Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 32 - FEBBRAIO - 2001


Per una civilizzazione autosostenibile
Conversazione con Alberto Magnaghi
di Mariano Guzzini e Federica Zandri
 

Per incontrare Alberto Magnaghi passiamo il confine - io e Federica Zandri - tra le Marche e l'Umbria. La meta è Gubbio, gli uffici dell'urbanistica di quel Comune in via Venti Settembre, 40, ("Sala Astengo").
Per la verità, dopo una lettera e una telefonata, l'appuntamento era molto più generoso e pieno di fascino: l'invito era presso l'abitazione nella campagna toscana, ed era accompagnato dalla descrizione di una vigna curata personalmente e da una degustazione d
ei prodotti della medesima. Solo le fuorvianti pretese dell'agenda mi hanno devastato la ragione facendomi preferire un serrato colloquio francescano in uno dei molti luoghi dove Magnaghi progetta assieme a collaboratori ed amministratori, all'opportunità di scoprire il luogo dove ha deciso di vivere, che avrebbe certamente fornito informazioni più complete sull'uomo e sull'intellettuale.
Questo rimpianto mi pesava avvicinandomi a Gubbio, che peraltro si presentava al meglio, con il suo scenario monumentale di forte impatto culturale, a partire dal palazzo dei Consoli (o dei Duchi di Urbino, com'è scritto nel dizionario geografico che ho ereditato da mio nonno), e con il suo fascino di luogo di confine, e di memorie, dal lupo di Francesco, al piano regolatore di Giovanni Astengo - approvato nel 1960 - che viene rivisitato e ripensato - appunto - da Magnaghi (con Gabrielli e Macchi Cassia) e dai loro collaboratori a circa mezzo secolo dal momento in cui è stato immaginato da un signore che non fu solo un grande urbanista, ma fu direttore della rivista "Urbanistica", assessore al Comune di Torino e poi alla Regione Piemonte. Chi ha sfogliato quel numero di "Urbanistica" con la copertina tutta nera dedicato "alla frana di Agrigento, e all'allagamento di Firenze e Venezia, ed alle frane e alluvioni nell'alto e basso Veneto" sa che Giovanni Astengo, seppe intrecciare competenze, indignazione, studio, passione politica e giornalismo di qualità.
Per riannodare qualche filo ideale e per arrivare a qualche informazione utile a chi lavora nei parchi, cominciamo proprio dal piano di Astengo, dalla sua importanza, ma anche dal suo più evidente problema: in quegli anni fissare le coordinate dello sviluppo futuro significò registrare in una carta completa (ancora oggi giustamente appesa nella sala, come memoria, e quasi come trofeo) le caratteristiche del vastissimo territorio circostante (l'uso dei suoli), che tuttavia non fu visto neppure da Giovanni Astengo e dai suoi collaboratori come parte di un medesimo sviluppo, ma come sfondo sostanzialmente "altro" rispetto alle esigenze dalla città costruita e da costruire.
Per immaginare che gli spazi aperti e l'edificato siano elementi egualmente indispensabili di un solo progetto di uso eco sostenibile del territorio occorre arrivare alla fine del secolo, e occorre l'occhio di un protagonista dei momenti di progettazione per lo sviluppo locale autosostenibile.
Mi riesce difficile essere indifferente, semplice giornalista, freddo registratore e riscrittore di risposte a domanda, nel commentare con Magnaghi le tavole di Astengo, avendo fisicamente di fronte in forma d'uomo che pacatamente e puntualmente risponde alle mie domande un signore che chi ha creduto possibile uno sviluppo sostenibile nel nostro Paese ha potuto seguire negli ultimi trenta anni su riviste, giornali e siti internet, che oggi registrano i laboratori di quartiere di Roma, di Firenze, di Milano ecc, le ricerche coordinate presso l'attuale sua sede universitaria: il Dipartimento di Urbanistica dell'Università di Firenze, e molto altro ancora.
Mi siedo accanto a lui, sfogliando il volume dalla copertina verde "Il progetto locale", che è la sua ultima fatica, e che mi serve da zainetto porta domande nel lavoro di ritessitura del filo che collega le aree protette con i processi di crescita virtuosa dei territori con identità logore, popolate da naufraghi dello sviluppo che si stanno riconvertendo in protagonisti coscienti di una nuova civilizzazione.
Magnaghi ha lavorato per decenni, attivamente e concretamente, affinché si mettano in atto nuovi cicli di territorializzazione, cioè nuovi momenti di rinascita del territorio gestita da protagonisti locali: lo sviluppo autosostenibile, a partire dalle "non città" del dopo sviluppo, e dal "localismo triste" il campanilismo inutile, autoreferente. E' da tutto questo che si avvia la nostra conversazione, nella "sala Astengo".
Si parte dal processo di svuotamento di un'area vasta, fatta di castelli e di ville, di boschi e trame agrarie: un territorio policentrico, storicamente molto organizzato, che negli ultimi cinquant'anni, si è" contratto" con un abbandono della collina e della montagna a vantaggio di una conurbazione della piana.
"Stiamo tentando una inversione di questa tendenza, con la rivitalizzazione e la riorganizzione del territorio agricolo, infrastrutturando e rimettendo in valore tutta questa area."
Mi dice Magnaghi indicando gli assi di sviluppo sulla carta dell'uso dei suoli del piano di Astengo. Proseguo nel ragionamento, generalizzando.

Nell'ipotesi di un progetto di civilizzazione nuova, dopo la crisi dei modi di inserire le città nel territorio in funzione di interessi economici dannosi per l'ambiente, come vede Lei la rinascita di territori simili a questo, dove sono presenti aree ad alta qualità ambientale? Come rimettere in valore il paesaggio, il bosco, e la stessa agricoltura assieme alla "non città del dopo sviluppo"?

"Devo fare una premessa: il territorio è stato ridotto nel modello industrialista ad un puro sostegno delle attività economiche; le società locali, l'ambiente, il territorio storico sono stati trattati come supporto tecnico delle funzioni produttive.
A metà del secolo scorso questo procedere verso una seconda natura "artificiale", con totale autonomia dell'insediamento umano dal contesto ambientale e dal terrritorio storico, ha provocato una serie di disastri ambientali e urbanistici (e in Italia si interviene di regola solo "dopo", basti pensare all'ultimo "disastro" alimentare, quello della mucca pazza).
Mi riferisco a catastrofi ambientali, ma anche identitarie (omologazione forzata di culture e stili di vita) e territoriali (omologazione delle periferie, delle conurbazioni diffuse).
Questo ha fatto si che si innestasse un progetto di livellamento, nel senso anche fisico della parola, tant'è che la città industriale è quasi sempre una città di pianura . Tutti questi fattori sono poi entrati in crisi, si è cominciato a riflettere sull'artificializzazione e sui crescenti costi ad essa collegati.
Che fare, dunque? Una nuova civilizzazione che tenga conto dei risultati negativi prodotti da questo modello di uso del territorio deve internalizzare nel progetto di insediamento quelle variabili che erano state esternalizzate, considerando il territorio come un "soggetto" promotore di interazioni che consentono di fondare modelli di sviluppo in cui le risorse territoriali vengono messe in valore in modo durevole: questo per costruire ricchezza, attraverso la valorizzazione del patrimonio territoriale, anziché "povertà" attraverso la sua svalorizzazione.
Il territorio è la risultante di un insieme di variabili ambientali, paesistiche, culturali da valorizzare ( a questo proposito muovo nel mio ultimo libro una blanda critica alle interpretazioni ambientaliste di tipo settoriale, che non considerano altri aspetti del territorio).
Mi conforta il fatto che questa consapevolezza di un territorio che complessivamente può produrre ricchezza sta improntando tutti i documenti dell'Unione Europea, del Ministero dell'Ambiente, i piani regionali più avanzati, ecc. Valorizzare le identità locali per riproporle sul mercato mondiale è la sfida e l'occasione di oggi. In sostanza va rovesciato il ragionamento, rispetto al tradizionale modello di sviluppo: l'agire non va più commisurato alle opportunità fornite dall'omologazione, bensì alle potenzialità offerte dalla peculiarità delle risorse del territorio in cui si opera. I nuovi modelli di sviluppo -in sintesi- si fondano sulla peculiarità del patrimonio locale, visto anche come valorizzazione delle energie virtuose esistenti sul territorio, in grado di costituire reti di scambio solidali, facendo davvero società locale."

Riallacciandoci alla "blanda polemica" con gli ambientalisti, torniamo al concetto secondo il quale la tutela senza la valorizzazione e lo sviluppo equivale ad un modo sbagliato di intendere e di gestire aree protette. E' difficile - del resto- realizzare una politica di area vasta se permangono i "campanili" ( quello che chiami "il localismo triste"): i parchi in quanto tali sono in grado di rimotivare un'identità per un'area più vasta?

"Il binomio conservazione-innovazione non è facile da coniugare. Io credo che i parchi possono avere questa funzione se riescono ad essere gangli non isolati di una rete ecologica più generale e a non porsi come isole di conservazione, contribuendo al superamento della dicotomia tra localismo "triste" (chiusura eccessiva) e distruzione dell' identità locale (apertura eccessiva). Devono cioè riuscire a superare un discorso di conservazione della natura e diventare laboratori sperimentali di un progetto di un nuovo modello di sviluppo che produce ricchezza.
Per anni i parchi naturali sono stati osteggiati perché intesi come un freno all'economia, oggi si vuole vedere nel parco l'intrecciarsi di molti obiettivi: dalla ricostruzione di reti ecologiche alla ricostruzione di paesaggi storici e di una serie di attività produttive di qualità, di filiere locali, di rinaturalizzazione di cicli agricoli, di ricostruzione della qualità urbana.
Siamo alla crisi complessiva del modello industriale-turistico: penso all'alta Maremma, dove si sono chiuse le miniere, è andata in crisi la chimica e la siderurgia. In risposta a questa crisi, nella regione del Golfo di Follonica sta nascendo un insieme di parchi naturalistici, archeologici, minerari, (proprio ora è stato istituito il parco minerario nazionale delle Colline Metallifere). Questo nuovo sistema dei parchi diventa il punto di riferimento, la struttura portante per la rivalorizzazione del territorio tutto. Le aree dell'interno, collinari e montane, marginalizzate nel precedente modello di sviluppo, divengono strategiche per la nuova civilizzazione. Parliamo di un modello non più monoculturale ma integrato: che include e armonizza ospitalità escursionistica e culturale, il settore agricolo riqualificato, la qualità ambientale, la fruizione museale e della rete delle piccole città storiche e altro ancora.
In sostanza la mia idea di parco è simile a quella di un "distretto": un reticolo complesso di attività che produce ricchezza mettendo in valore il patrimonio territoriale.
In quanto tale il parco non è più osteggiato dai residenti, ma anzi è ricercato come elemento fondativo del nuovo sviluppo, è nel parco che si vede lo sviluppo di una nuova economia.

E' questo che intende, per sviluppo "autosostenibile"?

"Mi riferisco ad uno sviluppo che si basa sulla formazione di economie più solide costruite da un reticolo complesso di attori locali, capaci di fare società locale, con nuovi statuti societari di autogoverno, e con la capacità di contrapporre alle "reti lunghe" della globalizzazione reti democratiche, solidali.
Per continuare con l'esperienza dell'Alta Maremma, lì dove le industrie chimiche hanno creato la desertificazione, non uno sviluppo durevole, si lavora a costruire nuove economie che devono rispondere ad un patto associativo tra tutte le categorie le quali, riconoscendo nel patrimonio naturale, storico e identitario un bene prezioso, sono anche in grado di convivere con il globale senza essere ancora una volta annullati e schiacciati da un progetto altro da loro.
Lo sviluppo autosostenibile è quello che si basa sulle sinergie tra le risorse che il territorio produce e che è interesse di tutti gli abitanti-produttori locali non distruggere, a cominciare dalla risorsa dell'essere protagonisti consapevoli di nuove aggregazioni comunitarie con nuove regole che comprendano la sostenibilità dello sviluppo locale."

Nella nuova civilizzazione occorre evitare fratture, contrapposizioni, come quella entroterra/costa. Si avverte l'esigenza di procedere in questa direzione, dalla costa verso l'interno e viceversa, con un progetto comune?

"Le civiltà del passato sono tutte partite da qualche luogo fisico. Dalla pianura verso altre pianure, dalla collina verso il fondovalle; dal mare all'entroterra, ecc. Lo sviluppo è anche un moto a luogo. Veniamo da una civilizzazione di pianura: la forma metropoli contemporanea organizzata sul modello fordista.
La futura civilizzazione, fondata su un modello socioproduttivo postfordista agroterziario ad alta qualità ambientale e territoriale privilegerà fortemente la collina, gli entroterra costieri, la montagna.
E' ovvio che il modello di sviluppo dell'area montana deve trovare un alter-ego in quello di sviluppo costiero. Non è pensabile uno sviluppo autosostenibile dell'entroterra spopolato che non sia accompagnato da un processo analogo che modifichi e corregga i danni prodotti nelle coste dal vecchio e fallito sviluppo. Ciò esclude una mentalità affaristica, immobiliaristica, per intenderci. La quantità edificatoria, ne parlo nel libro, andrebbe regolata non sulla base della domanda, quanto su quella dell'offerta del territorio.
Certo è che va fermata l'esplosione edificatoria della costa: la riqualificazione del litorale deve passare attraverso la riconnessione e la riqualificqzione di un sistema costiero-collinare-montano che metta in valore la profondità dell'entroterra "
A questo proposito in che senso potrebbero diventare utili, o addirittura strategici i parchi costieri?
Alla interruzione e riqualificazione della barriera di cemento che tende a distruggere il patrimonio costiero. Pensiamo al ruolo di parchi come le Cinque Terre, Portofino, San Rossore, l'Uccellina, ecc. Se penso al Salento, mi viene in mente uno sviluppo rivolto nei decenni in una direzione tutta sbagliata: una costa che ha subito una forte speculazione edilizia e abusivismo, distruggendo il patrimonio della scogliera ed un altopiano alle spalle ricco di centri storici e paesaggi agrari completamente trascurato. Di fronte a scogliere cementificate, peraltro oggi che si può fare? Le esperienze concrete che sto facendo sono varie. E mi portano ad affermare che se proprio le aree protette costiere, o comunque quelle più fortemente antropizzate, riescono a sperimentare le nuove forme di sviluppo autosostenibile, potrebbero essere utilissime per ridurre i tempi di crescita di nuove consapevolezze, di nuove regole e di nuovi modi di sviluppo dell'intero territorio nazionale."
Una supplenza propulsiva?
"Perché no? Una sorta di supplenza propulsiva, ma a termine. Fino al momento in cui quello che le aree protette hanno sperimentato e propagandato diventerà un bisogno generale ed una normale regola di gestione del territorio e della società.
In quel momento le aree protette potranno rientrare nei ranghi, dedicandosi più alla tutela di particolari biotopi e aree sensibili che alle forme generali della valorizzazione autosostenibile del territorio."
Nel suo libro più recente dedicato al "progetto locale", dichiara ad un certo punto che "anche di parchi si può morire". Cosa voleva dirci? Come è nata quella problematica?
"Lavorando al progetto di parco minerario, a Gavorrano, mi sono reso conto che la messa in valore del territorio può sviluppare molti "appetiti". Si sono fatti avanti molti imprenditori, per gestire, ad esempio, una nuova forma di turismo ambientale, ma con modelli e gestioni esogene.
Non è escluso che i parchi, come nuova "fabbrica del turismo" vengano presi di mira da grosse imprese multinazionali, con ovvi svantaggi per le popolazioni locali.
I nipoti dei minatori di un tempo potrebbero ritrovarsi a fare i camerieri nelle strutture di queste imprese estranee alla storia ed all'identità locale di quel territorio".

C'è dunque il rischio di uno sviluppo nuovo che arrivi dall'esterno?

"Sul piano normativo non esistono freni ad interventi esterni, ecco perché dovrebbero essere attuate politiche di sostegno da parte degli enti locali per la valorizzazione degli attori locali: agricoltori, piccolo commercio, artigianato, ospitalità, agriturismo, cultura e la formazione di filiere e reti locali a carattere intersettorile e integrato. Facendo un "patto territoriale" nell' Alta Langa in Piemonte, mi sono reso conto che con una corretta animazione sociale molte piccole imprese si sono fatte avanti dimostrando che c'è un certo tessuto locale -soprattutto giovani- interessato alla valorizzazione del territorio e a fare impresa per le produzioni che la favoriscono. L'ente locale dovrebbe sostenere gli attori deboli, ma "virtuosi"; l'ente parco, da parte sua, dovrebbe favorire questo processo, insieme agli altri soggetti pubblici".

Due ore di conversazione sono passate in un lampo. Magnaghi, con il tono tranquillo e modesto di chi dice cose ovvie, in realtà ha ripercorso una parte importante del suo lavoro, a beneficio dei nostri lettori e di un progetto preciso di nuova civilizzazione, tra costa ed entroterra, senza fratture.
Ho ritrovato nella sua pratica di urbanista alcuni principi forti della mia personale vicenda di amministratore di una area protetta. Lo scambio delle esperienze vissute ha prodotto una sorta di simpatia, che consente altre domande, meno professionali, sull'università, gli studenti, gli amministratori di enti locali, e gli aspetti meno ufficiali della sua biografia.
Si parla del suo passaggio nel Pci, nei gruppi del "potere operaio" torinese, di un libretto su un particolare momento delle vicende personali e politiche di quegli anni edito dal "Manifesto" ed oggi introvabile. E' quasi una seconda intervista, che resta nella penna, ma che non avrebbe niente da invidiare a quella che sarà stampata.
Cerchiamo una spiegazione del forte affollamento nell'attuale ambientalismo di intelligenze e di energie da contraddizione che si sono formate nei movimenti di estrema sinistra, e azzardiamo qualche nostra spiegazione.
Si finisce pertanto per darci del "tu", mentre dalla sala Astengo ci trasferiamo nei non lontani locali dove Massimo Bastiani, architetto, ex assessore all'urbanistica, e Stefania Saldi, neo laureata in architettura, ci consentono di mettere il naso nelle carte del nuovo piano di Gubbio.
Si parla del parco dei Tre Monti che sta prendendo forma a due passi dal centro storico, della salvaguardia agricola della piana, del non lontano parco del monte Cucco. Federica fraternizza. Ci si scambiano indirizzi e speranze. Sarà solo una idea bislacca, o un preconcetto, ma mi pare di avvertire nel cantiere del nuovo piano l'odore di quel bricolage che a volte, quasi per caso, produce progetti di area vasta, nei quali i formati coincidono con i bisogni degli attori sociali, nell'eco di percorsi ideali che assomigliano molto alle grandi narrazioni legittimanti di un tempo.
Finisce l'intervista. Il palazzo dei Consoli si allontana, e riprende (ma più ricca di esperienze, più imbottita di fiducia) quell'esistenza in perenne conflitto con l'agenda, che prima o poi potrà costruire altri focolai di sviluppo autosostenibile. Si torna al bricolage amministrativo che a volte - quasi per caso - crea disegni coerenti ed attraenti. Si torna alle scadenze grigie, poste da altri. In attesa di visitare la vigna di casa Magnaghi, e di intervistare il suo vino.


Alberto Magnaghi,
progettista e studioso del territorio, si è laureato in Architettura all'Università degli studi di Torino. Attualmente è ordinario di Pianificazione territoriale all'Università degli Studi di Firenze. Già militante nelle file del Pci e poi del Potere operaio torinese negli anni sessanta-settanta, ha coniugato la sua passione politica ed il suo impegno sociale con l'attività di ricerca nell'ambito del progetto nazionale "Laboratori per lo sviluppo locale autosostenibile", coordinato fra numerosi atenei italiani e che consiste in una serie di ricerche/intervento a livello urbano e territoriale con il coinvolgimento delle popolazioni interessate e degli enti locali.
Fondatore della "scuola territorialista", è autore di studi e progetti sperimentali avviati da enti locali, regioni, enti parco ed altri soggetti. Fra i suoi testi più recenti "Il territorio degli abitanti. Società locali ed autosostenibilità", edizioni Dunod, Milano, 1998, e "Il progetto locale" Bollati Boringhieri, Torino, 2000 con interessanti implicazioni anche per le aree protette. (f.z)