrazione, sia a livello quantitativo (incomprensibili, per limitarsi a comunità forestali di larga diffusione, le assenze di ornoostrieti o di abieteti) che nell'individuazione delle priorità. È altamente discutibile che ambienti assai diffusi quali gli arbusteti di pino mugo e rododendro irsuto nelle Dolomiti e Alpi calcaree siano considerati habitat prioritari, a differenza di foreste di abete bianco ignorate. L'Austria, il cui ingresso in UE è avvenuto successivamente, ha potuto elaborare e proporre una lista attendibile che consente una classificazione tipologica degli habitat presenti in un sito, senza dover ricorrere ad artifizi spesso improbabili. La rigidità di questo schema ha già comportato serie difficoltà nella compilazione delle schede Bioitaly.

Gli elenchi delle specie protette.
Anche in questo caso, fermi restando i principi generali, si dovrebbero prevedere correttivi in modo da tener conto e valorizzare le situazioni a livello locale. Può essere, ad esempio, che una specie non venga considerata a rischio a livello comunitario in quanto relativamente diffusa in una certa area. Ciò non significa che tale specie non sia meritevole di tutela in assoluto in quanto potrebbe presentare lacune, disgiunzioni di areale o essere al limite dell'areale stesso in altre zone. In tal caso la specie va considerata vulnerabile e merita quindi di essere inserita in elenchi a valenza locale. È infatti opportuno prevedere esplicitamente la possibilità di una differenziazione su base locale (non più estesa di provinciale). In tal senso è già orientato il lavoro di un gruppo di studio che coordinato da Aeschimann (Ginevra) sta predisponendo una banca dati della flora alpina. In alcune regioni i SIC sono stati individuati più sulla base di presunte valenze paesaggistiche generali, talvolta sulla scia di scelte amministrative derivanti da precedenti documenti di pianificazione che di effettive valenze a livello biologiconaturalistico. Nel Veneto, ad esempio, sono state identificate quali SIC, estese aree montane di indubbio fascino paesaggistico (es. Marmolada) ma di non altrettanta valenza biologica, solo per il fatto che tali aree erano già incluse nel PTRC. È quindi essenziale che si evitino meccanismi trop po rigidi per consentire nel tempo revisioni, verifiche, integrazioni, aggiornamenti, soppressioni.
Per raggiungere lo scopo non appare sufficiente affidarsi in modo acritico alle amministrazioni regionali e, in taluni casi, neppure alle istituzioni universitarie presenti sul territorio che non sempre coprono adeguatamente tutti i settori. Ancora una volta sarebbe opportuno riuscire a far emergere le competenze esistenti a livello locale e, in tal senso, alcuni parchi (se non tutti) possono svolgere un lavoro più che egregio. Un esempio recente può essere considerato sintomatico di quanto lavoro esista ancora da svolgere. Botrichium simplex, minuscola pteridofita, è specie rarissima inclusa nell'allegato 2 della direttiva UE 92/43. Vi è un'unica segnalazione certa per l'Italia, in Val Giumella (Trento). Non risulta che l'area sia inclusa nell'elenco dei proposti SIC e proprio nel suo unico ambiente di crescita la provincia autonoma intende autorizzare, contro lo stesso parere della Commissione VIA, la costruzione di una pista da sci. Il concetto è questo: se l'elenco dei SIC viene affidato in toto alle autonomie locali, esse potrebbero avere interesse a segnalare o identificare solo i siti che creano meno problemi di natura politica e sociale, senza tener conto della validità scientifica. Detto per inciso, il problema è stato segnalato sia al SCN che alle associazioni ambientaliste e si spera che vi si possa rimediare. L'affidamento a regioni e province autonome dell'intera fase gestionale ed operativa è indubbiamente una scelta politicamente comprensibile, forse anche giusta e opportuna. Ciò dovrebbe avvenire, tuttavia, nell'ambito di un quadro di riferimento generale che contempli il preciso rispetto di alcune regole. Scorrendo semplicemente l'elenco di SIC e ZPS si evince chiaramente come le diverse autorità regionali abbiano interpretato le direttive europee in modi molto dissimili, talora del tutto opposti. Nel caso il Ministero non riesca a svolgere un opportuno filtro e coordinamento, l'intero sistema diventa fragile e poco credibile e, di conseguenza, anche di scarsa utilità per realizzare un efficace protezione ambientale delle aree più interessanti e vulnerabili. Si sa che è più facile proteggere vaste zone rocciose di alta quota che non prati, torbiere o ambiti fluviali. Se, dunque, l'obiettivo è quello di far convergere i preziosissimi dati di Natura 2000 (che non osia mo considerare disgiunti ed avulsi da quelli ottenuti con il Progetto Carta della Natura) nella costruzione della Rete Ecologica Nazionale, è necessario conoscere sia le grandi potenzialità che gli oggettivi limiti dei dati di ingresso, al fine di evitare di alimentare un sistema già in sé piuttosto caotico e disordinato al punto che già ora si imporrebbe una seria revisione gerarchica che non può non partire da un progetto più organico di riclassificazione delle aree naturali protette. È un problema che implica sicuramente coraggio e di complessa soluzione ma che non può essere semplicemente rinviato ritenendo che non esista.

Il ruolo dei parchi
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, cosa c'entrino le attuali aree protette con un progetto che le ha viste sempre, nella migliore delle ipotesi, al margine. Si ritiene che sia stato un errore non coinvolgerle fin dall'inizio (e, più che ai nuovi parchi nazionali a quel tempo alle prese con situazioni di organico e di operatività assai limitanti, si pensava ai numerosi e spesso già attivi parchi regionali). Ora, se si ritiene che il comunque prezioso lavoro avviato con Natura 2000, debba emergere, si è ancora in tempo per attingere al contributo di conoscenze certamente reperibile presso gli enti di gestione delle aree protette. La possibilità di operare su scala locale e comprensoriale (in alcuni parchi sono, inoltre, coinvolte realtà provinciali e regionali diverse) consente a tali unità di riconoscere i più significativi ambiti di naturalità diffusa esterni al proprio perimetro. Non si tratta solo di acritica raccolta di documentazione scientifica ma di una serie di valutazioni che coinvolgono la sfera delle complesse relazioni nel frattempo instaurate con i diversi soggetti. Del resto gli stessi fini istituzionali prevedono un loro ruolo attivo nei processi di formazione, informazione, divulgazione. I parchi, in sostanza, o già lo sono o comunque dovrebbero diventarlo, degli essenziali riferimenti culturali per la gestione del territorio; un compito che va ben oltre gli angusti orizzonti strettamente amministrativi nei quali alcune componenti politiche vorrebbero confinarli. Basti pensare alle conseguenze dirette di politiche territoriali inerenti i trasporti, il turismo, l'energia, ecc. Un parco chiuso in sé stesso (ridotto a un surrogato di APT con patina verde) non avrebbe alcuna possibilità di estendere la sua influenza all'esterno e diventerebbe quindi molto vulnerabile. Nelle Dolomiti Bellunesi, ad esempio, l'esistenza di un parco nazionale ha certo contribuito a frenare e scongiurare un insediamento di centrale termoelettrica e di una fonderia di alluminio in due dei 15 comuni del parco. Ma è chiaro che il contributo di un parco non può limitarsi ad azioni di pura resistenza passiva e che diventa necessaria poter partecipare, a pieno titolo, alle politiche di concertazione degli interventi strategici e strutturali. La fragilità di un ente gestore costretto a pensare esclusivamente all'interno del proprio perimetro, emerge con drammaticità in vari casi in cui è il parco a pagare le conseguenze di interventi sul territorio dissennati o di incidenti ambientali (un esempio di vasta portata è l'inquinamento da metalli pesanti derivanti da una miniera che opera ai margini del parco nazionale andaluso di Coto Doñana. I parchi pensati come isole di eccellenza che devono rendersi autosufficienti e salvare da un lato l'immagine di un paese o di una regione e, dall'altro, reperire risorse grazie alla promozione turistica, rappresentano una concezione superata, pericolosa e molto limitativa delle loro potenzialità. È invece necessaria una buona conoscenza del territorio limitrofo e dell'intero bacino su cui gravita l'area protetta per poter incidere sulle linee complessive di sviluppo (patti territoriali, accordi di programma). Con tali presupposti gli enti parco non possono essere considerati soggetti avulsi rispetto al contesto in cui si è sviluppato il progetto Natura 2000. La Rete Natura 2000 offre dunque una base strategica e decisiva per delineare i futuri assetti territoriali nei paesi dell'UE. Le politiche di conservazione e tutela non devono essere relegate a nicchia marginale in cui, per opportune compensazioni, si lascia spazio a una ridotta schiera di esperti. Del resto anche i diversi protocolli della Convenzione per la Protezione delle Alpi sono permeati da orientamenti che evidenziano la centralità della questione ambientale. Anche nei diversi piani di parco e piani pluriennali economici e sociali che diversi enti gestori hanno in fase più o meno avanzata di redazione, sono stati spesso già individuati biotopi esterni di elevata valenza naturalistica che, necessariamente, non si possono ritenere estranei alle scelte che il parco promuoverà.

La necessità di un raccordo
Rete Natura 2000, pur con i limiti evidenziati, che devono essere considerati per evitare il ripetersi di errori (alcuni dei quali sono sopra richiamati), ha avviato anche in Italia nuove linee ed approcci di politica ambientale. Nel settore non è difficile prevedere la disponibilità di interessanti risorse, destinate anche a qualificare la formazione e quindi a creare opportunità di lavoro per diversi soggetti. Restano purtroppo da chiarire le effettive volontà politiche di realizzare compiutamente il programma e rispettare le direttive europee. C'è il rischio che, ancora una volta, prevalga il timore del vincolo e che, quindi, sotto la spinta di forze produttive abituate a valutare solo i profitti immediati, si propongano piani di gestione troppo ambigui e permissivi al punto da snaturare gli stessi principi della conservazione. Rischio analogo e in parte opposto è quello di puntare su una rigida e burocratica applicazione di norme e regolamenti, ignorando le esigenze di dialogo e l'esistenza di situazioni oggettivamente molto variegate e difficilmente riconducibili a schemi unitari. È anche possibile, che navigando sul filo dell'incertezza e dei cavilli interpretativi, ci sia ancora spazio per fantasiosi compromessi in cui gli aspetti tecnici assumono il ruolo di semplici strumenti per giustificare scelte che sono state in realtà fondate su ben differenti motivazioni. Ci si chiede, quindi, in quale misura i dati scaturiti da Natura 2000, rappresenteranno la base per la costruzione della Rete Ecologica Nazionale. Il risultato potrebbe anche essere soddisfacente nel caso che ogni componente svolga con trasparenza e competenza il proprio ruolo. I politici dovrebbero convincersi che la tutela della Natura non è solo una moda ma un preciso dovere etico (che potrebbe anche diventare utile investimento ma non deve essere questo l'obiettivo primario). Le amministrazioni regionali e locali possono mobilitare le proprie migliori energie per garantire un equilibrato assetto del territorio. Ricercatori e accademici devono puntare a svolgere il proprio compito, con metodo e passione senza lasciarsi fuorviare e tentare da strumentalizzazioni e convenienze. Il Ministero, non ultimo, potrebbe coordinare questo complesso lavoro (del resto appena iniziato) esercitando anche una necessa ria azione di filtro e controllo destinata a qualificarsi e potenziarsi con il procedere delle riforme, istituzionali e amministrative, in senso federalista. Per i parchi e i loro enti di gestione, un impegno in Natura 2000 è l'occasione propizia per dimostrare nei fatti che il loro ruolo non è riconducibile alla sola mediazione politica o a una rivendicazione asettica di ruoli e competenze ma che essi sono in grado di esprimere con efficacia professionalità e rappresentano un laboratorio di idee che può contribuire alla costruzione di quella "Rete", un vero sistema in cui Natura 2000 deve essere il pilastro portante fondato su motivazioni tecnicoscientifiche. La Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali, conscia di poter rappresentare sia le realtà nazionali che regionali e locali, è fin d'ora disponibile a seguire, sollecitare, stimolare, anche con propri contributi ed elaborazioni, l'evolversi di una situazione che, nell'ottica europea, è destinata a incidere in modo sostanziale e potenzialmente interessantissimo, su tutte le politiche territoriali e non solo sulle aree protette.

* Coordinatore Segreteria tecnica Federparchi

 


 

La rete ecologica nel quadro delle azioni del programma per i fondi strutturali 20002006
Marco Agliata e Vincenzo Cingolani *

La crescita delle aree naturali protette: opportunità e problemi

Nelle politiche di conservazione e gestione del patrimonio naturale ed ambientale diviene sempre più importante valutare le tematiche di interesse globale che investono i processi delle relazioni ambientali e territoriali. A tale riguardo la comunità internazionale ha focalizzato l'attenzione su alcuni principi fondamentali e irrinunciabili:

- le risorse del globo sono limitate ed è quindi necessario legare le attività dell'uomo ad uno sviluppo sostenibile;

- la conservazione della natura non va limitata alla protezione diretta della specie o del sito, ma passa attraverso politiche più generali di controllo e di indirizzo delle attività umane settoriali;

- la complessità, vastità e dinamicità dei processi di degrado in atto impone di attuare normative e politiche condivise e coordinate;

- la necessità di operare all'interno di uno scenario che prevede il rispetto della sussidiarietà e la cooperazione (Agenda 21).

 

La politica ambientale deve abbandonare il carattere di episodicità e di settorialità per essere concepita come componente integrante delle altre politiche economiche e settoriali. Uno dei temi prioritari individuati dalla Unione Europea è rappresentato dalla necessità di definire azioni che perseguano la formazione di una "Rete ecologica" ove si operi per la valorizzazione e lo sviluppo di tutti gli ambiti caratterizzati dalla presenza di valori naturali e culturali al fine di tutelare i livelli di biodiversità esistenti e la qualità dell'ambiente nel suo complesso. Il ruolo della Rete ecologica è particolarmente significativo sia nei sistemi montani e collinari del nostro Paese, storicamente modellati dall'azione antropica, oggi in fase di grave declino e abbandono, sia nei sistemi costieri, ove si è maggiormente concentrata la pressione antropica, gli insediamenti urbani e lo sfruttamento delle risor se, perseguendo il recupero delle specificità naturali delle comunità e degli ecosistemi marini, costieri e terrestri. La Rete ecologica si configura, pertanto, come una infrastruttura naturale e ambientale che persegue il fine di interrelazionare e di connettere ambiti territoriali dotati di una maggiore presenza di naturalità, ove migliore è stato ed è il grado di integrazione delle comunità locali con i processi naturali, recuperando e ricucendo tutti quegli ambienti relitti e dispersi nel territorio che hanno mantenuto viva una, seppure residua, struttura originaria.

La struttura della rete
Per la formazione della Rete ecologica nazionale i parchi e le riserve sia terrestri sia marine assumono il ruolo di nodi, interconnessi tra di loro e con le aree di rilevante interesse naturalistico (core areas), da corridoi ecologici (green ways/blue ways) a cui si frappongono zone cuscinetto o di transizione (buffer zones) in modo tale da costruire una vera e propria "infrastruttura ambientale" estesa all'intero territorio.

Le aree centrali (core areas):
coincidenti con aree già sottoposte o da sottoporre a tutela, ove sono presenti biotopi, habitat naturali e seminaturali, ecosistemi di terra e di mare che caratterizzano l'alto contenuto di naturalità.

Le zone cuscinetto (buffer zones):
rappresentano le zone contigue e le fasce di rispetto adiacenti alle aree centrali, costituiscono il nesso fra la società e la natura, ove è necessario attuare una politica di corretta gestione dei fattori abiotici e biotici e di quelli connessi con l'attività antropica.

I corridoi di connessione (green ways / blue ways):
strutture di paesaggio preposte al mantenimento e recupero delle connessioni tra ecosistemi e biotopi, finalizzati a supportare lo stato ottimale della conservazione delle specie e degli habitat presenti nelle aree ad alto valore naturalistico, favorendone la dispersione e garantendo lo svolgersi delle relazioni dinamiche, come ad esempio fra gli ecosistemi delle sorgenti fluviali e quelli lagunari e marini. In particolare i corridoi assolvono il ruolo di connettere le aree di valore naturale localizzate in ambiti terrestri e marini a forte antropizzazione (aree rurali e urbane, aree fluviali che attraversano i sistemi urbani, fasce costiere, complessi lagunari, aree marine di collegamento tra le piccole isole, paesaggi collinari e vallivi, parchi urbani di valore naturalistico e storico culturale).

I nodi (key areas):
si caratterizzano come luoghi complessi di interrelazione, al cui interno si confrontano le zone, centrali e di filtro, con i corridoi e i sistemi di servizi territoriali con essi connessi. I Parchi per le loro caratteristiche territoriali e funzionali si propongono come nodi potenziali del sistema.
Nelle aree appartenenti alla Rete si determina un forte intreccio tra finalità della conservazione e esigenze di sviluppo, interessando territori ove insistono condizioni di criticità che, in funzione della collocazione geografica e del ruolo territoriale delle diverse aree, si possono inquadrare all'interno di due famiglie di motivazioni: marginalità o sottoutilizzo, uso conflittuale o sovrautilizzo. Tali categorie vengono utilizzate come momento sintetico di interpretazione delle dinamiche territoriali, al fine di poter costruire un sistema di obiettivi finalizzato alla continuità degli ambiti naturali, anche in considerazione delle condizioni socioeconomiche locali, per la costruzione di sistemi integrati territoriali.

Sottoutilizzo:
considerando la non utilizzazione delle risorse come l'atteggiamento, in numerosi casi, più adeguato da tenere dove si riscontrano situazioni ambientali di "naturalità", in cui la presenza di un patrimonio ambientale di pregio (naturalistico, paesaggistico e culturale) non contribuisce al mantenimento e alla crescita qualitativa delle comunità locali, subendo processi di degrado delle risorse naturali per la mancata idonea gestione e manutenzione delle stesse, ove l'esigenza della conservazione delle risorse può essere occasione dello sviluppo socio economico compatibile e duraturo delle comunità locali.

Sovrautilizzo:
si fa riferimento a situazioni territoriali in cui il patrimonio ambientale presente è frazionato e sottoposto ad un eccesso d'uso e/o ad una gestione conflittuale, in tali situazioni vengono minacciate le possibilità di mantenersi delle risorse, innescandosi processi di degrado che possono condurre alla loro perdita definitiva. L'esigenza della conservazione richiede in queste situazioni territoriali critiche la regolazione degli usi, orientando i processi di sviluppo verso forme stabili e compatibili favorendo il recupero dei sistemi e delle risorse compromesse.
Diviene necessario, a questo punto, delineare strategie che agiscono per obiettivi specifici direttamente calati sulle problematiche presenti nel territorio delle singole regioni, senza trascurare una visione complessiva per il territorio relazionandosi con alcuni principi di base che si possono, in prima istanza, così sintetizzare:

- articolazione dello sviluppo economico e ambientale su una struttura territoriale definita ed equilibrata, capace di acquisire un ruolo nella nuova dimensione europea, mantenendo la diversità delle identità regionali;

- lo sviluppo economico deve procedere avvalendosi di una gestione adeguata del patrimonio culturale e naturale.
Le politiche di programmazione territoriale debbono perseguire strategie di: PROTEZIONE; difendere, ristabilire e collegare in una rete equilibrata le risorse;

SVILUPPO - ristrutturazione e rafforzamento delle aree deboli;

EQUILIBRIO - allineare le condizioni di vita e di lavoro tra zone di livello diverso.

Tali strategie per essere efficaci devono coinvolgere le diverse realtà regionali del centro nord con quelle dell'obiettivo 1, conferendo alla Rete ecologica un valore strategico innovativo. In tal senso il metodo fondamentale è l'avvio di forme di programmazione e pianificazione del territorio integrate per aree legate alla specificità degli ambiti e delle comunità locali con la creazione di competenze, alla diffusione di conoscenze e al rafforzamento di capacità di progetto, legate alle specificità delle singole situazioni e operanti in una visione integrata e di sistema.

Ambiti territoriali marginali con condizioni di sottoutilizzazione delle risorse Gli ambiti territoriali marginali, trascurati dall'epoca del grande sviluppo industriale hanno subito un forte degrado dell'originaria economia agricola montana, in essi permangono siti che hanno preservato le risorse e i valori mantenendo una loro integrità. Questi luoghi hanno subito un rallentamento della crescita economica, con la mancata distruzione del proprio patrimonio locale in termini di risorse naturali e culturali, così che, il limite rappresentato dalla loro marginalità, potrebbe oggi divenire l'opportunità per una crescita in termini di sviluppo compatibile con le peculiarità dei luoghi e delle comunità locali. L'esigenza principale è rappresentata dalla acquisizione da parte delle comunità locali della capacità di utilizzare in modo ottimale e congruente il patrimonio costituito dalle risorse naturali e culturali.

I fabbisogni si articolano nella:
- conservazione delle risorse naturali, conoscenza del patrimonio e classificazione degli elementi naturali, storico culturali, delle tradizioni e delle produzioni tipiche locali;
- recupero e mantenimento dei beni al fine della stabilità e durata degli stessi;
- organizzazione della fruizione dei beni, creando le condizioni per il loro godimento, rendendoli accessibili e diffondendone la conoscenza attivando collegamenti di rete;
- valorizzare le risorse plurifunzionali dell'azienda agricola per il miglioramento e la manutenzione ambientale, per l'agriturismo e in funzione dei servizi didattici e museali;
- soddisfacimento delle esigenze di servizi, a favore delle comunità locali (reti tecnologiche, scuole, centri sanitari), e adeguamento di quelli necessari per sostenere la fruizione e l'ospitalità, contenendo e regolando i carichi e le concentrazioni di tipo stagionale
- monitoraggio dell'evoluzione, della dinamica delle risorse e del sistema territoriale nel suo complesso, anche per orientare l'offerta di beni e servizi;
- esigenza di raggiungere un adeguato e capillare sistema di approvvigionamento energetico.

 

Ambiti territoriali con condizioni di sovrautilizzazione delle risorse
Nelle aree ove si è sviluppato un elevato livello di crescita degli insediamenti umani, insistono ambiti e elementi dotati di una forte valenza na turalistica e ambientale in genere, spesso sono ambiti relitti di configurazioni originarie o luoghi dove storicamente le stratificazioni delle relazioni tra natura e cultura hanno prodotto singolarità ad alto valore rappresentativo e documentale. Prevalentemente si ritrovano negli ambiti rurali e periurbani, lungo i sistemi fluviali e le fasce costiere occupando territori contraddistinti da particolarità morfologiche. In tali ambiti l'esigenza primaria è quella di regolare e orientare la forte pressione antropica, gestendo i conflitti derivanti dalle nuove tendenze di trasformazione e uso del suolo.

I fabbisogni si articolano nella:
- formazione e gestione di una rete per l'integrazione delle risorse naturali frammentate e disperse nel territorio, che operi la classificazione per la divulgazione delle articolate forme dei valori ambientali presenti;
- diversificazione e diffusione nei modi, nei tempi e nelle forme del godimento dei beni naturali e culturali, articolandole quanto più possibile, per conservare le risorse e sostenere l'economie locali;
- riqualificazione e manutenzione dei siti;
- innalzamento delle capacità progettuali per le attività e i servizi, attraverso la sensibilizzazione e il coinvolgimento degli operatori locali, con particolare attenzione alle attività complementari (agricoltura, pesca e servizi ambientali, sociali e di ospitalità);
- integrazione all'utilizzo delle normative comunitarie destinate alla politica agroambientale;
- adeguamento delle strutture e delle dotazioni di servizi primari alle funzioni svolte dai vari ambiti, collegando la realizzazione alla gestione in un ottica sinergica e di tipo integrato;
- mobilitazione delle associazioni e delle organizzazioni del terzo settore per l'aggregazione e la selezione dei bisogni sociali su cui operare.

Le due situazioni descritte rappresentano casi separati appartenenti alla Rete ecologica tra cui si collocano una serie di situazioni intermedie che contemplano al loro interno fabbisogni sia dell'uno che dell'altro caso:
- assistenza e sostegno alla progettualità e al management orientati alla progettazione integrata per settori e per sistemi territoriali, alla gestione coordinata e condivisa, ricercando la semplificazione e l'agevolazione dei processi decisionali e delle prassi attuative, sperimentazione di modelli e di esperienze pilota;
- formazione delle competenze professionali specifiche da orientare in funzione dei luoghi e delle risorse, nuove professionalità, riqualificazione delle esistenti;
- sostegno nei diversi campi e settori alla creazione di forme articolate di nuove imprese e alla riconversione di quelle esistenti (con attenzione al noprofit);
- integrazione e rafforzamento delle relazioni interne ed esterne per il coordinamento e la promozione dell'offerta, informazione, promozione e diffusione dei beni e dei servizi offerti;
- coordinamento e monitoraggio delle azioni e delle esperienze, omogeneizzazione e integrazione delle informazioni, curandone l'accessibilità e l'interscambiabilità.

La fase di programmazione comunitaria e quella attuativa dei Fondi Strutturali 20002006
L'ampiezza dei consensi ricevuti dal documento di sintesi redatto dal tavolo della "Rete ecologica nazionale" ha contribuito al rafforzamento della tematica ambientale sia in sede comunitaria che nazionale; tale condizione ha portato ad una forte presenza di questo settore nelle politiche di programmazione evidenziando il ruolo strategico della valorizzazione delle risorse ambientali nelle politiche di sviluppo. Nel prossimo Quadro Comunitario di Sostegno 20002006, di prossima pubblicazione, la tematica ambientale ha acquisito un importante ruolo sia in termini di indirizzo degli interventi anche negli altri settori, che in relazione all'esistenza di un programma come la Rete ecologica nazionale. A tale proposito è utile ricordare che il patrimonio comune che si è creato, nei mesi di redazione del primo documento, è ulteriormente confluito, sotto forma di linee guida, verso le Regioni durante la preparazione dei Programmi Operativi Regionali (il livello regionale di programmazione del QCS 20002006); nell'ambito dei programmi allo stato più avanzato di completamento (quelli delle regioni dell'obiettivo 1) la Rete ecologica ha assunto un'importante funzione di organizzazione delle politiche di intervento non soltanto nelle aree naturali protette ma anche in tutti gli ambiti con elevati livelli di naturalità. È stato, pertanto, possibile tradurre quel livello di consenso costruito durante la fase di indirizzo della programmazione dei Fondi Strutturali con le Amministrazioni centrali, regionali e provinciali, con i rappresentanti delle Associazioni di categoria, degli industriali, artigiani, agricoltori, delle centrali cooperative, degli Enti Parco, con le rappresentanze sindacali, in una serie di contributi e di indirizzi che hanno potuto avviare, anche localmente, la costruzione di nuovi modelli di sviluppo in grado di conservare e valorizzare gli ambiti naturali. Dopo la definizione del Quadro Comunitario di Sostegno verranno approvati, nei mesi successivi, i Programmi Operativi Regionali delle aree obiettivo 1 e 2 che dovranno essere completati dalla definizione e relativa approvazione dei Complementi di Programmazione che costituiscono l'individuazione progettuale delle azioni programmatiche definite con i documenti già descritti. Sulla base delle necessarie valutazioni temporali sulla preparazione dei documenti indicati è possibile ipotizzare un avvio della fase realizzativa degli interventi entro la fine dell'anno, in una condizione di lieve ritardo rispetto al corretto svolgimento del Quadro Comunitario anche in considerazione del fatto che la stessa Comunità europea ha già considerato ammissibili gli impegni di spesa a partire dal mese di ottobre 1999. La mancata definizione di un Programma Operativo Nazionale per la Rete ecologica, la cui approvazione era resa attuabile dal consenso già descritto e costruito in fase di redazione del documento iniziale e dalle richieste di forte trasversalità della tematica ambientale avanzate dalla Comunità europea, non consentirà l'attuazione di una serie di programmi di livello nazionale per la realizzazione di alcuni interventi e attività di supporto alle azioni regionali. Questa carenza potrà essere attenuata da una forte azione di sostegno alle singole Regioni (PON assistenza tecnica del Ministero del tesorobilancio) e dall'avvio di interventi legati alle politiche di sistema (legge 426/98) da realizzare attraverso accordi di programma con soggetti pubblici e privati.

Questa sintesi essenziale dei passaggi necessari al completamento della fase di programmazione degli interventi per poi passare a quella esecutiva delle opere del Quadro Comunitario di Sostegno 20002006 pone in evidenza, ancora una volta, l'importanza di alcuni passaggi irrinunciabili per la corretta attuazione degli interventi:

- forte relazione tra gli interventi proposti e i fabbisogni delle comunità locali;

- creazione di un serbatoio di progetti integrati (all'interno dei quali sia possibile costruire una serie di ricadute finalizzate allo sviluppo di tutti gli ambiti di intervento);

- incisivo impulso ai progetti di sistema (di livello nazionale e interregionale) per l'attuazione dei grandi interventi di rete (Alpi, APE, Isole minori, Coste) per la realizzazione di opere e attività diffuse sul territorio;

- iter progettuali e autorizzativi governati con strumenti e procedure adeguate;

- utilizzo del monitoraggio come strumento di verifica e supporto delle azioni avviate; - introduzione delle modalità di progettazione della gestione e della formazione professionale e della riqualificazione finalizzate alla piena realizzazione delle attività previste negli interventi realizzati.

La rete ecologica come infrastruttura naturale e la programmazione delle azioni sul territorio
Perseguire la conservazione del patrimonio naturale e paesistico attraverso il recupero e il restauro ambientale e la valorizzazione di forme di aggregazione sociale per il mantenimento della identità locale, che sappiano ben commisurarsi con l'insorgente dimensione globale del sapere e del vivere avviando forme di sviluppo sostenibile in aree di elevato valore ambientale, si configura come il momento fondamentale per la formazione del nuovo assetto del territorio, creando scenari compatibili di uso e di trasformazione del territorio e delle sue risorse. Si tratta di avviare un processo che stabilisca un rapporto di congruenza fra valori, problemi e obiettivi degli ambiti territoriali con i bisogni e i desideri delle comunità locali, inserendoli in un più ampio scenario di sviluppo sociale, culturale ed economico, attraverso l'uso del sapere tecnico e scientifico, dei nuovi mezzi di comunicazione e il recupero delle immagini e delle forme del "genius loci". L'obiettivo fondamentale da conseguire, con particolare riferimento alle regioni del Mezzogiorno, è l'avvio di azioni complesse all'interno dei "Progetti integrati d'area" per la realizzazione di modelli locali di sviluppo compatibile e durevole. I Progetti integrati d'area rappresentano gli ambiti territoriali omogenei, di livello interregionale, subregionale e provinciale, ove poter attuare la programmazione e la pianificazione delle azioni in forma coordinata al fine di ottenere l'adeguamento strutturale del territorio e l'avvio di forme di sviluppo sostenibili, con il coinvolgimento e il sostegno delle comunità locali, passando per la mobilitazione di interessi favorevoli alla cura e al miglioramento della qualità ambientale, legata alla politica del lavoro e della crescita sociale. Il patrimonio naturalistico e culturale in questa ottica diviene una risorsa potenzialmente molto rilevante per attivare processi di sviluppo a cui si legano gli obiettivi globali del programma:

1. valorizzare le risorse: creare nuove occasioni e possibilità di sviluppo attraverso la tutela e l'uso compatibile delle risorse - culturali, naturali, umane - delle aree in ritardo;

2. costruire un ambiente sociale adatto allo sviuppo: migliorare la qualità della vita nelle aree in ritardo; favorire i processi di recupero della fiducia sociale; favorire l'offerta di servizi innovativi e qualificati per le persone; rendere più flessibili istituzioni, mercati, regole adeguandoli al contesto europeo;

3. creare le condizioni per la promozione e la localizzazione di nuove iniziative imprenditoriali: aumentare e valorizzare i fattori di attrattività di iniziative produttive collegandole alla specificità dei luoghi e tradizioni culturali. In riferimento alle due principali situazioni territoriali critiche, precedentemente delineate, gli obiettivi specifici e operativi da perseguire vengono articolati secondo i prospetti di seguito riportati.

Obiettivi specifici comuni ai diversi ambiti territoriali
1. Sviluppare la capacità della pubblica amministrazione, a tutti i livelli (nazionale, regionale e locale) di articolare programmi di intervento che promuovano l'intreccio di conservazione e sviluppo; dando visibilità e consistenza alla Rete come infrastruttura a sostegno dello sviluppo compatibile in qualità di sistema di offerta di beni, risorse, identità specifiche e di valori: quantificazione del risultato atteso in termini di programmi realizzati, bacino di utenza interessato ai programmi e raggiunto in termini di offerta fruitiva articolata.

Obiettivi operativi
Riqualificare le professionalità locali per la creazione di un'offerta diversificata e integrata di servizi e prodotti locali a sostegno della valorizzazione della Rete, favorendo l'associazione nelle sue diverse forme per le politiche di integrazione del reddito.

Favorire il formarsi di programmi di intervento integrati, sia per settori coinvolti e tipologia delle azioni, sia per promotori e beneficiari, operando affinché vi sia sempre un legame consequenziale fra realizzazione e gestione.

Obiettivi specifici per ambiti territoriali marginali con sottoutilizzazione delle risorse
1. Migliorare la qualità e la conservazione del patrimonio naturalistico e culturale, attivando sia interventi diretti di tutela, restauro e recupero, sia interventi di promozione delle attività locali che richiedono per svilupparsi un alto livello di qualità del patrimonio ambientale: quantificazione del risultato atteso in termini di dimensioni e qualità del patrimonio interessato ai fini scientifici, didattici, ricreativi e turistici, diversificazione e specificità dei beni e servizi offerti.

2. Arricchire il territorio di capacitàprofessionali da impegnare nella progettazione, nella realizzazione e nella gestione degli interventi di tutela, manutenzione, recupero e restauro dei beni, degli interventi di organizzazione della fruizione, di sviluppo della capacità ricettiva, di valorizzazione delle tipicità locali: quantificazione del risultato atteso in termini di nuova occupazione qualificata e riqualificazione dell'esistente, capacità di raggiungere bacini di utenza sensibili e diversificati e capacità di sostenere in modo compatibile la domanda.

Obiettivi operativi
Recupero restauro degli ambiti degradati e vulnerabili, interventi per la fruizione e manutenzione del paesaggio, organizzazione e articolazione delle strutture territoriali di supporto agli usi delle risorse naturali e culturali, con il recupero dei sistemi agricoli a sostegno della qualità e differenziazione dell'offerta dei beni e servizi.

Realizzare reti di promozione dell'offerta, coordinando le azioni di informazione, divulgazione e commercializzazione dei beni e dei servizi.

Valorizzazione di attività artigianali e di piccola imprenditoria locale fondata su modelli di sviluppo compatibile, organizzazione di esperienze lavoroformazione durante la realizzazione o la gestione degli interventi, riuso dei materiali, recupero dei mestieri e delle tecnologie tradizionali e creazione di nuove attività che, nel valorizzare le specificità locali, siano in grado di rendere compatibile e utilizzare lo sviluppo tecnologico per la conservazione e la tutela dei valori naturali.

Adeguare la rete dei servizi anche in rapporto ai progetti di valorizzazione del patrimonio ambientale e di sviluppo di nuove attività, garantendo i servizi pubblici per i residenti (scuola, assistenza sanitaria, ufficio postale, ) e forme di mobilità integrata in funzione dei bacini di utenza potenziali e della pressione fruitiva stagionale.

Sviluppare fonti energetiche rinnovabili integrative attraverso le moderne tecnologie di applicazione dell'energia eolica, solaretermica e fotovoltaica, da biomassa e microidroelettrica, con particolare attenzione alla specificità dei luoghi e delle produzioni locali, avviando forme di gestione integrata.

Obiettivi specifici per ambiti territoriali con sovrautilizzazione delle risorse
1. Promuovere interventi di recupero degli ambiti degradati e compromessi, integrando alle azioni la crescita delle capacità locali di intervenire anche per la manutenzione, la gestione e il monitoraggio degli ambiti ripristinati: la quantificazione del risultato atteso è in termini di ambiti riqualificati a sostegno del recupero complessivo dell'identità dei luoghi e abbassamento dei livelli di inquinamento, capacità di costruire un'offerta diversificata e coordinata di beni e servizi.

2. Promuovere sistemi di certificazione che diano visibilità alle situazioni di equilibrio nell'uso delle risorse, e siano di incentivo all'adeguamento o alla riduzione delle condizioni di eccessiva pressione sulle risorse, dando impulso ad attività che implichino una utilizzazione compatibile delle risorse e richiedano il mantenimento e il ripristino di alti standard di qualità ambientale, quantificazione del risultato atteso in termini di capacità di sostenere gli usi plurimi, gli standard qualitativi raggiunti, possibilità di attivare politiche di controllo ambientale basate sul principio "chi inquina paga".

3. Articolazione dell'offerta di beni e servizi finalizzati al soddisfacimento di bisogni sociali diffusi e riferibili a particolari gruppi di cittadini, richiesta di turismo ambientale extraurbano e urbano, attività sanitarie e sportive con particolare riguardo alle fasce sociali più deboli come gli anziani, l'infanzia, i disabili e portatori di handicap; quantificazione del risultato atteso in termini di soddisfacimento della domanda di servizi sociali ambientali, crescita di operatori qualificati nel settore, uscita dal precariato, aumento della sicurezza sociale.

Obiettivi operativi
Recupero ambientale delle aree antropizzate, con l'eliminazione dei fattori di degrado, attuando interventi per la manutenzione del paesaggio, per il recupero dei sistemi agricoli originari, promuovendo interventi di recupero degli ambiti degradati e compromessi, abbinandovi la crescita di capacità locali di intervento anche per la manutenzione e la gestione degli ambiti ripristinati (in particolare per le fasce costiere e le isole minori).

Regolazione delle modalità d'uso delle risorse primarie, ricostituzione di equilibri ambientali, rilocalizzazione o trasformazione delle attività incompatibili, razionalizzazione dell'impiego delle risorse energetiche, tecnologie per la produzione di energia a basso impatto.

Sviluppo della ricettività diffusa, formazione di strutture per la fruizione del patrimonio locale naturale e storicoculturale capaci di diluire nello spazio e nel tempo i carichi creando alternative stagionali d'uso delle risorse.

Sostegno all'agricoltura a basso impatto, valorizzando le risorse multifunzionali dell'azienda agricola e le produzioni tipiche e biologiche certificate per la differenziazione dell'offerta.

Formazione di competenze e capacità progettuali e gestionali per l'offerta di servizi di tipo innovativo, legati alla riconversione delle attività agricole verso forme integrate di servizi per il territorio di assistenza e didatticomuseali e, sostenendo la sensibilizzazione e la formazione degli operatori locali, promuovendo il coinvolgimento e l'attivazione delle organizzazioni del terzo settore sia per l'aggregazione della domanda urbana di spazi e servizi sia per l'organizzazione dell'offerta.

Adeguamento e manutenzione dei servizi essenziali per il raggiungimento di adeguati livelli di qualità ambientale, depurazione, rifiuti, rumore, adduzione idrica, sistemi fognari, qualità dell'aria, privilegiando forme integrate di realizzazione e gestione.

Le linee di intervento Gli obiettivi individuati per definire il percorso di sviluppo della Rete ecologica rispondono ad una dinamica trasversale governata dalla matrice ambientale intesa non come limitazione vincolistica ma come valorizzazione delle opportunità di conservazione e miglioramento dei livelli di naturalità esistenti da condurre mediante lo sviluppo di attività umane complementari a tali finalità. Questo processo di sviluppo integrato diventa quindi un'ulteriore occasione per affrontare le varie azioni non più come singole situazioni riversate episodicamente sul territorio, ma come parti di un sistema che lega fra di loro gli interventi e gli ambiti interessati.

I sistemi intorno ai quali dovranno essere programmate le azioni e gli interventi attuativi si identificano con i grandi sistemi ambientali e territoriali del nostro Paese che rivestono il ruolo di elementi di caratterizzazione spaziale della rete e geograficamente riconoscibili nei sistemi delle Alpi, degli Appennini, delle Coste e delle Isole minori. All'interno di tali sistemi si delineano i "Progetti integrati d'area" dove sarà possibile, in funzione delle condizioni locali, avviare programmi d'intervento integrati per la valorizzazione e il recupero delle diverse componenti della Rete, avviando forme stabili di relazione fra le risorse naturali e culturali e la struttura dello spazio fisico e insediativo del territorio. Il ruolo di costruire le relazioni tra gli ambiti omogenei di intervento con i grandi sistemi territoriali, viene svolto dai progetti di sistema in corso di attuazione (Convenzione delle Alpi, APE, Appennino Parco d'Europa, Isole minori), che costituiscono dei programmi integrati di sviluppo e valorizzazione dello spazio montano delle Alpi, dell'Appennino e delle isole minori per la promozione di un progetto complessivo di sviluppo sostenibile, intorno al quale alcune regioni hanno già mobilitato delle risorse e avviato delle azioni, attraverso le intese istituzionali di programma o altri strumenti della contrattazione programmata e con il conseguente coinvolgimento operativo dei soggetti istituzionali e socio economici centrali e locali.

Assi prioritari e misure progettuali
Gli assi prioritari vengono individuati in ambiti territoriali che afferiscono ai sistemi e comprendono le diverse componenti della Rete:

Coordinamento e indirizzo:
accoglie una gamma di esigenze comuni ai vari ambiti;· Spazio montano: ambiti territoriali montuosi caratterizzati dalla marginalità e dalla sottoutilizzazione delle risorse;

Ambiti urbani e costieri di riqualificazione ambientale:
aree caratterizzate da una forte perdita di identità con un alto livello di conflittualità nell'uso delle risorse naturali;

Isole minori:
ambiti ove si sovrappone alle problematiche territoriali di sovrautilizzo delle risorse anche il loro uso conflittuale.
È possibile indicare, in modo sintetico, l'insieme delle azioni e linee generali di intervento derivanti dagli obiettivi delineati suddivise per i diversi assi prioritari d'intervento.

 


 

Rete ecologica nazionale e conservazione della biodiversità
Luigi Boitani*

La conservazione della biodiversità non è una operazione semplice che incide su un comparto isolato del contesto ambientale e sociale; si tratta invece di una operazione molto vasta e complessa, paragonabile alle più grandi sfide sociali come quella di assicurare a tutta l'umanità l'assistenza sanitaria oggi disponibile solo agli strati sociali più ricchi. L'informazione ecologica non è ancora riuscita a fare quel salto culturale necessario a portare il problema della perdita di biodiversità alla comprensione del grande pubblico. Se finora c'è stata una qualche partecipazione al problema della conservazione della biodiversità, lo è stato su base emotiva e passionale, non certo per razionalità e consapevolezza. In altre parole, il grande pubblico non ha ancora compreso che la conservazione della biodiversità non è una opzione per fare contenti pochi attivisti amanti della natura, ma è passaggio obbligato per il futuro stesso della umanità. Se da una parte il grande pubblico non ha compreso bene cosa significhi conservazione della biodiversità, spesso anche gli addetti ai lavori hanno le idee non molto chiare. Credo che la fonte di maggiore confusione derivi dalla continua mistura di elementi scientifici, tecnici e politici che inevitabilmente devono concorrere ad un programma di conservazione. Fare conservazione è infatti fare politica su una materia che ha precisi determinanti scientifici. Si può decidere di ignorare questi determinanti, e nascono così i deludenti consuntivi che spesso siamo costretti a fare al termine di grandi progetti di conservazione. Oppure ci si può illudere di gestire la conservazione solo sulla base di criteri scientifici, e nascono così fallimenti ancora più clamorosi. In queste note vorrei affrontare proprio il tema della Rete Ecologica Nazionale come punto di aggregazione degli aspetti politici e scientifici del problema della conservazione della biodiversità.

Obiettivi, strategie e tattiche nella conservazione della biodiversità
La Rete Ecologica è, nella sua lettura più genuina, uno dei migliori strumenti di conservazione e, come tale, va posto nel suo contesto di obiettivi, strategie e tattiche. Ogni programma di conservazione dovrebbe avere sempre (ma spesso non lo ha!) un impianto fatto di obiettivi, strategie e tattiche: non è pensabile sperare di ottenere alcun successo duraturo in assenza di una chiara definizione, almeno concettuale, di questi principali elementi del programma. Non si può procedere in ordine sparso poiché le risorse sono limitate e i campi di intervento, ancorché interconnessi, sono molto diversificati.
Gli obiettivi dovrebbero essere pochi e semplici: possono essere anche ambiziosi, ma devono essere misurabili in modo che si possa valutare il loro progressivo raggiungimento.

In tema di conservazione della biodiversità terrestre propongo tre obiettivi immediati:

a) Nessuna nuova estinzione di specie in Italia;

b) La funzionalità dei maggiori sistemi ecologici è mantenuta;

c) I processi evolutivi naturali di specie e ambienti sono mantenuti. Si tratta certo di obiettivi ambiziosi, non rinunciatari, ma adeguati ad una visione aggressiva verso il grave problema della perdita di biodiversità.

Le strategie: è indubbio che, per conservare fattivamente la biodiversità, si debbano rivedere profondamente gli attuali modelli socioeconomici.
Ma giova comunque ricordare che gli elementi strategici essenziali a rendere credibili tutte le tattiche e le azioni di conservazione sono almeno i seguenti:

a) controllo della crescita demografica e stabilizzazione delle piramidi di età;

b) rimodulazione della crescita economica in termini di sostenibilità nei confronti delle risorse naturali;

c) spostamento dei modelli culturali dall'apprezzamento della quantità a quello della qualità dei beni;

d) inversione di tendenza dalle politiche di segregazione a quelle di integrazione di uomo e natura. Si tratta di strategie di lungo termine, ma la loro visione deve costituire lo sfondo programmatico costante di tutti i programmi di conservazione: in assenza di questo approccio, si rischia di svolgere un lavoro di sola emergenza, rinunciando alla visione più seria e meritevole della conservazione, quella di una coesistenza pacifica e stabile di uomo e natura.

A queste strategie generali, si devono poi accompagnare strategie settoriali di breve/medio termine disegnate in congruità con quelle a lungo termine. Sono questi gli elementi più propri dell'azione di governo (programmazione economica, piani territoriali di vario genere e livello, piano della biodiversità, ecc.). Da queste strategie discendono infine le tattiche. Mentre le strategie sono più propriamente terreno della politica, le tattiche sono i campi dove la tecnica svolge un ruolo prominente.

Nella conservazione della biodiversità terrestre si possono individuare almeno 6 componenti tattiche principali:

a) identificazione delle priorità di conservazione;

b) protezione delle specie minacciate;

c) protezione degli ambienti minacciati;

d) protezione dei principali servizi (funzioni) forniti dai sistemi ecologici (acqua, aria, depurazione, ecc.);

e) assestamento di un compromesso territoriale tra le esigenze delle attività umane e quelle della biodiversità;

f) informazione e monitoraggio. Molti sono gli strumenti a disposizione per realizzare queste tattiche e alcuni sono stati i tradizionali campi di battaglia della conservazione, come le aree protette, le leggi di protezione, i programmi Life o il progetto Carta della Natura.

Questi sono tutti insufficienti se svolti fuori da una visione strategica unitaria che il Paese deve fare sua in sede politica e in quella più difficile dell'opinione pubblica. Il più recente strumento di conservazione, la Rete Ecologica Nazionale non sfugge a questa logica e, come gli altri deve essere posto in questo contesto per poter sperare di essere utile alla conservazione della biodiversità.

Tattiche e strumenti per la biodiversità italiana
Sulla base di questa premessa generale, è possibile affrontare l'esame di ogni singola tattica per valutare poi il ruolo della Rete Ecologica Nazionale. È doveroso sottolineare che queste tattiche non sono alternative tra loro e che un risultato concreto di conservazione è possibile solo dalla loro integrazione.

1. Identificare le priorità: è il primo passo necessario a mettere in moto tutte le azioni successive. L'Italia è priva di un meccanismo istituzionale collaudato e omogeneo sul piano nazionale che sia in grado di riunire le informazioni, esaminarle e trasformarle in linee di indirizzo per la conservazione della biodiversità. La identificazione delle priorità è necessaria per dirigere lo sforzo di intervento sugli elementi a maggior rischio e per ottimizzare la scarsità cronica di risorse disponibili per questi settori. Le priorità di conservazione sono state finora dettate da tante diverse motivazioni, politiche, estetiche, emotive, economiche, ma raramente sono state sostanziate da logiche biologiche e ecologiche, le uniche che permettano di rispondere alle esigenze della biodiversità. Le priorità di intervento scaturiscono dall'esame congiunto di una serie di dati: le emergenze (specie minacciate), gli endemismi (specie ristrette a piccole aree di distribuzione), le aree ad alta densità di specie (aree in cui il numero di specie è significativamente maggiore che nel resto del territorio), le maggiori funzioni di servizio fornite dai sistemi ecologici alle attività umane (servizi di fornitura di risorse rinnovabili e di riciclo). Ognuna di queste serie di dati pone notevoli difficoltà teoriche e operative, ma esistono gli strumenti adatti al loro trattamento, almeno per una prima fase che porti alla identificazione concreta di una serie di priorità di intervento. Tra gli strumenti in essere, Carta della Natura è certamente l'esercizio più promettente, anche se soffre di una frammentazione di impostazioni e letture che non giova alla sua utilità. È urgente che Carta della Natura copra al più presto l'intero territorio nazionale e che raccolga il massimo consenso tecnico e politico possibile. Sarà sempre un lavoro in continuo sviluppo ma questo non può giustificare di rimandare sempre la sua applicazione.

2. Protezione delle specie: è un passaggio obbligato della conservazione. Anche se tradizionalmente è stato lo strumento più amato dai movimenti di conservazione, è stato da tempo messo in discussione per la sua ottica monospecifica e contraria ad una lettura integrata del territorio. Resta comunque un caposaldo inevitabile di una politica di conservazione della biodiversità, soprattutto nei confronti delle specie minacciate e a quelle che rivestono un ruolo prioritario sia nella economia degli ecosistemi (specie keystone e ombrello) che in quella delle campagne di conservazione (specie bandiera). L'Italia ha una fauna di oltre 57.000 specie, tutte degne di protezione in egual misura, mentre gli sforzi si sono finora accaniti solo su poche specie di vertebrati di maggiore richiamo. La protezione delle specie deve però essere posta nella giusta ottica globale: le azioni di protezione non possono essere ristrette alla scala artificiale dei limiti amministrativi regionali o nazionali, ma devono seguire la scala naturale della distribuzione globale di ogni specie. È necessaria quindi una lettura comparata della situazione italiana nel contesto continentale. In particolare, la protezione di gran parte delle specie di vertebrati (ma anche di moltissimi invertebrati) ha senso solo se pianificata a scala nazionale e coordinata con il contesto continentale, pur lasciando la sua realizzazione alle responsabilità regionali o locali. Questo significa che a livello nazionale si dovrà preparare e approvare dei Piani d'Azione Nazionali dedicati alle specie di maggiore importanza, che assicureranno una impostazione coerente e omogenea alla conservazione a livello nazionale. Infine, per dare coerenza a tutta la politica di protezione delle specie e per far fronte ai problemi correlati (introduzione di specie aliene, prelievo venatorio, commercio, ecc.) è assolutamente improcrastinabile la presentazione in Parlamento delle leggi di Tutela della Fauna e della Flora che da anni sono state predisposte con l'aiuto dei migliori supporti scientifici del Paese.

3. Protezione degli ambienti: La conservazione delle aree protette è il secondo caposaldo della conservazione tradizionale. Anch'essa ha profondi limiti biologici, sia concettuali che pratici, soprattutto nel contesto italiano ed europeo dove è difficile reperire aree vaste a sufficienza per permettere una conservazione della natura di sicuro significato biologico. Nonostante un notevole incremento di aree protette in Italia, non mi risulta sia stato mai discusso né approvato alcun documento di programmazione che facesse riferimento ad un esame scientifico e tecnico della qualità, quantità, distribuzione e localizzazione delle aree protette italiane. È largamente risaputo che Parchi nazionali e regionali, riserve e oasi, sono stati selezionati con molti diversi criteri, ma raramente sulla base delle esigenze reali della biodiversità (vedi alle reti ecologiche). È pertanto necessario condurre al più presto una valutazione della efficienza globale del sistema di aree protette realizzate e programmate (PN, PR, SIC, ecc.) in relazione al grado di protezione che questo sistema fornisce alla biodiversità italiana. L'approccio sperimentato in USA con la cosiddetta "Gap analysis" può essere applicato in Italia per analizzare la distribuzione delle diverse tipologie di habitat e delle diverse specie nel sistema di aree protette. Con questo metodo si può valutare il contributo di ogni area protetta alla conservazione di specie e habitat, e si possono identificare le necessarie integrazioni; inoltre, si può eseguire questa valutazione con una lettura dinamica delle metapopolazioni animali, evitando l'inutile esercizio di una catalogazione statica di liste di specie per ogni area. Questo passaggio metodologico è, a parer mio, preliminare a qualsiasi discussione sulla eventualità di altre aree protette e sulla loro dislocazione. Sulle aree protette, quindi, è necessaria una maggiore capacità di indirizzo da parte del Ministero dell'ambiente, fornendo alle regioni almeno un quadro informativo nazionale nel quale collocare le loro scelte locali. Ma è necessario andare oltre, offrendo soluzioni omogenee a problemi comuni e ricorrenti nelle varie regioni: in questa prospettiva, il concetto di rete ecologica nazionale potrà essere di estremo interesse, proprio per la sua capacità di riunire in una lettura unica tutto il territorio (vedi sotto). Questo tipo di argomentazioni è spesso frainteso come un attacco alla validità delle aree protette che invece dovrebbero essere difese per princi pio contro qualsiasi sfumatura di dubbio sul loro ruolo. Questa suscettibilità nasce dalla obiettiva debolezza di molte aree protette nello svolgere il ruolo primario per le quali sono state pensate, ma il nodo dell'equivoco è altrove. Con queste argomentazioni non si vuole negare la validità, utilità e necessità delle aree protette, ma solo chiedere che venga valutata in termini scientifici la loro efficienza nel raggiungere l'obiettivo di conservazione della biodiversità. Ma questo non è l'unico obiettivo delle aree protette, poiché queste svolgono anche un fondamentale ruolo di politica ambientale più generale, di laboratorio di idee e soluzioni di compatibilità tra attività economiche e biodiversità. Qui sta una delle più facili occasioni di equivoci tra chi critica le aree protette sul piano scientifico e chi le difende sul piano politico.

4. Protezione delle funzioni: Non c'è dubbio che questa tattica della conservazione sia di gran lunga la più moderna ed efficace. Spostando l'enfasi dalle singole specie e dai singoli habitat, l'attenzione dell'azione di conservazione viene posta sul mantenimento di alcune funzionalità interne dei sistemi ecologici, coinvolgendo in una unica lettura sia le specie che gli ambienti che le ospitano. La difficoltà di realizzazione di questo approccio risiede nella identificazione delle funzionalità e poi degli ambiti spaziali in cui esse possono essere delimitate. Le funzioni ecosistemiche sono quindi lette soprattutto nei termini riduttivi di servizi forniti dai sistemi ecologici all'uomo, come ad esempio il mantenimento della qualità delle riserve idriche o di risorse vegetali o faunistiche. È certo una lettura molto antropocentrica ma ha due grandi vantaggi, legare l'azione di conservazione ad un immediato e concreto ritorno per le popolazioni locali, e la possibilità di quantificare in termini economici i costi e benefici dell'azione di conservazione. Questa è una delle occasioni più facili per una naturale convergenza di obiettivi scientifici e politici della conservazione, un'occasione ghiotta che ancora deve essere colta a piene mani. Nonostante le difficoltà pratiche di attuazione di questo approccio, esistono diverse esperienze internazionali che possono essere considerate per una eventuale applicazione in Italia. Una di queste si basa sulle entità ben distinte dei bacini idrografici che diventano le unità funzionali di riferimento per tutti i servizi legati all'acqua: la qualità delle acque, la capacità di depurazione, il sistema di ritenzione/smaltimento, possono essere garantiti dalla salute dei sistemi ecologici inclusi nel bacino, risparmiando molti e costosi interventi di correzione tecnologici. Altre esperienze si possono riferire alla unitarietà di complessi montani o altre unità geograficamente distinte: anche se la individualità ecosistemica è certamente criticabile, è innegabile la praticità dell'approccio. In Italia abbiamo qualche esempio di piccola scala (il parco laziale che include gran parte del bacino montano che fornisce la maggior parte dell'acqua a Roma), ma credo che il momento sia maturo per una riflessione di maggior portata su questo approccio.

5. Reti ecologiche: Molto di quanto detto finora confluisce naturalmente nel concetto di rete ecologica, ma credo sia utile fare subito chiarezza sulla definizione stessa di questo concetto, poiché stiamo assistendo a tanti dibattiti che forse non avrebbero luogo se i partecipanti avessero prima trovato accordo sul significato delle parole usate. Gran parte degli equivoci, inutile dirlo, derivano dall'uso della parola "ecologico" che ormai è legittimata in ogni contesto. Ad esempio, se uno straniero cercasse di capire cosa significa "operatore ecologico" credo che proverebbe almeno cento diversi significati prima di arrivare a coloro che raccolgono i rifiuti urbani o puliscono le strade. Così, in assenza di queste definizioni, ognuno legge in "rete ecologica" quello che vuole e poi si stupisce se altri vi leggono cose diverse.

Una definizione
La mia interpretazione di Rete Ecologica Nazionale è quella di un progetto che in realtà si sviluppa su due binari paralleli ma molto diversi tra loro. Il primo è quello di un grande progetto di politica ambientale a scala nazionale, che cerca di ricollegare e sviluppare in maniera congruente su tutto il territorio nazionale azioni e programmi di sviluppo sociale e economico compatibili con la salvaguardia ambientale. Sono consapevole che questa definizione riceverà molte critiche di incompletezza, ma consideriamola buona nelle sue linee generali. In questa lettura, Rete Ecologica Nazionale è una splendida opportunità per ridare unità d'intenti alle tante politiche ambientali sviluppatesi nei vari comparti amministrativi del Paese, per ricucire realtà territoriali rimaste fuori dai circuiti più eclatanti, per ottimizzare le risorse economiche e finanziarie disponibili con i fondi strutturali, e così via in una visione grandiosa ma fattibile di recupero di una vera politica ambientale nazionale. È ovvio che in questa rete le aree protette svolgano un ruolo primario (nodi), anche se mi corre l'obbligo di segnalare il pericolo di una egemonia che potrebbe lasciare in penombra le occasioni e le necessità di sviluppo della matrice ambientale in cui le aree protette sono poste: forse, ognuno di noi potrebbe testimoniare diversi esempi di questo tipo. Il secondo binario è quello più esplicitamente dedicato alla conservazione della biodiversità, un obiettivo quindi fortemente radicato nei parametri scientifici che definiscono la biodiversità e la sua conservazione. In questa specifica prospettiva, è necessario fare alcune considerazioni. Le reti ecologiche sono uno strumento concettuale di estrema importanza per la conservazione della natura e per un assetto sostenibile di uso del territorio. Le loro fondamenta teoriche sono ben salde nella biologia della conservazione e derivano dalla constatazione ovvia che tutte le specie, vegetali ed animali, sono distribuite disomogeneamente sul territorio e che questa discontinuità è dovuta innanzitutto a fattori naturali intrinseci e poi anche a fattori storici e antropici. L'areale di distribuzione di ogni specie è infatti costituito da un insieme di aree dove la specie si trova a varie densità; in condizioni ottimali queste aree sono collegate tra loro da aree di connessione (spesso chiamate corridoi) a formare una rete. Per molte specie, una rete non è necessariamente fatta di aree e corridoio, poiché spesso la mobilità è assicurata dal mezzo aereo (semi, spore, uccelli, insetti, ecc.). Se immaginiamo di sovrapporre tra di loro le innumerevoli reti di tutte le specie vegetali ed animali, il risultato è una enorme parcellizzazione del territorio in piccolissime aree omogenee. Questa è la unica vera, e teorica, "rete ecologica" (nel senso più autentico della parola, che è quello biologico) che insiste sul territorio: di fatto la possiamo immaginare come un inviluppo di innumerevoli reti di tante specie diverse. La sua trasformazione in uno strumento operativo di gestione del territorio può avvenire solo attraverso una aggregazione di aree più simili tra di loro fino ad arrivare ad un grado di dettaglio manovrabile con gli strumenti classici della organizzazione territoriale. A questo scopo, risulta a volte utile arrivare fino alla scala degli elementi del paesaggio, identificando le unità di paesaggio più omogenee tra di loro. Se questa operazione ha i suoi indubbi vantaggi pratici, non deve però essere intesa come una effettiva soluzione delle esigenze di tutte le specie; non vi è alcuna garanzia che una rete così identificata a livello macroscopico sia utile alla conservazione di una frazione significativa delle specie vegetali ed animali. Né esiste alcuna garanzia che sia utile alla conservazione dei tipi di habitat minacciati. Di conseguenza, una rete ecologica disegnata solo sulla base di elementi del paesaggio può non avere alcuna corrispondenza con gli obiettivi funzionali che si prefigge. In alternativa, affinché una rete ecologica possa risultare in un compromesso utile tra le esigenze delle specie e quelle della gestione territoriale, è essenziale che ecologi, botanici e zoologi contribuiscano con le indicazioni di base delle specie ritenute più importanti alla conservazione delle popolazioni e alla funzionalità dei sistemi: su questa base si possono poi definire le unità di paesaggio omogenee che potranno essere usate per la programmazione e gestione del territorio. Poiché non è possibile tenere in conto le esigenze di tutte le specie esistenti in una determinata area, è compito dei naturalisti identificare le specie ritenute critiche per il loro stato di minaccia o il loro ruolo funzionale nei sistemi ecologici (specie chiave, ombrello, e bandiera). Se questa è la lettura più schiettamente ecologica di una rete (appunto) ecologica, non sembra però la lettura che più spesso viene fatta da molti settori dell'amministrazione pubblica che restano fermi al concetto di rete dilatato fino ad accogliere le più lontane connotazioni sociali, economiche e politiche, spesso molto lontane da alcunchè di ecologico. Non è certo mia intenzione criticare questa interpretazione delle reti ecologiche, anche perché ne comprendo le ragioni e le intenzioni, ma debbo sottolineare come si tratti di un impianto che ha molto poco a che vedere con la ecologia e la biodiversità.

Rete ecologica nazionale e biodiversità
A questo punto è doveroso un confronto tra questa definizione di rete ecologica con quanto riportato nelle Linee Guida ministeriali per la Rete Ecologica Nazionale. La Rete Ecologica Nazionale viene definita come "una infrastruttura naturale e ambientale che persegue il fine di interrelazionare e di connettere ambiti territoriali dotati di una maggiore presenza di naturalità," e la struttura della rete viene articolata in aree centrali ("coincidenti con aree già sottoposte o da sottoporre a tutela"), zone cuscinetto ("zone contigue che costituiscono il nesso fra società e natura, ove è necessario attuare una politica di corretta gestione dei fattori abiotici e biotici e di quelli connessi con l'attività antropica" (!)), corridoi di connessione (destinati a favorire la conservazione delle specie favorendo la dispersione) e i nodi ("luoghi complessi di interrelazione, al cui interno si confrontano le zone, centrali e di filtro, con i corridoi I Parchi si propongono come nodi potenziali del sistema").
Se questa impostazione può essere condivisibile nell'ambito di una rete intesa come progetto politico di sviluppo socioeconomico, è però difficilmente sostenibile sul piano scientifico e biologico quando l'obiettivo del progetto è quello della conservazione della biodiversità:

a) Si assume che le attuali aree protette e quelle proposte siano centri di maggiore naturalità rispetto al resto del Paese: questo assunto va dimostrato e resta del tutto ingiustificato fino ad una appropriata valutazione scientifica, ma non credo che un'analisi comparativa delle aree protette con il resto del Paese le vedrebbe risaltare come speciali centri di biodiversità (lo ammetto, per ora è solo una mia impressione).

b) Si assume che i corridoi funzionino come vie di connessione generica per tutta o gran parte della biodiversità: oggi i corridoi sono riproposti come soluzione all'isolamento delle aree protette, ma scientificamente non sono altro che un concetto astratto, approfondito per ora solo in termini specie specifici. In altre parole si può studiare un corridoio per il lupo o il rospo o un'altra specie, ma non esiste il corridoio ecologico come strada di comunicazione per tutta la fauna o solo per un gran numero di specie. Il concetto teorico usato in biologia della conservazione è stato mutuato nella pianificazione territoriale senza il suo essenziale corredo di specifiche tecniche su obiettivi, scale, dimensioni e contenuti: in questa assenza di specifiche ognuno ha potuto costruire una sua ipotesi di corridoio che di fatto non ha riscontri reali. Se è vero che qualche caso di uso di strutture lineari è stato verificato in natura, è certamente vero che l'ecologia ancora non ha trovato una metodologia per poter progettare un solo corridoio funzionale. Se una prospettiva esiste in questo senso, essa è limitata alla sperimentazione di corridoi speciespecifici, mai multispecifici. Perfino la progettazione di piccoli corridoi di passaggio della fauna sopra o sotto strade e ferrovie (a volte anche questi chiamati reti ecologiche, tanto per aumentare la confusione !) ha finora ricevuto solo in rari casi la conferma sperimentale di una reale funzionalità.

c) La definizione funzionale di aree contigue e di nodi esula del tutto da una lettura ecologica e comunque resta oscuro il perché i Parchi si possano proporre come aree chiave della conservazione della biodiversità. Forse la spiegazione è nella inferenza che il fatto stesso della esistenza del forte vincolo posto da un Parco Nazionale comporti la presenza di un area in grado di svolgere un ruolo chiave nella conservazione della biodiversità. Ma la conservazione non può restringere la sua attenzione alle sole aree protette e alla rete di interconnessione, perché la vera sfida di conservazione si gioca nella matrice nella quale quelle aree sono inserite.

d) Tutto il sistema della Rete Ecologica Nazionale sembra ruotare intorno alle aree protette che dovranno costituire la parte pregiata del territorio destinato alla conservazione. Purtroppo, dimensioni, forma e distribuzione delle nostre aree protette pongono un serio limite ad ogni prospettiva di conservazione della biodiversità a lungo termine: ferma restando la necessità di una verifica scientifica approfondita, uno sguardo con occhio ecologico non può non rilevare la debolezza intrinseca delle nostre aree protette, piccole, frastagliate, distribuite senza una logica di sistema, istituite e formate più sulla base di valori estetici e di pressioni politiche che non su logiche ecologiche. Ad una rigorosa analisi, sono certo che diverse aree verrebbero confermate come centri di particolare significato per la biodiversità, ma non sono affatto certo che questo avverrebbe per la maggior parte delle aree: ammetto che si tratta di valutazioni personali in attesa di riprova scientifica.

e) Infine, si fa più volte riferimento al concetto di naturalità. È opportuno distinguere tra una naturalità ecologicamente sostanziata ed una percepita dal pubblico. La prima ha molte definizioni, alcune contrastanti e non esiste un consenso tra gli ecologi su una definizione trasversale. I botanici ricorrevano tradizionalmente ad una misura di naturalità che consiste nella distanza esistente tra lo stadio successionale di un sistema ecologico e lo stadio terminale (climax) della stessa successione. La stessa misura non ha trovato applicazioni per la fauna o per la funzione dei processi ecologici. In termini semplici, si potrebbe fare un parallelo tra gradi di naturalità e percentuale di componenti originali di quel sistema ecologico: quanto più intatto è il sistema, tanto maggiore sarà la percentuale di biodiversità originale. Purtroppo il metodo è di scarsa utilità pratica poiché raramente si conosce lo stato originale del sistema. E si ricorre quindi a due valutazioni surrogate, ambedue imprecise e discutibili, ma comunque utili in assenza di conoscenze più approfondite. La prima fa riferimento alla presenza di specie carismatiche e generalmente rare (in genere vertebrati, come grandi ungulati o predatori) oppure alla particolare concentrazione di alcune popolazioni altrimenti poco diffuse (aree umide), ma questi non sono rappresentativi dell'intera biodiversità animale e tantomeno di quella globale. La seconda fa riferimento a parametri del paesaggio e allora si valuta l'imponenza (bellezza) del paesaggio, la completezza e il significato della copertura vegetale, la bassa densità umana, l'assenza di attività umana ad impatto visivo. Questa è anche la naturalità percepita dal pubblico. Su questa base sono stati selezionati gran parte degli ambiti territoriali decretati parchi nazionali o regionali. Non è chiaro quale idea di naturalità sia stata utilizzata nell'impianto concettuale della Rete Ecologica Nazionale.

6. Conoscenza /Monitoraggio:
La impostazione sopra accennata ha scarse possibilità di riuscita senza la massiccia mobilitazione dei migliori centri di ricerca scientifica del Paese e senza la messa in opera di un piano di monitoraggio costante ed efficiente delle trasformazioni ecologiche. Credo sia opportuno programmare un Piano di ricerca finalizzato per le Università con lo scopo di ottenere i necessari contributi conoscitivi e innovativi per la realizzazione di tutte le azioni di conservazione. Nonostante una enorme stratificazione di produzione scientifica, il livello di conoscenze di base su fauna e flora italiani è incredibilmente basso e deve essere al più presto adeguato. Anche su questo aspetto è di fondamentale importanza il ruolo guida e organizzatore del Ministero dell'ambiente. Il ruolo dell'ANPA e della sua rete regionale per il monitoraggio è di fondamentale importanza.

Una proposta metodologica per includere la biodiversità nella Rete ecologica nazionale
In sintesi, credo che sarebbe difficile, solo sulla base delle Linee Guida pubblicate, arrivare ad individuare una rete ecologica nazionale che sia davvero tale anche per assicurare la conservazione della biodiversità. D'altra parte, il programma di Rete Ecologica Nazionale è una preziosissima opportunità di assetto territoriale che può ancora essere raffinata e sostanziata per gli obiettivi della conservazione della biodiversità. Credo che la Rete possa e debba diventare il più importante progetto italiano di sintesi e organizzazione delle tante attività di conservazione della biodiversità. Propongo quindi alcune riflessioni che, tralasciando tutte le valenze politiche e socioeconomiche della Rete, spero possano contribuire a rendere le proposte operative di Rete Ecologica Nazionale più direttamente e concretamente utili all'obiettivo specifico di conservazione della biodiversità.

a) Dimentichiamo per un momento l'esistenza delle aree protette e affrontiamo il territorio nella sua globalità. L'Italia è un Paese ricco di vaste aree che possiamo definire a "naturalità diffusa": ad una idea di "naturalità" che si rappresenta in alcune grandi aree protette (i parchi, ecc.) od in alcuni ristretti luoghi ove si concentrano particolari valori naturalistici, storici e culturali, si può accostare un'idea di "naturalità diffusa", di frammistione tra fenomeni antropici e naturali che non raggiunge livelli di incompatibilità reciproca. In queste aree non si riscontrano particolari concentrazioni di emergenze naturalistiche o grandi assembramenti numerici di specie particolarmente rare, ma si ritrovano alti valori di diversità biologica e culturale, di diversità di sistemi ecologici e, aspetto particolarmente prezioso, forme di coesistenza sostenibile con attività umane vitali. Grandi estensioni di aree a naturalità diffusa esistono in moltissime regioni italiane e specialmente nelle aree collinari e pedemontane, con insediamenti sparsi o diffusi, con attività di agricoltura estensiva e di basso impatto (ad esempio, gran parte della Toscana di media e bassa quota, o le medie quote dell'Appennino centrosettentrionale, ecc.). Questa tipologia di integrazione tra insediamenti diffusi e agricoltura/allevamento a basso impatto costituisce, a mio parere, una caratteristica essenziale della qualità ambientale italiana e, con opportune correzioni locali, è largamente compatibile con il mantenimento della biodiversità. Il livello di attenzione per gli aspetti ecologici nelle politiche del territorio è stata tradizionalmente funzione della qualità assegnata apriori alle diverse porzioni di territorio, con la conseguenza di una ripetuta negligenza nei confronti delle cosiddette aree marginali: queste, invece, hanno spesso altissimi livelli di naturalità diffusa e meriterebbero quindi un grado di attenzione quasi maggiore delle aree più conclamate. La totalità delle aree a naturalità diffusa costituisce una matrice che, probabilmente, copre la maggior parte del territorio italiano: immaginiamo questa matrice dalla quale emergono in positivo alcuni centri di particolare concentrazione di biodiversità e, in negativo, le aree compromesse da un eccessivo degrado.

b) Questo potrebbe essere lo sfondo sul quale operare una analisi del mosaico ambientale per disegnare una serie di reti ecologiche speciespecifiche destinate alla conservazione ottimale di tutte le specie per le quali possediamo dati adatti ad una simulazione delle loro dinamiche ecologiche. La dinamica di gran parte della biodiversità, e in particolare della fauna, avviene attraverso un mosaico di aree a diversa valenza ambientale (mosaico che varia da specie a specie) nel quale la specie vive in uno stato di metapopo lazione con complesse dinamiche sourcesink. Nonostante questo concetto sia più utile nella teoria che nella pratica, è però doveroso un approccio che legga le popolazioni animali e vegetali con questa angolazione e non solo con l'ottica tradizionale degli habitat più o meno idonei. Ciò che paradossalmente appare più difficile da introdurre nella pianificazione territoriale è un approccio che permetta di accogliere la dinamica spazio/temporale delle comunità naturali. La politica territoriale e ambientale non deve usare la fotografia dell'esistente come base per le proprie scelte, ma deve usare un quadro dinamico delle serie di vegetazione e delle fluttuazioni demografiche delle popolazioni animali, delle interazioni ecologiche all'interno dei sistemi ecologici: meno determinismo e più adattabilità verso l'incertezza delle dinamiche ecologiche. Ma è anche necessario comprendere che la gestione del paesaggio discende dalla comprensione della sua dinamica evolutiva. La conservazione di tanti nostri paesaggi preziosi (campagne, boschi, ecc.) significa di fatto la gestione attiva di stadi successionali che non sono stabili, il mantenimento di un grado di frammentazione e mosaicatura che non è naturale. Questo spirito informatore profondamente ecologico dovrebbe diventare la regola aurea della realizzazione della Rete Ecologica Nazionale.

c) Le reti così disegnate interesseranno le varie porzioni di territorio con uno schema libero dalla costrizione di passare obbligatoriamente per le aree protette, guidate solo dalle esigenze delle specie e le idoneità ambientali. Senza dubbio troveremo che molte aree protette saranno incluse in queste reti e in alcuni casi ne costituiranno anche snodi importanti, ma il valore di questa operazione è proprio in una validazione indipendente della funzionalità del sistema di aree a contribuire alle reti ecologiche (nel senso biologico del termine!).

d) La sovrapposizione di tutte queste reti disegnerà sul territorio un inviluppo di aree e corridoi che lascerà intoccate solo le aree a maggiore urbanizzazione intensiva o troppo degradate. È molto probabile che la maggior parte del territorio italiano sarà interessato, in una maniera o nell'altra da qualche parte di questo inviluppo. La Rete Ecologica Nazionale non è più quindi l'immagine di una serie di aree precostituite e di corridoi su una matrice largamente negativa, ma un sistema molto complesso di aree e corridoi che di fatto lascia intoccato solo un sistema di minore estensione e complessità disegnato dalla rete di aree troppo compromesse. In altre parole, una rete meno elettiva, più adeguata alla naturalità diffusa del nostro Paese, più corretta ecologicamente (aree grandi, possibilità di elementi di disturbo naturale, meno legata all'obbiettivo degli stadi ecologici alti, ecc.), più tesa a trovare un compromesso duraturo di conservazione e meno a salvare il salvabile in una politica di continua emergenza.

e) La politica di realizzazione di questo tipo di rete si concentrerà quindi su due fronti: da una parte per assicurare la connettività e la persistenza di tutte le componenti della rete e per incrementare la loro qualità ambientale, dall'altra per circoscrivere l'espandersi delle aree di massimo degrado e mitigare il loro impatto. Ai fini pratici, la realizzazione della rete meglio si adatta, almeno in prima battuta o approssimazione, a grandi ambiti omogenei nei loro contenuti ecologici/ paesaggistici. Rientra in questa ottica l'approccio proposto da progetti come APE (Appennino Parco d'Europa) che allargano la programmazione e la gestione ad ambiti che hanno una naturale unitarietà al di sopra delle suddivisioni amministrative.

Nella prospettiva appena accennata, il Servizio Conservazione della Natura del Ministero dell'ambiente ha commissionato (gennaio 2000) al Dipartimento di Biologia Animale e dell'Uomo dell'Università di Roma "La Sapienza" la realizzazione di uno studio di scala nazionale che intende proprio seguire le linee concettuali sopra descritte. Il suo obiettivo specifico è di individuare, al meglio delle conoscenze attuali, l'inviluppo di reti ecologiche che meglio descrive la distribuzione della biodiversità italiana relativa a tutti i vertebrati. Sulla base di questo risultato, si vuole quindi identificare il grado di frammentazione e le necessità di ricostruzione delle connessioni tra frammenti di popolazione, e le relazioni tra questa rete e il sistema di aree protette esistenti e programmate. Si tratta, in breve, di un grande progetto di sintesi delle attuali conoscenze in tema di distribuzione dei vertebrati che si affianca ad una serie di altri progetti di stu dio e approfondimento delle conoscenze sulla biodiversità del nostro Paese. È anche un progetto di analisi a grande scala del contributo del sistema delle aree protette alla conservazione dei vertebrati: ma le aree protette entreranno nella analisi solo dopo che la rete ecologica sarà stata disegnata in piena libertà sulla base delle esigenze ecologiche delle singole specie. Il percorso per la realizzazione della Rete Ecologica Nazionale sarà certamente ancora lungo e complesso, ma forse con questo progetto si potrà cominciare a dare un primo contributo concreto alla discussione e realizzazione di una vera rete ecologica che sul territorio italiano disegni le necessità di conservazione della biodiversità: il prodotto sarà in continua evoluzione ma ha il pregio di fornire un punto iniziale di riferimento per analisi e discussioni. Saranno allora regioni, province, comuni e aree protette a rispecchiarsi in questa prima bozza di rete e a trarne motivo di giustificazione o conflitto per le proprie politiche di conservazione e sviluppo.

* Università di Roma "La Sapienza"

 


 

Ai parchi un ruolo da protagonisti
Renzo Moschini*

Il progetto Rete Ecologica Nazionale colloca definitivamente le aree protette in una strategia non di separazione ma di integrazione col resto del territorio. Ma la rete deve partire dai parchi. Le osservazioni alla posizione

di Luigi Boitani.

 

Di rete ecologica si parla e si scrive ormai sempre più spesso nelle sedi e occasioni più diverse, e come per tutti gli argomenti e temi 'nuovi' c'è dunque il rischio dell'abuso inflattivo che in questo caso si avverte già al punto che taluno teme una sua 'cannibalizzazione'. Con ciò non intendiamo naturalmente misconoscere il valore e le implicazioni culturali ma anche operative di un tema che dopo una lunga incubazione in sede scientifica ha fatto il suo ingresso a pieno titolo diciamo così - sulla scena politico - istituzionale con l'autorevolezza di un documento del Ministero dell'ambiente che ha il merito di avere agganciato il vagone ambientale al treno della nuova programmazione 20002006. Ma proprio perché si tratta di un argomento serio e impegnativo vorremmo che si evitassero le superficialità a cominciare da quella di ridurlo ad una innocua petizione di principio, a mera giaculatoria che non deve mancare ormai in nessun discorso.

Isole in rete
Dicevamo che prima di diventare un tema 'istituzionale', ossia una modalità idonea per una gestione 'integrata' delle politiche di intervento sul territorio, quello della 'rete ecologica' è stato un tema oggetto di importanti e innovativi studi scientifici a carattere interdisciplinare che hanno riguardato in particolare le aree protette. L'interesse per gli esiti di queste ricerche è dunque più che legittimo e comprensibile perché forse è la prima volta - almeno con questa evidente e diretta correlazione - che studi condotti principalmente in relazione alle esperienze e realtà delle aree protette di varie parti del mon do forniscono conoscenze, indicazioni valide per le politiche generali di intervento sul territorio. L'azione dell'uomo - come è detto nella introduzione del libro 'Reti ecologiche ed interventi di miglioramento ambientale' (MALCEVSCHI, BISOGNI, GARIBOLDI) 'ha trasformato in modo quasi completo gli ecomosaici naturali preesistenti, frammentandoli e lasciando solo un numero limitato di aree naturali relitte'La continuità dell'habitat è una condizione fondamentale per garantire la permanenza di specie su un dato territorio; occorre pertanto perseguire la realizzazione (anche attraverso l'integrazione delle aree relitte esistenti) di una rete continua di unità ecosistemiche naturali o paranaturali in grado di svolgere ruoli funzionali necessari ad un sistema complesso'. Alla luce di queste analisi non sorprende che anche le aree protette, e non soltanto quelle di piccola o media dimensione, ma anche quelle grandi americane e di altri continenti risultino 'vulnerabili' alle molteplici 'aggressioni' derivanti da ricadute di fenomeni ' lontani' (piogge acide etc.) e soprattutto 'vicini' dovute a quella fitta presenza di 'reti tecnologiche' e infrastrutturali che introducono 'barriere', cesure nell'ambiente le quali producono a loro volta tipi diversi di danni vuoi perché minacciano fino alla estinzione specie animali e vegetali o, di contro, aprono le porte a specie infestanti etc. Partendo insomma dalle situazioni maggiormente protette si è potuto verificare quanto e come le discontinuità, le fratture prodotte negli ecosistemi dai molteplici tipi di intervento umano, l'isolamento cancellano o chiudono corridoi, connessioni, insidiano rifugi i quali non soltanto danneggiano la natura, ma spesso mettono a rischio la stessa sicurezza e incolumità delle popolazioni; inquinamenti, alluvioni etc. Da questi diversi studi abbiamo in definitiva una serie importantissima di conferme e cioè che solo impostazioni interdisciplinari e quindi politiche capaci di incidere sulla varietà e complessità delle situazioni sono in grado di conseguire risultati apprezzabili e significativi. È insomma la dimostrazione concreta di quanto fosse giusta la scelta che ha collocato e cerca sempre più di collocare anche le aree protette in una strategia non di separazione ma di integrazione degli interventi di protezione e tutela dell'ambiente. Grazie a queste ricerche alle quali hanno concorso studiosi delle più diverse discipline nei più diversi paesi abbiamo la incontrovertibile conferma che le 'isole' sono esposte non meno dalle aree esterne ai gravi rischi di 'interferenza'. Non solo, ma proprio partendo dalle particolari condizioni di una area protetta si è potuto verificare e accertare che soltanto nella corretta combinazione e integrazione degli interventi interni ed esterni agli ambienti sottoposti a speciale tutela si possono conseguire risultati efficaci per l'ambiente nel suo complesso. Per questo anche molti governi e l'Unione Europea hanno ritenuto necessario sulla base di questi risultati prendere opportune decisioni operative con specifici provvedimenti a cominciare dalle direttive comunitarie per mettere appunto in 'rete' tra di loro le aree protette e queste con i restanti territori. Ed è significativo che nel nostro Paese ma vi sono esempi non meno importanti in altri paesitali elaborazioni e decisioni siano state poste a base di interventi di pianificazione e progettazione in aree fortemente antropizzate e in grandi centri urbani. Si vedano a questo proposito i materiali di studio e gli atti del seminario della Provincia di Milano dedicati al piano territoriale di Coordinamento dell'area metropolitana milanese. Per la prima volta nell'area più congestionata del nostro Paese uno strumento di pianificazione viene studiato assumendo tra i punti principali di riferimento la presenza sul territorio milanese di un robusto sistema di aree protette regionali . Con questa impostazione si ridimensionano anche tutta una serie di polemiche sulla 'titolarità' dei piani che in più di una occasione hanno per così dire 'avvelenato' i rapporti tra livelli istituzionali tutti ugualmente gelosi delle proprie competenze e niente affatto disposti ad essere 'sottordinati ' specialmente nei confronti di enti non elettivi.

Dentro e fuori i parchi
Gli studi sulle reti ecologiche effettuati in questi anni e per lungo tempo sconosciuti ai più stanno fornendo da poco importanti 'scoperte' o conferme che si stanno rivelando ogni giorno di più preziosi anche per l'operatore istituzionale. Si prenda un tema sul quale tuttora si continua sovente a discutere in maniera piuttosto confusa: quello dell'ecosviluppo o sviluppo compatibile all'interno delle aree protette. C'è chi si chiede ancora se esso viene prima o dopo la conservazione e la tutela i quali - dovrebbe essere superfluo persino ripeterlo - restano indiscutibilmente il compito primario dei parchi. Non essendo chiara la connessione tra tutela attiva e compatibilità degli interventi; insomma se intervengo per mettere in sicurezza determinati ambienti, risanarli, ritanurarli, proteggerli (vedi per tutti l'agricoltura) essi non possono che essere 'compatibili' il che non esclude - al contrario - che possano risultarne benefici anche sotto altri profili: lavoro, qualificazione professionale etc. Invece c'è ancora chi si scervella magari per individuare all'interno dei parchi quali aree possano essere dedicate principalmente alla tutela e quali allo sviluppo dando alla zonizzazione una curvatura del tutto inaccettabile in quanto introduce appunto una separazione che sembra attribuire a certi interventi carattere 'compensativo', una sorta di male minore, una contropartita di cui non si può sfortunatamente fare a meno, per mettere al sicuro alcune aree. Ebbene la 'rete ecologica' alla luce di quanto abbiamo detto ha il merito di 'ricomporre' dentro e fuori le aree protette quello che taluni anche nell'ambito dei parchi continuano a considerare e vedere separati se non contrapposti. In breve, tutti gli interventi, anche quelli - anzi soprattutto quelli - riservati a infrastrutture e opere particolarmente 'pesanti', fuori dai parchi debbono farsi carico di esigenze ed effetti 'collaterali' finora considerati assolutamente irrilevanti o neppure considerati perché 'sconosciuti'. La progettazione anche delle reti tecnologiche non può e non deve ignorare la rete ecologica la quale, enfatizzando un po', potremmo dire che deve 'orientare', condizionare anche gli interventi più lontani e non soltanto quelli più prossimi o contigui agli ambienti protetti. Cambiano in sostanza le 'gerarchie' che presiedono agli interventi sul territorio perché essi ovunque siano effettuati, dentro o fuori un'area protetta, vicino o lontano da un centro urbano, debbono rispettare, uniformarsi a determinati parametri e valori. In questo modo si dovranno e potranno ottenere due risultati ugualmente importanti e virtuosi; minori effetti negativi collaterali all'interno delle aree protette, maggiore compatibilità nelle aree esterne anche meno pregiate con un miglioramento complessivo per il complesso del territorio e una conseguente minore pressione sulle aree più fragili e pregiate. Se qualcuno teme che in questo modo le aree protette perderanno qualcosa della loro 'specificità' e ne risulteranno in qualche misura ridimensionate sbaglia e di grosso. Il ruolo delle aree protette non è quello di fare da infermiere per le aree relitte destinate prima o poi a sparire per quello che avviene fuori. Il loro ruolo primario e più ambizioso è quello di riuscire a influire, sulla base innanzitutto di una maggiore conoscenza tecnicoscientifica di ciò che accade quando l'ambiente è gestito in un certo modo, sulle politiche generali. Ora queste non sono novità assolute perché come ben sappiamo da anni si è andata affermando in virtù di nuove leggi nazionali e regionali, ma soprattutto di nuove esperienze e approfondimenti culturali una concezione profondamente nuova e più complessa della protezione. La novità della rete ecologica o comunque il suo valore 'aggiunto' rispetto ad impostazioni già in notevole misura consolidate è dato dal fatto che oggi disponiamo di maggiori elementi conoscitivi, abbiamo per così dire molte più prove concrete, scientificamente testate per affermare che la via intrapresa è quella giusta. Non sembri poca cosa perché si tratta di un importante passo in avanti. E per quanto riguarda il nostro Paese potrebbe esserlo anche di più se disponessimo di strumenti che da troppi anni - come la Carta della Natura - si trascinano senza mai vedere la luce. Gli studi sulla rete ecologica sono diventati importanti anche per l'operatore istituzionale e non solo, quando sono usciti dalla clandestinità accademica. È anche questa una lezione (non la sola) di cui sarebbe bene fare tesoro. Se la rete ecologica è il felice risultato di una seria ricerca e sperimentazione di cui le istituzioni possono avvalersi e trarne tutte le implicazioni e conseguenze essa è anche la dimostrazione che nella rete non ci sono punti di 'comando' centrali da cui si diramano direttive o ordini per i numerosi e diffusi nodi che la costituiscono e ai quali se ne aggiungono sempre di nuovi. Nessuno è in grado di dire che la rete ecologica nasce in un punto, in una sede per finire in un'altra. Tutti quelli che stanno in rete sono importanti e chi frena in un punto danneggia tutti gli altri e i risultati complessivi. Come dice il Presidente della Regione Marche D'Ambrosio: 'non esiste e non può esistere una rete ecologica calata dall'alto, ma dovrà esistere e avrà un significato una rete ecologica che si costruisca attraverso una condivisione di obiettivi che vengono poi assunti dalle singole amministrazioni non soltanto a livello istituzionale ma anche un livello di realtà, di forze organizzate nella società'. E quando l'exassessore Pezzopane della Regione Abruzzo parlava di 'rete ecologica nazionale' come 'un passaggio epocale che ci permette di predisporre strumenti e idee adeguati al nuovo millennio', con l'immediato assenso del direttore del Servizio Conservazione della Natura Cosentino, può darsi che si sia un po' lasciata andare, ma individuava indubbiamente una opportunità unica. E tuttavia questi importanti riconoscimenti e apprezzamenti per la 'Rete Ecologica Nazionale' non devono far pensare ad una scelta ormai acquisita e scontata perché così ancora non è neppure per quanto riguarda l'impostazione generale e il percorso da seguire.

In risposta a Boitani
Ad esempio, in occasione del Congresso nazionale di Legambiente a Firenze e intervenendo in un dibattito sul tema, Luigi Boitani ha posto una serie di questioni e di interrogativi di fondo che lui stesso espone e approfondisce in questo numero di "Parchi". Parlando della conservazione delle aree protette quale caposaldo della conservazione tradizionale, Boitani sottolinea come essa presenti 'profondi limiti concettuali e pratici, soprattutto nel contesto italiano e europeo dove è difficile reperire aree vaste a sufficienza per permettere una conservazione della natura di sicuro significato biologico'. La ragione principale di questo 'limite' sarebbe da ricercarsi nel fatto che nonostante, il notevole incremento di aree protette in Italia, non abbiamo mai discusso né approvato alcun documento di programmazione che facesse riferimento ad un esame scientifico e tecnico della qualità, quantità, distribuzione e localizzazione delle aree protette italiane.

La critica non è certamente nuova e ad essa già in passato si è risposto sul piano politico ricordando come la istituzione dei parchi regionali prima, e poi di quelli nazionali ha dovuto sempre e inevitabilmente fare i conti con tanti fattori e condizionamenti e che la stessa 'conoscenza' dei luoghi che si andavano di volta in volta a perimetrare non era sempre adeguatamente supportata da validi studi e ricerche. Boitani vuole ricordarci un dato noto e cioè che parchi nazionali e regionali, riserve e oasi sono stati selezionati con motivi diversi, ma raramente sulla base delle esigenze reali della biodiversità. È bene non dimenticarlo, ma egli intende evidentemente sollevare un altro problema riguardante la Rete ecologica nazionale così come prospettata dal documento del Ministero dell'ambiente. Mentre qui infatti si considerano i parchi come nodi potenziali del sistema, Boitani contesta radicalmente l'assunto secondo cui le aree protette sarebbero i "centri di maggiore naturalità rispetto al resto del paese". Fare ruotare pertanto il sistema della rete ecologica nazionale intorno alle aree protette, le quali dovrebbero costituire la parte pregiata del territorio destinato alla conservazione, sarebbe un gravissimo errore perché per dimensione, forma, distribuzione esse pongono un serio limite ad ogni prospettiva di conservazione a lungo termine. È sbagliato in sostanza fare leva su aree protette piccole, frastagliate, distribuite senza una logica di sistema, istituite e formate più sulla base di valori estetici e di pressioni politiche, perché in questo modo si rende intrinsecamente debole e precario tutto l'impianto della rete ecologica nazionale. Le posizioni critiche di Boitani non mirano solo al cuore del problema ma si fondano su assunti, anche non strettamente scientifici, che non possono passare sotto silenzio. L'insistenza sulle imperfezioni, tare, casualità del nostro sistema di aree protette, note a chiunque operi nel settore, si caricano nella denuncia di Boitani proprio di quella 'astrattezza' che lui attribuisce ad altri. Ammesso anche - ma non concesso - che dalla comparazione tra aree protette e territori esterni dovesse risultare vero quello che Boitani non esclude, avremmo semplicemente la conferma che la nostra conoscenza del territorio nazionale è ancora così lacunosa da costringerci a navigare a vista. Ma se le cose stessero davvero così contestare con tanta radicalità la scelta di mettere le aree protette al centro di una azione volta chiaramente a uscire fuori dai perimetri protetti non si giustifica perché nell'incertezza generale i parchi rappresentano pur sempre un punto fermo per quanto lacunoso e imperfetto. A cosa e a chi gioverebbe infatti, non dirò escludere, ma anche soltanto rendere meno centrale e diretto il ruolo delle aree protette? Ma seguiamo ancora Boitani nel suo ragionamento quando ci invita a dimenticare per un momento l'esistenza delle aree protette e affrontiamo il territorio nella globalità. L'Italia è un paese ricco di vaste aree che possiamo definire a 'naturalità' diffusa; ad una idea di 'naturalità' che si rappresenta in alcune grandi aree protette (i parchi etc.) o in alcuni ristretti luoghi ove si concentrano particolari valori naturalistici, storici e culturali, si può accostare un'idea di 'naturalità diffusa', di frammistione tra fenomeni antropici e naturali che non raggiunge livelli di incompatibilità reciproca. Data questa situazione di naturalità diffusa che costituisce una matrice, la quale probabilmente copre la maggior parte del territorio nazionale e dalla quale emergono in positivo alcuni centri di particolare concentrazione di biodiversità e, in negativo, le aree compromesse da un eccessivo degrado, Boitani si chiede perché non partire da qui per disegnare le reti che interessano le varie porzioni di territorio un inviluppo di aree e corridoi che lascerà intoccate solo le aree di maggiore urbanizzazione o intensiva o troppo degradata. Così facendo potremmo agire più liberamente, senza essere costretti a passare obbligatoriamente per le aree protette, guidati unicamente dalle esigenze delle specie e le idoneità ambientali. Ma anche dopo avere letto queste specificazioni continuiamo a non capire quali 'vantaggi' offrirebbe l'alternativa proposta da Boitani. In concreto, se abbiamo capito, dovremmo 'spalmare' il nostro intervento o meglio 'partire' da un territorio molto più esteso comprendente anche le aree protette che però perderebbero quella 'preferenza' ora accordatagli. Ora, una ipotesi del genere sarebbe giustificata a nostro avviso soltanto nel caso in cui le aree protette del nostro Paese non presentassero nessuna differenza rispetto al restante territorio e fossero addirittura in taluni casi 'peggio' del resto. Ma con tutto lo sforzo che possiamo fare per non imbellettare la situazione a noi sembra che le aree protette nel loro complesso presentino un 'di più' innegabile, che le colloca in una posizione privilegiata, ma anche di maggiore responsabilità specie sotto il profilo istituzionale. Perché rinunciare a mettere in gioco con un ruolo di punta il sistema delle aree protette che sarà pure pieno di difetti, ma rappresenta pur sempre il comparto più preparato e attrezzato per misurarsi con i problemi delle reti ecologiche? Come si può ignorare - comunque si giudichi la conformazione e gestione delle aree protette - che esse rappresentano nel loro complesso i territori maggiormente studiati e monitorati anche e soprattutto in quei settori che anche Boitani considera decisivi per la rete? Tutti concordano nel dire, ad esempio, che gli studi sulla fauna e non solo quella selvatica in Italia lasciano molto a desiderare. Vero. Ma non è forse vero che nelle aree protette - non in tutte ovviamente - queste ricerche e monitoraggi sono più avanzati o comunque meno arretrati? E allora perché non avvalersene tenendo conto che gli strumenti anche normativi in base ai quali si muovono le istituzioni nelle aree protette sono più 'avanzati', specializzati, dotati sotto il profilo della tutela e della protezione a tutto campo? Dice Boitani per la conoscenza/monitoraggio che una corretta impostazione del problema ha scarse possibilità di riuscita senza la massiccia mobilitazione dei migliori centri di ricerca del paese e senza la messa in opera di un piano di monitoraggio costante ed efficiente. È vero. Ma non è forse vero che le aree protette da questo punto di vista sono già in moltissimi casi impegnate seriamente -sicuramente più di altre istituzioni - su questo terreno in cui la 'collaborazione' con gli istituti di ricerca viene 'normalmente' sperimentata? In conclusione a noi sembra che pur muovendo da preoccupazioni e rilievi critici in tutto o in parte condivisibili Boitani sottovaluti il valore e il significato del ruolo 'primario' - non certo esclusivo - delle aree protette non soltanto come 'scrigno' di biodiversità, ma soprattutto come istituzioni specializzate il cui impegno può e deve essere determinante nell'aggregare, raccordare tutti i nodi della rete. Forse non è inutile ricordare che la istituzione di una area protetta non risponde unicamente alla esigenza di 'proteggere' più efficacemente un territorio particolarmente pregiato ma anche di investirvi in mezzi e risorse 'istituzionali' per una gestione 'speciale'. E poiché la Rete ecologica è la costruzione di un sistema di 'rapporti' e interventi e non semplicemente una 'mappatura' della realtà, è evidente che gli organi di gestione dei parchi hanno un ruolo assolutamente speciale tanto più incisivo e qualificato quanto più il loro territorio è 'ricco' di valori.

I conti col territorio
Anche altri autori, pur non spingendo l'analisi alle estreme conseguenze di Boitani, sono critici sul sistema delle aree protette di cui peraltro riconoscono però il ruolo fondamentale. In un recente numero della rivista del WWF "Attenzione" pure dedicato al tema delle reti ecologiche, Adriano Paolella ritiene ad esempio che la 'gravità della situazione è anche rileggibile dalla distribuzione delle aree protette; frammentate, casuali, di ridotte dimensioni, anche la loro esistenza risponde alle garanzie di redditività dei terreni e di possibilità per ciascun individuo di trasformare, garanzie che il modello ritiene indiscutibili'. In questo caso la critica alla 'composizione', diciamo così, delle aree protette, le caratteristiche dei territori sottoposti a tutela non dipenderebbero tanto dalla insufficiente o approssimativa conoscenza dei 'luoghi' bensì dal fatto che nel 'perimetrare' le aree dominate dai processi residenziali, agricoli, produttivi, si aliena dal loro interno qualunque elemento o fenomeno che riduca la redditività specifica della merce o della funzione'. In questa situazione 'per permettere la composizione di una rete ecologica, il miglioramento degli attuali livelli di naturalità, la conservazione e qualificazione dell'ambiente, bisogna modificare il modello'. Qui si toccano nodi niente affatto tecnici o di inadeguata conoscenza bensì 'le voglie della collettività' e come si cerca di accontentarle. L'azione da avviare quindi per Paolella concerne il problema 'dell'esistenza di superfici non insediate, non parcellizzate, non degradate, non artificializzate, garantendo il mantenimento di una quantità significativa e contemporaneamente affrontare il problema del livello di naturalità in esse presenti, intervenendo per la conservazione e riqualificazione'. E qui, va pur detto, si ritrova l'eco di posizioni non nuove le quali sembrano puntare sulla acquisizione, messa in sicurezza delle aree 'relitte' piuttosto che la messa in rete di ambienti anche con connotati e requisiti meno 'nobili'. Posizione, questa, che può andar bene per le eccezioni ma non per la regola. Va anche detto che queste diverse valutazioni o approcci al tema della rete ecologica non ne mettono in discussione la validità in quanto tutti concordano sul fatto che in conseguenza delle molteplici e profonde trasformazioni intervenute nella realtà 'parlare di qualità morfologica dell'ecomosaico significa affrontare preliminarmente il problema della frammentazione delle aree naturali, causa prima della criticità associata all'artificializzazione del territorio'. In conclusione va operata 'l'individuazione delle diverse tipologie dei fattori sui quali si inserirà la rete o comunque dei quali la rete dovrà tenere conto (compresa in ogni caso l'ampia categoria dei condizionamenti locali, di tipo sia ecologico sia politicoamministrativo)' come ad esempio i vari dispositivi amministrativi quali i Piani Territoriali di Coordinamento, Piani Agrofaunistici provinciali, etc. In questo contesto, analizzando più specificamente i vari tematismi di pianificazione settoriale, può essere utile considerare preliminarmente la pianificazione delle aree protette come si è fatto negli studi sul piano dell'area metropolitana milanese. 'Gli istituti tutelati sono infatti quelli che meglio garantiscono obiettivi specifici di biodiversità, costituendo quasi sempre i principali serbatoi di diffusione; essi saranno di regola il riferimento primario per la progettazione delle reti funzionali' e anche per quanto riguarda il rapporto con la pianificazione paesistica. Ci sembra questa una impostazione molto corretta che tiene conto di tutti i fattori in campo, riconoscendo - a differenza di quanto fa Boitani - un ruolo molto importante e peculiare alle aree protette. Inutile dire che la scala subregionale deve poter contare - e concorrere a costruire - la rete regionale e nazionale: due dimensioni che presentano ancora maglie tutt'altro che definite e solide. Ma una volta tanto, pur non stendendo alcun velo pietoso sulle cose che ancora non vanno, va detto che ci sono oggi le condizioni per fare tutti insieme uno sforzo nella giusta direzione.

Appuntamento a Gargnano
Le nuove normative e indicazioni comunitarie, i progetti di area vasta riguardanti le Alpi, l'Appennino e le Coste (CIP) rappresentano occasioni uniche e irripetibili per dare il massimo di concretezza a livello nazionale, regionale e locale al discorso sulla rete ecologica. All'interno di que ste larghe maglie tuttora ancora troppo indefinite e incerte per quanto concerne risorse e cadenze, va pienamente recuperato l'impegno per una pianificazione e progettazione che sappia mettere appunto in rete tutti quei fattori ai quali abbiamo accennato nel corso di questa nota. Guai a prestare orecchio alle troppe sirene che tornano a decantare politiche anche per le aree protette e più in generale per le istituzioni 'libere dai lacci e lacciuoli' della pianificazione. Nei mesi scorsi a Roma sono stati presentati i piani territoriali messi a punto in tempi encomiabili da alcuni parchi nazionali tra i più giovani, mentre continuano a mancare all'appello proprio i più anziani, compresi quelli che molto presuntuosamente rivendicano - un giorno sì e l'altro pure - primati cartacei. Si è trattato della risposta più convincente e valida a chi preferirebbe affidarsi al giorno per giorno senza troppe ambizioni e progetti. Ora però dobbiamo riuscire a innescare questi piani, già frutto di una fertile collaborazione con le istituzioni, in quella più ampia trama costituita dalla rete ecologica. Una collaborazione che ha visto in tutti casi il coinvolgimento di ricercatori i quali anche nell'ambito universitario stanno lavorando sui problemi delle reti in maniera una volta tanto non 'chiusa' e accademica. Voglio sottolineare anche questo aspetto che credo molto importante perché la 'rete' può essere anche da questo punto di vista estremamente positiva in quanto può aiutare a 'saldare' ambienti che con molta fatica riescono normalmente a stare appunto in 'rete'. Penso in particolare a iniziative che talune Università stanno portando avanti d'intesa con le stesse istituzioni come l'Università di Padova con il prof. Franco Viola che non a caso è stato anche tra i protagonisti del piano del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Il Centro Studi Valerio Giacomini, consapevole della portata anche istituzionale di questi temi, ha deciso di dedicare le sue due iniziative annuali; quella di giugno al Parco dell'Aspromonte e a ottobre nell'appuntamento tradizionale di Gargnano ai problemi delle reti. Saranno queste sicuramente due occasioni in cui ricercatori e amministratori potranno mettere a confronto opinioni ma anche esperienze di cui i parchi in particolare potranno giovarsi nell'assolvimento dei loro non facili compiti.

* Direttivo Federparchi

 


 

Reti ecologiche e governo del territorio
Roberto Gambino*

Proprio il successo e la crescita delle aree protette hanno evidenziato la necessità di andare oltre i parchi. E la concezione delle reti ecologiche comporta una ridefinizione del loro ruolo.

Nell'ultimo decennio, il concetto delle reti ecologiche ha assunto un posto di rilievo nelle "retoriche ambientali" contemporanee, soprattutto in relazione a due esigenze crescentemente avvertite:

- l'esigenza, sottolineata a Rio nel 1992, di "territorializzare" le politiche di conservazione della natura e di tutela ambientale, vale a dire di calarle nelle concrete realtà territoriali, integralmente considerate coi loro problemi di sviluppo economico e sociale, le attese ed i bisogni delle comunità locali;

- l'esigenza di considerare unitariamente i sistemi di tutela e protezione, concependo i parchi e le singole aree protette come parti inseparabili e interconnesse dell'"infrastrutturazione ecologica" complessiva del territorio. Tuttavia, nel passaggio dalle formulazioni astratte e dalle dichiarazioni di principio ai progetti e programmi di concreta realizzazione (passaggio che anche nel nostro Paese si sta ormai concretando, sia a livello nazionale - per iniziative del Ministero dell'ambiente e dell'Anpa - sia a livello regionale e locale) non si può evitare di imbattersi in confusioni, equivoci e vaghe ambiguità che rendono assai ardua ed improbabile la soddisfazione di entrambe le esigenze. L'opportunità di un ripensamento critico, con approccio ampiamente interdisciplinare, del concetto delle reti ecologiche, al fine di precisarne il ruolo ed i contenuti, sembra quindi imporsi tanto più quanto più ci si avvicina alla loro interpretazione progettuale ed operativa. Non è un caso che, passati i primi facili entusiasmi, i dubbi e le incertezze sulla loro concreta configurazione si addensino proprio in quelle esperienze che a varia scala - dal disegno dei reticoli locali ai piani dei parchi ai progetti di grandi sistemi territoriali, come ti picamente il progetto APE - tentano di tradurle in scelte strategiche ed operative. Nel tentare un chiarimento, non si può prescindere dal constatare che l'interesse per le reti si situa in un contesto politicoculturale che ha visto dilatarsi progressivamente il principio di conservazione, per effetto di due movimenti convergenti, quello della conservazione della natura e quello della conservazione del patrimonio culturale. Da un lato, infatti, a causa soprattutto della diffusione dei rischi ambientali e della complessificazione dei processi di degrado, la conservazione "per isole" (aree protette, habitat di particolare interesse, specie minacciate) ha ceduto progressivamente a preoccupazioni conservative estese all'intero territorio. Paradossalmente, proprio il successo delle politiche dei parchi, con l'aumento spettacolare del numero e della superficie delle aree protette (sorte sempre più spesso in territori altamente antropizzati e quindi particolarmente esposte ai rischi dell'"insularizzazione") verificatosi in tutta l'Europa negli ultimi trent'anni, ha potentemente contribuito ad evidenziare la necessità di "andare oltre i parchi" (Romano, 1996) estendendo le misure di protezione ai territori esterni: non solo con l'istituzione di "buffer zone" attorno alle aree protette, ma anche con politiche più ampie ed incisive, quali appunto quelle centrate sulle reti di connessione diramate sull'intero territorio (CedPpn, 1996,1998). Ma dall'altro lato e quasi contemporaneamente, anche le politiche di tutela del patrimonio culturale sono state attraversate da un'impetuosa dilatazione del campo d'attenzione. Le istanze conservative, che ancora pochi decenni orsono facevano perno sul concetto di "monumento", in quanto oggetto di intrinseco valore, ben distinto e staccabile dal contesto, hanno fatto crescente riferimento a sistemi di beni e strutture aggregate come i centri storici, trovando infine nei territori storici, latamente intesi come espressione complessa delle culture locali e dei valori identitari, il loro più appropriato radicamento (Ancsa, 1997). Entrambi i movimenti, quello concernente i valori naturali e quello concernente i valori culturali, convergono nel restituire centralità alla dimensione territoriale ed al governo del territorio. Tra i due movimenti è facile scorgere non soltanto ovvie analogie ma anche crescenti interferenze. Così l'attenzione che, soprattutto da qualche anno, ecologi e biologi stanno portando sui rapporti tra la diversificazione biologica e la diversificazione storica territoriale dei fenomeni d'antropizzazione e delle culture locali, conferisce alle peculiarità ed ai caratteri identitari del territorio significati complessi, che sono insieme ed inestricabilmente "culturalinaturali": è nel territorio che la biodiversità si stringe alla diversità culturale. Il concetto di "naturalità diffusa" su cui Boitani ed altri insistono da qualche tempo si situa precisamente al centro di questa prospettiva. Ma più in generale è il concetto di paesaggio - nella declinazione ampia e comprensiva proposta nel 1998 dal Consiglio d'Europa per la Convenzione Europea del paesaggio: CE, 1998 - ad accogliere la convergenza dei due movimenti sopra citati. È importante notare che questa convergenza va al di là dell'interpretazione ecologica del paesaggio, quale "sistema di ecosistemi". Essa investe il paesaggio "in quanto componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale, ecologico, sociale ed economico e fondamento della loro identità" (art. 5) e "riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani" di tutto il territorio (art. 2). La prima Conferenza Nazionale sul Paesaggio, del 1999, ha consolidato anche nel nostro Paese questa prospettiva ampia ed integrata, aperta sulla complessità dei processi territoriali che formano il paesaggio. È in questa prospettiva, al di là delle tradizionali distinzioni tra natura e cultura, tra "physis" e "logos" (emblematicamente rappresentate negli opposti stereotipi del parco naturale e del centro storico), che si pone oggi il principio di conservazione. Ed è quindi in questa più ampia prospettiva che anche il tema delle reti ecologiche dovrebbe, a mio avviso, essere ricollocato.

Una metafora di successo
Le reti ecologiche sono una soltanto delle numerose espressioni che la metafora della rete ha co nosciuto negli ultimi decenni. A partire dalla constatazione che "la nostra società funziona sempre più per reti" (Cnrs, 1990), le interpretazioni reticolari dei fenomeni contemporanei si sono moltiplicate nei più diversi domini disciplinari. Alle concettualizzazioni classiche delle reti infrastrutturali, delle reti dei trasporti e delle reti di comunicazione (ivi comprese quelle "immateriali", sempre più importanti e articolate), si sono affiancate le interpretazioni reticolari della fenomenologia urbana (Dematteis 1984, Camagni 1994), quelle relative al mondo delle imprese (le reti di imprese e le impreserete) e delle relazioni economiche e finanziarie, quelle relative alle attività socioculturali ed ai sistemi di beni culturali, o quelle relative alla fenomenologia turistica ed alla fruizione sociale (ricreativa, paesistica, culturale ed educativa) del territorio. Alle reti che connettono fatti od oggetti fisici si sono affiancate, spesso con seducenti intersezioni, le reti tra soggetti individuali e collettivi (come le comunità urbane o i centri di decisione o di ricerca), alle reti materializzabili sul territorio quelle che comportano essenzialmente flussi o scambi immateriali, alle reti che connettono fatti "naturali" (come tipicamente le reti ecologiche) quelle che collegano fatti "culturali" o che riflettono sistemi di relazioni consolidatisi nel corso della storia (come ad esempio le reti ecomuseali). Alcune di queste interpretazioni si sono tradotte in apparati concettuali relativamente organici e rigorosi, mentre altre hanno conservato un carattere essenzialmente metaforico, non lontano dai contenuti poetici, simbolici o mitologici talora evocati dalla letteratura, come le affascinanti "vie dei canti" degli aborigeni australiani, che trasformano il "paese" in reticolati di percorsi di popolazioni non stanziali (Chatwin 1988). Sebbene queste diverse interpretazioni siano maturate in contesti disciplinari profondamente diversi, esse presentano alcune interessanti analogie e condividono almeno parzialmente alcune proprietà, prima fra tutte quella che concerne il ruolo della connettività (e delle ridondanze, ossia della ricchezza delle alternative di connessione) come chiave esplicativa della funzionalità sistemica e delle potenzialità evolutive. È soprattutto questo aspetto che pone in stretta relazione le interpretazioni reticolari più interessanti ai nostri fini, come quelle delle reti urbane, delle reti infrastrutturali, delle reti di fruizione e, appunto, delle reti ecologiche. L'interesse attuale di queste interpretazioni sembra essere legato, in tutti i casi, alla rilevanza dei processi di diffusione (degli insediamenti, delle infrastrutture, delle forme di mobilità e di fruizione turistica e ricreativa, delle stesse aree protette): processi di diffusione che, come sappiamo, negli ultimi trent'anni hanno preso il soppravvento su quelli di crescita concentrata che avevano pesantemente caratterizzato gli sviluppi precedenti. Questa comune ragione d'interesse, che attraversa le diverse interpretazioni reticolari, sembra indurre ad un'interpretazione unificante, che le colleghi in un'unica chiave interpretativa, pensando la realtà ambientale come una "rete di reti", formata da una molteplicità (teoricamente infinita) di reti diverse per scala, ampiezza e natura. Incidentalmente si potrebbe notare che questa interpretazione non farebbe che dilatare, nei paesaggi manipolati dall'azione antropica, le considerazioni di Boitani ed altri sulla concezione delle reti ecologiche come "inviluppo di infinite reti monospecifiche" (Boitani 1999). A prescindere dalle implicazioni teoriche (Gambino 1994), ciò che in ogni caso sembra emergere è che le reti ecologiche non stanno da sole: sono reti tra reti, collegate sia verticalmente (tra reti ecologiche di scala diversa: locale, regionale... globale) sia orizzontalmente, con una molteplicità di reti di altra natura che investono i medesimi territori. Ma è subito evidente una netta differenza: mentre la reticolarizzazione urbana ed infrastrutturale "segue" ed asseconda la diffusione dell'urbano concorrendo a darle forma, le reti ecologiche tendono a "contrastare" la frammentazione e l'isolamento dei fatti naturali, causati principalmente dalla diffusione stessa delle azioni, delle pressioni e delle interferenze antropiche. È questa funzione di contrasto nei confronti dei cambiamenti accelerati prodotti dall'uomo (che si traducono in perdita degli habitat, o in riduzione della loro dimensione, o in aumento del loro isolamento e quindi del rischio d'estinzione) a caratterizzare il ruolo delle connessioni ecologiche (Iucn, 1999). E questa funzione di contrasto va tenuta ben presente nel momento in cui si tenta di capire i nessi che legano, alle varie scale, le reti ecologiche alle altre reti. In particolare, va tenuta presente quando si tende ad arricchire o dilatare il concetto delle reti ecologiche, attribuendo loro altre molteplici funzioni connettive, che vanno molto al di là di quelle strettamente inerenti la funzionalità ecosistemica. Di questa tendenza si colgono tracce nelle stesse linee guida del Ministero (Min. amb, 1999), ove tra le componenti della rete nazionale si considerano (comprensibilmente) beni e connessioni ad es. di valore storicoculturale; e, più vistosamente, nei programmi regionali per le reti ecologiche che (ad es. in Campania) mirano a "realizzare un sistema integrato di conservazione e valorizzazione delle risorse naturali e culturali promuovendo i processi di sviluppo locale". Questa tendenza, d'altronde, va incontro ad un movimento importante, nato nell'ambito della landscape ecology e del landscape planning, volto alla valorizzazione delle "reti ambientali". È un movimento che vanta illustri ascendenze (basterebbe pensare alle parkways e ai park systems di F.L.Olmsted ed altri della seconda metà dell'ottocento), che ha dato luogo alle suggestive proposte di "environmental ways" (Eways) di Philip Lewis negli anni '60 e che ritroviamo anche nelle recenti sperimentazioni nordamericane delle Greenways (tipicamente nella più importante, l'Hudson River Greenway). In questa prospettiva, le motivazioni e gli scopi delle reti vanno assai oltre quelli strettamente ecologici e la connettività che si vuole ottenere fa riferimento non solo ai canali biotici ma anche alle fasce di continuità paesistica, ai percorsi storici (strade, trazzere, collegamenti antichi), ai canali di fruizione visiva, ai sentieri pedonali, ciclabili ed equestri, ecc. Lo spostamento d'enfasi o d'attenzione dalle reti ecologiche a quelle più latamente "ambientali" non ha nulla di sorprendente, alla luce di quegli intrecci naturacultura che si son prima ricordati e che la realtà empirica ci mette continuamente sotto gli occhi: a scala continentale, ad esempio, i grandi sistemi montuosi come le Alpi o gli Appennini si configurano non solo come strutture fondamentali per il riequilibrio ecologico ma anche come complessi ed unitari edifici antropologico culturali; le grandi fasce fluviali non sono soltanto componenti di base del sistema idrografico ed ecologico, ma anche le "rotte della civiltà" e spesso la sede di itinerari di senso e di percorsi rivieraschi che ribattono profonde continuità storicoculturali (i "trail" lungo l'Hudson come celebrazione della storia della civilizzazione nordamericana); a scala locale, basta l'esempio dei percorsi storici di salita al Vesuvio, che insistono sulle linee di deflusso delle "cupe" o dei "regi lagni". Ma questo spostamento d'attenzione, per quanto motivato, può essere molto fuorviante se porta a nascondere od offuscare le ragioni specifiche delle connessioni ecologiche ed i loro possibili contrasti con quelle della fruizione e dello sviluppo: se, in particolare, porta a sottovalutare, in nome di confusi genericismi, la necessità di specificare tali ragioni, in funzione delle concrete esigenze di gestione ecosistemica (a partire dalle "specie critiche"), come Boitani ha ben argomentato. Guai se tutto si risolvesse nel passar la mano dagli ecologi agli architetti del paesaggio. La concezione della "rete di reti" non deve affatto indurre a fare di ogni erba un fascio, al contrario deve spingere ad articolare le analisi e le proposte, cogliendone tutte le sinergie e le possibili interferenze.

Partire dal territorio, non dai parchi
Sembra evidente che la concezione delle reti ecologiche comporta la ridefinizione della concezione dei parchi e delle aree protette. Non solo nel senso che essa, almeno in parte, "nasce" proprio da quel profondo ripensamento del ruolo e del significato dei parchi naturali che è maturato, soprattutto in Europa, nel corso degli ultimi decenni (non a caso quelli, come si è già notato, del loro maggior sviluppo) e che ha messo fuori uso le immagini tradizionali dei santuari della natura, delle isole felici, dell'arca di Noè, ecc.; ma anche e soprattutto nel senso che induce a ribaltare il punto di vista, a partire dal territorio, anzichè dalle aree protette, per costruire una visione di sistema. Un po' schematicamente, è il passaggio dal paradigma "insulare" al paradigma "continentale" (Bennett 1991, CedPpn 1996, Soulé e Terborgh 1999, Massa 1999). Da questo nuovo punto di vista, ovviamente, i parchi possono essere pensati come nodi eccellenti delle reti su cui si fonda lo sviluppo sostenibile dell'intero territorio. Ciò non implica alcuna sottovalutazione del ruolo che essi possono continuare a svolgere per la conservazione e la valorizzazione di complessi preziosi di risorse natu rali e culturali. Ma - da questo punto di vista - non si può evitare di chiedersi: qual'è il ruolo specifico che i parchi son chiamati a svolgere? quali sono le missioni che solo i parchi possono efficacemente svolgere in questa prospettiva? Quale la loro ragion d'essere nell'ambito di strategie conservative coerentemente estese all'intero territorio? La risposta che viene spesso data è che i parchi e le aree protette sono appunto i nodi delle reti ecologiche. Se con questo si intende dire che i nodi delle reti necessitano di qualche forma di protezione, si tratta quasi di una tautologia. Ma se si intende dire che i nodi delle reti sono tutte e solo le aree che godono o che dovrebbero godere di una "speciale" protezione istituzionale (rientrando nelle varie categorie di aree protette che le diverse legislazioni riconoscono) allora quella risposta può essere messa in dubbio. L'idea che i parchi e le aree protette possano essere considerati come le sole o le più importanti riserve di valori naturali o paesistici è certamente difficile da sostenere, almeno nel panorama europeo: le indagini svolte dal CedPpn (1996) sui parchi europei mostrano che gran parte di essi sono ben lungi dal presentare lembi incontaminati di natura e che spesso si riconoscono nei territori esterni situazioni di naturalità assai migliori di quelle riscontrabili all'interno (d'altra parte, perché il Gran Paradiso e non il Monte Rosa o il Monte Bianco? Perché la fascia del Po piemontese e non quella del Po lombardo ed emiliano?). Anche chi reputa l'insieme dei parchi italiani ed europei uno "splendido mosaico" è costretto a riconoscere che l'interesse naturalistico o paesistico non può essere confinato nelle aree protette; e che, anzi, non vi sono ragioni sufficienti per pensare che tale interesse debba essere sempre e soltanto tutelato con l'istituzione di aree protette (anziché, ad esempio, con semplici misure di dissuasione o con misure di disciplina degli usi del suolo). Ma, soprattutto, l'idea che le reti ecologiche possano ridursi all'interconnessione delle aree protette istituzionali sembra celare la persistenza di quella pervicace separazione dicotomica tra "ciò che va conservato e ciò che può essere buttato" che caratterizzava appunto la concezione "insulare" della conservazione. Mi sembra necessario insistere sul fatto che il superamento della concezione "insulare" non può non comportare una revisione radicale del campo d'applicazione e quindi del significato stesso della conservazione in rapporto ai processi innovativi. È una revisione che ha grande rilievo teorico, come ho cercato di mostrare in altre occasioni (Gambino, 1997), ma anche grandi riflessi pratici. In particolare, essa implica che le reti ecologiche non si fermino ai confini delle grandi aree urbane e metropolitane o dell'agricoltura intensiva, come se ciò che avviene all'interno di tali aree non avesse rilievo per gli equilibri complessivi del territorio. Al contrario, essa implica che il miglioramento delle prestazioni ambientali dell'agricoltura industrializzata (compresa quella in serre), la costruzione dei sistemi del verde metropolitano ed i programmi di "greening" delle città, la ripermeabilizzazione ove possibile delle aree edificate, ecc., formino parte integrante della realizzazione e tutela delle reti ecologiche. Non deve sfuggire il fatto che è soprattutto in queste aree che si producono i cambiamenti ambientali più rischiosi e devastanti, in termini di distruzione di risorse non rinnovabili, di emissioni inquinanti, di alterazioni irreversibili dei metabolismi territoriali. Il recupero ambientale delle città, epicentri dei processi di degrado, il contenimento dell'"impronta ecologica" dei processi urbani, la manutenzione e la gestione prudente dei territori rurali, che ospitano tanta parte della biodiversità e costituiscono le matrici di fondo della naturalità diffusa, non sono cose "altre" dalla realizzazione delle reti ecologiche; ne rappresentano, per così dire, la "sostanza areale". Se si vuol davvero uscire dalla vecchia concezione "insulare" della conservazione, bisogna abbandonare l'idea che il territorio possa dividersi in aree da conservare gelosamente (e perciò da interconnettere) ed altre da sviluppare non importa in che modo: tutto il territorio deve essere "conservato", prendendone cura nei modi più opportuni in funzione dei caratteri, delle potenzialità, dei problemi e dei rischi che ciascuna area presenta. Esattamente come la cura e la tutela del paesaggio - secondo le raccomandazioni del Consiglio d'Europa - non si esauriscono nella conservazione dei "bei paesaggi" (o dei paesaggi "straordinari", di eccezionale pregio, ancorchè meritevoli del riconoscimento di "paesaggi europei") ma devono riguardare l'intero territorio europeo. È in questa prospettiva - che possiamo definire "territorialista" - che si pone oggi, anche nel nostro Paese, il problema della ridefinizione dei rapporti tra conservazione della natura e governo del territorio. Essa vale per le politiche nazionali, a partire dal ruolo che la Carta della Natura dovrebbe finalmente svolgere ai fini della definizione delle "linee fondamentali d'assetto del territorio", nel senso ampio e comprensivo datogli dal d.lgs. 112/1998: ruolo che non sarebbe certo adeguatamente svolto se la Carta della Natura si limitasse ad individuare e caratterizzare gli "spazi naturali" o peggio ancora le "aree da proteggere" del territorio nazionale. Ma a maggior ragione questa prospettiva si impone per i progetti "di sistema" entrati a buon diritto nella programmazione dei fondi strutturali. Il caso del sistema appenninico, ossia del Progetto APE, su cui, a seguito di importanti iniziative delle regioni interessate (Abruzzo per prima) e di Legambiente, il Ministero dell'ambiente ha recentemente avviato studi propositivi che coinvolgono un'ampia cordata di Università e centri di ricerca, è da questo punto di vista assolutamente esemplare. La valorizzazione che il progetto si propone (e che fin dal titolo - Appennino Parco d'Europa - ambisce ad una proiezione internazionale) non si può certo esaurire nel sistema di aree protette snodate lungo la catena montuosa, sebbene il prestigio, la densità e la continuità spaziale di tale sistema abbiano costituito fin dall'inizio una premessa importante per la credibilità e la fattibilità del progetto stesso. Il Programma d'azione approvato il 7/3/2000 dal Gruppo tecnico costituito presso la Commissione per lo sviluppo sostenibile del Cipe prevede infatti una serie di obbiettivi (valorizzare le risorse immobili, costruire un ambiente sociale adatto allo sviluppo, migliorare la qualità della vita nelle aree in ritardo, creare le condizioni per la promozione e la localizzazione di nuove iniziative imprenditoriali, ecc.) che pretendono una strategia "integrata" d'intervento, tale da investire, in modi assai articolati, l'intero territorio. Questa prospettiva "territorialista" implica certo un drastico ribaltamento: partire dal territorio anzichè dalle "isole". Ma non implica alcuna sottovalutazione del ruolo delle aree protette, al contrario consente di precisarlo e valorizzarlo. E vi sono almeno tre buone ragioni per farlo.

Le tre missioni di un'area protetta oggi
La prima è che le aree protette, in particolare i parchi nazionali e regionali, rappresentano aree di "regolazione speciale" delle dinamiche economiche e sociali, ai fini del governo del territorio: aree cioè nelle quali l'azione di governo, sia in termini normativi, sia in termini d'intervento economico diretto od indiretto, può essere resa particolarmente incisiva. L'esperienza di altri paesi, nei quali le politiche di vincolo sono state da tempo efficacemente collegate alle politiche di spesa, induce a fugare i dubbi e le perplessità che, a questo proposito, ancora circondano la maggior parte delle esperienze italiane. Nella ricerca dei sentieri dello sviluppo sostenibile - ricerca che, come si è sottolineato, non può che riguardare l'intero territorio - la regolazione speciale attuabile nelle aree protette può assumere grande rilievo, in considerazione: a) della notevole quota del territorio interessato (1920% secondo le stime del Ministero dell'ambiente, 1999, ma almeno il 25% del territorio nazionale se si includono anche le aree contigue, su cui la pianificazione dei parchi può esercitare una certa influenza, anche soltanto in base all'art. 32 l.394); b) del fatto che si tratta in larga misura di "aree perdenti", esposte a varie forme di declino economico, sociale e culturale, nelle quali quindi l'intervento pubblico è particolarmente atteso. Entrambe le circostanze sottolineano il ruolo che le aree protette, ed in special modo i parchi, possono svolgere come "laboratori" di sperimentazione di forme innovative di sviluppo sostenibile, in qualche modo esportabili al contesto territoriale. La seconda ragione di specificità del ruolo dei parchi sta nel fatto che essi rappresentano ormai una rilevante "soggettività territoriale", capace di intervenire autorevolmente nei dialoghi interistituzionali e nelle dinamiche interattive che guidano le trasformazioni del territorio. Sebbene la loro istituzione abbia in Italia seguito un processo a cascata, dall'alto al basso (raramente propiziato ed anzi spesso contrastato dalla spontanea coalizione di istanze locali), essi danno spesso voce e rappresentanza istituzionale ad interessi non campanilistici delle comunità locali, offrono spazi d'aggregazione che consentono di innescare processi di "empower ment", favoriscono il sorgere o il consolidarsi di una "corporate identity" e di un'immagine complessiva proiettabile con successo anche all'esterno. È questa la "speranza progettuale" che sta inaspettatamente emergendo soprattutto nelle regioni disgregate del Sud e nei territori montani dell'esodo e dell'emarginazione: la possibilità di "dar forza alle aree deboli". I parchi possono dare un contributo essenziale per la promozione dei valori, delle specificità dei sistemi e delle culture locali, evitando il rischio di chiusure nostalgiche e di sterili difese del passato e valorizzandone all'opposto la creatività e la progettualità. Pensati come nodi delle reti ecologiche od ambientali, essi non sono soltanto realtà fisiche come altri nodi, ma sono anche e prima di tutto - almeno potenzialmente - soggetti collettivi, in grado di esprimere capacità autoorganizzative rafforzate rispetto a quelle delle singole comunità locali che vi convergono. Mi pare sia questo ciò che mette bene in risalto Renzo Moschini quando evoca il loro ruolo "come istituzioni specializzate il cui impegno può e deve essere determinante nell'aggregare e raccordare tutti i nodi della rete". Ma la ragion d'essere principale, a mio avviso, dei parchi naturali va ormai ritrovata nel loro insostituibile ruolo simbolico, cognitivo e culturale: un ruolo che proprio l'espansione e la differenziazione della politiche conservative consente ora di mettere in evidenza, ma che fa parte della storia dei parchi. Un carattere distintivo dei parchi naturali è infatti, fin dalla loro nascita e lungo tutto il loro percorso evolutivo, il loro eccezionale valore simbolico. Un valore che va molto al di là di quello meramente ecologico, abbracciando la peculiare mescolanza di "bellezze naturali", singolarità paesistiche, significati storici e rilevanza culturale. Come traccia o memoria della nostra relazione con la natura, essi costituiscono potenti "metafore viventi" di una nuova possibile alleanza tra l'uomo e la terra. Questa missione non è lontana da quelle funzioni d'elevazione spirituale, celebrative ed educative che i "padri" dei grandi parchi ottocenteschi gli attribuivano; ma sta diventando sempre più importante per l'attuale società della comunicazione e dell'informazione, ed, a mio avviso, è destinata a prevalere su ogni altra missione "funzionale" nel prossimo futuro. Una nuova partnership tra processi naturali e processi sociali, una nuova capacità di "collaborare con la terra" (come dice l'Adriano della Yourcenar) richiedono una buona comprensione di come le dinamiche ecologiche ed i vincoli ambientali influenzano le scelte antropiche e sono da esse influenzate. I parchi naturali hanno rappresentato fin dalla loro nascita uno straordinario terreno di sperimentazione per la ricerca scientifica. La pianificazione e la gestione dei parchi hanno dato un contributo decisivo all'avanzamento della conoscenza scientifica ed ai tentativi di "progettare con la natura", come J. McHarg (1969) raccomandava. Questo contributo, sempre più insostituibile in Europa a causa della progressiva erosione e devastazione degli spazi naturali, è indissociabile da quello propriamente educativo. Nelle reti ambientali del prossimo futuro i parchi non potranno non qualificarsi come punti focali dell'educazione ambientale e dei processi d'apprendimento collettivo. Mediante le attività "interpretative" e di comunicazione sociale, essi possono aiutare significativamente la gente a reimparare a vivere in armonia con la natura, riverberando questa loro preziosa funzione simbolica, cognitiva ed educativa - attraverso le reti - sull'intero territorio.

* Politecnico di Torino

Riferimenti

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Il progetto dell'Anpa
Matteo Guccione* e Nicoletta Bajo**

Già dal 1996 l'Agenzia nazionale per la protezione ambientale ha avviato un progetto sulle reti ecologiche che si definisce complementare a quello del Ministero dell'ambiente. L'obiettivo? Perfezionare la sostenibilità ambientale degli strumenti di pianificazione locale.

È passato quasi un decennio dall'emanazione della leggequadro 394/91 sulle aree protette. Dieci anni. Un tipico e congruo lasso di tempo per fare un bilancio. Ognuno ovviamente ha in proposito una sua opinione ed è indubbio che nei prossimi mesi, di momenti di bilancio della l. 394, ne vedremo diversi.

Gioie e dolori della leggequadro
Si è certamente tutti concordi sulla positività di una legge così lungamente attesa e che indubbiamente, rappresenta una dotazione giuridica fondamentale per il nostro Paese. Uno strumento che ha permesso un notevole miglioramento delle politiche di conservazione della natura in Italia, senza tuttavia riuscire ad invertire completamente quello strano rapporto di consumo imponderato, e spesso d'abuso, delle risorse ambientali. Gran parte di coloro che seguono a vario titolo la materia non possono non ammettere che le attese createsi nel periodo d'approvazione della norma sono state in diversi casi deluse e molti, troppi problemi, si sono frapposti, e si frappongono tuttora, al raggiungimento dell'obiettivo finale di una vera tutela del nostro patrimonio naturalistico. È largamente condivisa l'opinione che molte delle difficoltà riscontrate derivino dall'impianto generale della legge che, nella preoccupazione di bilanciare esigenze ed interessi diversi, ha finito per dar origine ad uno strumento complesso ed articolato, polverizzandone le responsabilità e riducendo di molto gli spazi per una gestione imprenditoriale e dai tempi rapidi. All'interno poi dell'articolato della legge, ulteriori "debolezze" tecniche rendono difficili i percorsi applicativi e spesso lacunosi e vaghi, se non contraddittori, sono i risultati eventualmente raggiunti. Un riferimento esplicito può essere fatto ad una delle fasi topiche del processo che deve portare alla protezione di un'area: la cosiddetta zonizzazione, un argomento essenziale, che non ha subito cambiamenti anche se abbiamo avuto un aggiornamento della l. 394 nel 1998 (l. 426/98). Innanzi tutto va ricordato che la l. 394 ha una carenza di fondo rispetto al raccordo con gli strumenti ordinari di pianificazione territoriale. Quelli che trattano professionalmente quest'ultimo argomento, sanno quanto delicata sia ogni eventuale fase di modifica e/o adeguamento dell'esistente e quanto diventi arduo un qualsiasi tentativo, privo di solidissimi riferimenti. In tal senso la 394 lascia completamente scoperto l'aspetto del raccordo con l'iter di pianificazione esistente, limitandosi a proclamare una generale supremazia gerarchica e rimandando, di fatto, alla responsabilità e alla sensibilità dei gestori e dei professionisti di turno, ogni possibile soluzione e proposta di percorso attuativo. Il risultato più frequente di tale carenza è un ritardo strutturale iniziale, del processo di definizione dell'area da proteggere, che poi ingenera numerose "stranezze" e incongruenze dei piani finali, un risultato che possiamo notare in moltissimi dei parchi d'ultima generazione. Per quanto riguarda l'aspetto vero e proprio della zonizzazione, la riflessione va portata sul modello preso a riferimento che da sempre si rifà allo schema di classificazione dell'IUCN. Un approccio che però già da molto tempo ha mostrato i suoi limiti, tant'è che la stessa IUCN, nella consapevolezza dell'insoddisfazione spesso riscontrata nei tentativi d'applicazione dei propri schemi, ha nell'ultimo decennio, intensificato un lavoro di ricerca sperimentale con lo scopo di riuscire a proporre strumenti di tutela differenti, secondo i contesti in cui si va ad operare. C'è da ricordare che la concezione di zonizzazione "classica" ha origine in periodo in cui i protagonisti e le esperienze avevano prevalentemente storie legate ad ambienti lontani da quelli europei e mediterranei in particolare. Qui, con 8.000 anni di presenza costante di società umane organizzate, il paesaggio, estremamente parcellizzato, difficilmente si presta a modelli di pianificazione che tengono conto in modo impreciso della sua articolazione. Esso si presenta infatti come un complesso mosaico dove le superfici che includono biotopi e habitat di valore sono generalmente minoritarie e per lo più unitariamente poco estese e comunque non estese abbastanza da consentirne un autosostentamento ideale di specie ed habitat. Una situazione quindi poco idonea ad una tutela della biodiversità che debba far conto solo sulle porzioni di naturalità presenti all'interno della zona in considerazione.

Superare le "isole ambientali"
L'analisi dell'efficacia delle politiche di conservazione detta in situ, con la conseguente consapevolezza d'incertezza dei risultati (in virtù di quanto appena detto), ha avviato, a partire dalla fine degli anni '70, una discussione ampia ed articolata nel mondo dell'ecologia. Le previsioni di allora, oggi confermate dai fatti, parlano di percentuali plausibili di vincolo conservazionistico non superiori a 1015 punti rispetto ad ogni singolo territorio considerato. Tenendo conto che studi pure di quegli anni dimostrano che al di sotto del 30% di superficie protetta, il declino di specie e habitat sono in ogni modo inevitabili, oggi si cominciano a proporre nuovi approcci alla comprensione della funzionalità dell'ambiente e di come deve essere reinterpretata la teoria della conservazione. Per un tempo troppo lungo le esigenze realmente ambientali ed in particolare le specifiche esigenze ecologiche hanno avuto un'eco fievolissima all'interno della costruzione dei Piani. Il modo d'interpretare concetti quali la tutela e la trasformazione è stato ricondotto alla logica della separazione e specializzazione della zonizzazione, causando forti squilibri, in alcuni casi devastanti, ignorando e annullando uno dei caratteri strutturanti la fisiologia della natura: la connessione tra le diverse parti ed il tutto. Gran parte degli strumenti e delle norme di tutela dell'ambiente, della natura e del paesaggio dei Paesi occidentali si è sviluppata fino ad ora proprio sulla protezione di "episodi speciali", e su attribuzione di gradi di valore, favorendo così, il fenomeno "dell'isolamento ambientale". Sono stati segnati nettamente i confini di protezione per i parchi e le riserve naturali, disconoscendo in tal modo i fenomeni connessi alla sopravvivenza delle aree: le " relazioni", le "migrazioni" e le "dispersioni". È però ormai assodata la tendenza ad integrare o superare tale concezione e tale prassi. Il paradigma delle reti ecologiche rappresenta quindi un'importante evoluzione nell'ambito della disciplina pianificatoria, dovendosi questa basare su nuove forme di organizzazione del paesaggio, il cui punto di partenza è appunto la dimensione ambientale del territorio. I sistemi ambientali e naturalistici divengono, pertanto, i contenuti fondativi e strutturali dei piani di nuova generazione, ai diversi livelli e alle diverse scale. Nel concetto delle "reti ecologiche" un ruolo prioritario è quindi assunto dai parchi e dalle riserve naturali, che per loro caratteristiche territoriali e funzionali, rappresentano i nodi potenziali del sistema. Conseguenza logica sarebbe quindi che per i piani di gestione dei parchi l'obiettivo della conservazione contempli tutte le regole di salvaguardia ed interconnesione ecologica dell'area con il contesto, a garanzia della funzionalità ecologica interna ed esterna. È quest'ultima la raccomandazione prevista nell'Action Plan (approvato al Convegno Mondiale di Caracas), che nel definire le linee d'azione per la conservazione della natura prevede come uno degli obiettivi principali quello dell'inserimento delle aree protette in una più ampia pianificazione del territorio. Si deve pertanto tendere sempre più allo sviluppo del cosiddetto modello "a qualità diffusa", dove parchi e riserve strutturano una griglia di supporto ad un sistema complesso di relazioni tra componenti territorialipaesaggistiche di qualità, pur non essendo quest'ultime oggetto di specifiche forme di tutela, o di norme dal punto di vista vincolistico. "Creare la possibilità di ricostruire un paesaggio di tipo unitario, nel rispetto delle leggi fondamentali dell'ecologia e delle preesistenze culturali, garantendo la continuità delle relazioni ambientali, paesaggistiche, spaziali e funzionali fra aree limitrofe ma diversamente connotate: aree protette, aree agricole, zone umide, ecc.," - è così che si esprimono gli specialisti sulla riforma degli ordinamenti di tutela del paesaggio in Italia (Carta di Napoli, FEDAP - AIAPP, 1999). Occorre pertanto ribadire che la protezione di singoli "ambiti naturali" acquisisce di significato solo se si considera e contempla la dimensione naturalistica complessiva del territorio nel quale esse ricadono. Nella consapevolezza della non funzionalità delle proposte normative attuali riguardanti i singoli parchi, che ricalcano il proprio Piano sul modello dei piani urbanistici (distinzione e graduazione in zone), anche il mondo della ricerca urbanistica ha cominciato a considerare nuove teorie in materia di pianificazione di aree protette. Tra le proposte prese a riferimento, è da segnalare la cosiddetta teoria dei "parchi reticolari". Tale concetto si rifà alla proposta avanzata per il sistema delle aree protette francesi dal Groupe de reflexion sur les parcs nationaux secondo la quale, per un'esatta gestione del territorioparco, occorre distinguerlo in ambiti che a seconda la prevalenza, il tipo e valore delle risorse assumono una "vocazione dominante". In tal modo, ognuna delle aree avrà correlate le attività compatibili alla propria "natura", strutturando così un parco come sistema di relazioni tra aree a diversa vocazione, utilizzabili quindi in maniera differenziata. È questo un approccio che certamente più di altri può favorire e garantire le possibilità di valorizzare non solo le differenze ecologiche, nonché storiche e culturali del paesaggio. Anche in Italia, diversi gruppi di ricerca facenti capo al Dipartimento Interateneo Territorio e Ambiente del Politecnico di Torino seguono questa linea di sviluppo di proposte. Il Prof. Gambino testualmente cita: "In questo senso la rete degli spazi naturali è inevitabilmente una rete "progettata", un atto di geografia volontaria e non una semplice presa d'atto di vocazioni intrinseche, "date" sul territorio".

Ampia partecipazione degli attori locali
In considerazione di tutto ciò, a partire dal 1996 97 l'ANPA ha inteso inserire una sua iniziativa, a scala nazionale, denominata proprio "Reti ecologiche - Piano di attività per la definizione di strumenti in favore della continuità ecologica del ter ritorio", uno studio ispirato dai contenuti della direttiva 92/43 CEE sulla conoscenza degli habitat naturali e della flora e fauna selvatica (direttiva Habitat), ed in particolare dal progetto di NATURA 2000, la rete ecologica a scala europea. Per ciò che riguarda l'ambito italiano, il programma può considerarsi a complemento del progetto "Rete ecologica nazionale", del Ministero dell'ambiente. Questo infatti vede nella redazione della Carta della Natura (uno degli obiettivi della l.394) lo strumento d'individuazione dello stato dell'ambiente naturale in Italia, e che evidenzierà i valori naturali ed i profili di vulnerabilità del territorio, con un dettaglio a scala subregionale. Il progetto ANPA invece ha come intento quello di mettere a punto degli strumenti di supporto per la pianificazione a scala locale e che trae fondamento da esperienze realizzate, in modo reale o virtuale, da attori locali. Le diverse attività del Piano d'Azione dell'ANPA sulle reti ecologiche sono articolate in modo tale da ricondurre le molteplici proposte ed interventi ad un'unico obiettivo: il miglioramento in chiave ecologica degli strumenti di governo del territorio. A tal fine è stata prevista la più vasta ed assortita "partecipazione", così da promuovere una "qualità ecologica" intrinseca e diffondere i concetti di salvaguardia, nella previsione che debbano divenire strutturanti nella prassi pianificatoria. Entrando in merito al progetto, questo propone essenzialmente di individuare delle linee guida, cioè indicazioni pratiche, capaci di strutturare una base di conoscenza tale da supportare le politiche territoriali ai diversi livelli per i temi della conservazione e della naturalità diffusa. Data l'influenza sulla biodiversità delle diverse politiche di sviluppo settoriale, l'individuazione delle linee guida può garantire agli enti locali una facilitazione nell'individuazione di buone pratiche di pianificazione formulate sulla base di relazioni ecosistemiche e su una conoscenza aggiornata dello stato del sistemaambiente. La necessità di tale strategia è altresì avvalorata dalla considerazione che attualmente i risultati raggiunti dalle diverse esperienze pianificatorie (che hanno previsto l'uso della rete) sono caratterizzate da una varietà disomogenea di metodologie di approccio e di analisi. La scelta del livello locale è motivata dalla considerazione che la pianificazione del territorio a questa scala assume un ruolo fondamentale nel preservare ed utilizzare in modo sostenibile la biodiversità, mettendone in evidenza i vantaggi ottenibili dall'uso ecocompatibile del patrimonio naturale attraverso la collaborazione delle istituzioni e degli operatori locali. Oltre ciò, è utile ricordare che è proprio a livello locale che si ravvisa un sostanziale deficit di conoscenza, più spesso, nella messa a punto di strategie di configurazione fisica dello spazio, la rivendicazione di un ruolo determinante da parte dei pianificatori, disconosce l'apporto di altri saperi esperti, non rammentando che quella del progettista non è una specializzazione, bensì una competenza. Tra le diverse attività previste dal progetto, quella degli undici casi studio distribuiti su tutto il territorio nazionale ha rappresentato sicuramente la fase topica dell'intero piano. Tra gli obiettivi di questa parte del lavoro di ricerca c'era quello di costituire una propria base conoscitiva, necessaria alla formulazione di proposte metodologiche realmente praticabili nei diversi contesti ambientali. Ogni ente locale, in collaborazione con le Agenzie ambientali, ha individuato alcune aree studio rappresentative ed emblematiche rispetto al contesto territoriale, in cui si ritrovavano gli elementi idonei per l'analisi e la pianificazione, a livello locale, della connettività ecologica. Tutte le attività si sono svolte attraverso la gestione coordinata di uno specifico gruppo di lavoro misto (Anpa - Arpa - Appa ed altri Enti), che ha consentito l'espressione delle diverse competenze e responsabilità, a garanzia dell'effettiva realizzazione delle attività pianificate. L'esecuzione poi di ciascun programma, seppur in linea con gli indirizzi programmatici inizialmente concordati, è stata condotta in maniera autonoma secondo le esigenze dei rispettivi gruppi di coordinamento locali. L'Anpa, impegnata altresì nella supervisione e nel coordinamento dell'impresa, ha verificato l'omogeneità delle metodiche in atto, accertandosi delle caratteristiche e della qualità dei dati e delle informazioni desunte, anche ai fini di un futuro utilizzo per scopi istituzionali. Tra i diversi casi studio, per la particolare pertinenza di significato, possono essere citati quello della Provincia di Roma (vedi articolo seguente del dossier) e quello della Provincia di Reggio Emilia, quest'ultimo riguardante la "connessione in rete" di un'area ad alta qualità naturalistica, in gran parte già protetta. La Riserva Naturale orientata della cassa di espansione del fiume Secchia è infatti una zona che va configurandosi sempre più come un'area umida di importanza regionale, dovendo però affrontare problemi legati alla "relazione" con aree a bassa permeabilità biologica: aree di tipo industriale, residenziale e di agricoltura intensiva. A tal fine si è considerata la Riserva Naturale come nodo centrale (core areas) rispetto ad un sistema di ambienti umidi, fatto di altre pozze d'acqua più piccole che sono presenti attorno (buffer zones e stepping stones) e canali di bonifica (ecological corridors), all'interno del contesto territoriale provinciale. L'applicazione dei concetti di ecologia del paesaggio alle reti ecologiche si è resa possibile grazie alla creazione e all'uso di un sistema geografico informativo (GIS), ricavato dal reticolo delle carte tecniche regionali (1:10000) e da immagini aeree. In pratica si tratta di un esempio dove si è inteso non dar per scontato il ruolo e lo stato di fatto dell'area protetta ma si è cercato di dar vita ad una rivisitazione opportuna della pianificazione interna della Riserva stessa insieme ad un suo inserimento territoriale nel contesto ambientale d'area vasta e secondo esigenze di continuità ecologica funzionale. Il caso di Reggio Emilia non è tuttavia il solo ad aver affrontato in modo originale e fattivo le sfide della rete ecologica locale. In ciascuno degli altri casi studio si possono ritrovare innumerevoli elementi di positività e originalità nella definizione di approcci e impostazioni pianificatorie, pragmatiche e congruenti rispetto agli obiettivi prefissati. I risultati delle ricerche, attualmente sottoposti ad un'attenta valutazione, hanno consentito di verificare sul campo molte ipotesi e proposte generali per la salvaguardia "alternativa" di quei territori. La constatazione più gratificante è quella di vedere già oggi a distanza di pochi mesi dalla loro conclusione, che per molti di essi l'evoluzione di un'idea va pian piano trasformandosi in presupposto concreto per una realizzazione effettiva. "Piccole reti crescono", insieme e per i parchi.·

I NOVE CASISTUDIO

"Analisi dell'efficienza delle relazioni ecosistemiche in un'area soggetta a forti pressioni infrastrutturali in ambiente urbano e rurale"; Alpi occidentali Arpa Valle d'Aosta

"Proposta di individuazione e ricostruzioni di reti ecologiche in Val di Susa (TO)"; Prealpi occidentali Arpa Piemonte

"Corridoi ecologici di connessione tra i boschi del Ticino e l'ambito dei boschi e fontanili dell'ovest Milano"; Pianura Padana occidentale Provincia di Milano

"Il sistema delle risorgive del Veneto"; Pianura Padana orientale Arpa Veneto

"Realizzazione di reti ecologiche in aree rurali europee in Provincia di Reggio Emilia"; Pianura Padana ed Appennino centrosettentrionale Arpa Emilia Romagna

" La cintura verde metropolitana: Linee guida preliminari per l'individuazione e lo studio delle aree a diversa permeabilità biologica con l'analisi di alcuni casi specifici"; Regioni centrali tirreniche Provincia di Roma (vedi articolo seguente del dossier)

"Criteri metodologici e specificità settoriali per la pianificazione della rete ecologica regionale"; Regioni centrali adriatiche Regione Abruzzo

"Le gravine come corridoio ecologico tra Ionio e Adriatico"; Regioni peninsulari meridionali di pianura e collina I.A.M.B.

"Analisi territoriale e individuazione degli elementi critici delle reti ecologiche"; Regioni insulari mediterranee Università degli studi di Catania - Dip.di botanica.

GLI OBIETTIVI

- Costruire un quadro adeguato di conoscenze in merito al tema della naturalità diffusa del territorio, con attinenza ai contenuti della direttiva 92/43/CEE "Habitat" e alla"Carta della Natura" (l. 394/91);

- realizzare un progetto articolato di attività per la definizione di una metodologia di monitoraggio dei valori di connettività ecologica del territorio;

- definire indirizzi operativi (linee guida), per l'adeguamento degli strumenti di pianificazione territoriale ai fini della progettazione, realizzazione e tutela delle reti ecologiche a scala locale;

- svolgere azione di divulgazione dei temi del progetto attraverso workshop, seminari e momenti pubblici vari;

- allestire un prototipo di sistema informativo dedicato, utile al supporto dell'attività di pianificazione a scala locale;

- individuare e raccogliere tutte le buone pratiche per la conservazione, la riqualificazione ed il restauro dei paesaggi naturali, nel quadro degli indirizzi dell'Agenda XXI per lo sviluppo sostenibile;

- stimolare l'aggiornamento professionale del personale delle Agenzie Ambientali sui temi specifici della naturalità diffusa, per uno sviluppo delle competenze del Sistema Agenziale, adeguato ai fabbisogni derivanti dall'applicazione della normativa nazionale, comunitaria ed internazionale.

* paesaggista Anpa, Dip.to Strategie
Integrate Comunicazione e Promozion
- Resp. Coord. GdL "Reti Ecologiche"
** specializzanda in Architettura dei
giardini e Progettazione del paesaggio
- stage c/o Anpa sulle reti ecologiche