Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 34 - OTTOBRE 2001


Come disse Teddy Roosevelt
Occorre un impegno globale e, insieme, locale per qualificare la civiltà di una nazione, e di una regione?
La civiltà di una nazione si dimostra anche dal modo in cui sa proteggere il suo territorio", disse il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, il repubblicano ambientalista e cacciatore Teddy Roosevelt, (premio Nobel per la pace, nonché titolare di un parco nazionale nel Nord Dakota) da non confondere con il cugino democratico, Franklin Delano, presidente anch'esso, più noto ma molto più discusso (al punto che Gore Vidal, in "L'età dell'oro" fa dire ad un suo personaggio: "Mi chiedo se Stalin sia stato crudele come Roosevelt").
Teddy non si riferiva, profeticamente, né alle torri né al Pentagono.
Si riferiva alla protezione dei beni naturali e paesaggistici, ai grandi fiumi non ancora inquinati, alle lunghe coste non ancora cementificate, per i quali promulgò leggi lungimiranti. Avendo ragioni da vendere, e sapendole vendere, in un mondo dove pure usò il proverbiale big stick, il grosso bastone, contro il Venezuela, Panama, Santo Domingo e Cuba..
Eppure oggi il Mississipi è ridotto una ciofeca di fiume.
E solo la sovrabbondanza di miglia quadrate, una buona dose di coscienza civile, ed il ricordo di Teddy Roosevelt salva i parchi americani dall'aggressione della modernità.
Teodoro Roosvelt, detto Teddy (Teddy l'orsetto, icona buonista dei valori campagnoli dell'America profonda forse più di Nonna Papera) è con noi, quando cerchiamo di mettere assieme il consenso degli abitanti e le sfide dello sviluppo sostenibile?
Forse. Ma senza illudersi troppo.
E' facile farsi applaudire da una scolaresca caricata ad applausi da brave maestrine con la testa verde. Ed è altrettanto facile acquisire consensi pulendo le spiagge o analizzando le acque più o meno inquinate.
O stendendo lenzuola anti smog.
Molto più ardue sono altre imprese, che hanno bisogno di radici più solide e di circostanze più favorevoli, molte volte ambiguamente consociative e trasversali.
Prendiamo gli impegni di Kioto.
Nonostante Teddy Roosevelt, repubblicano, fondatore nel 1887 di quei leggendari club di cacciatori ai quali risalgono le prime enunciazioni del principio di sostenibilità ("Il patrimonio naturale di oggi non è nostro, e non possiamo farne ciò che ci pare" era il motto del Boone and Crockett Club), il repubblicano Bush ha boicottato il trattato di Kioto.
E oggi solo le ragioni della guerra e della ricerca del consenso mondiale alla guerra sembrano convincerlo a riprendere quel discorso e ad aderire a quegli obblighi. Sicché - paradossalmente, ma non troppo - l'impegno ecologista trova radici nella necessità degli Usa di non essere autosufficienti ed egoisti in politica estera, piuttosto che in limpide ragioni scientifiche e culturali, e nell'interesse delle generazioni che verranno. Questa è la politica, signora mia.
E parimenti più ardua è l'impresa di essere riconosciuti in quanto parchi come interlocutori paritari tra quanti disegnano lo sviluppo futuro, ed assumono decisioni che riguarderanno la vita avvenire di tutti, a partire dall'esistenza di quelle inconsapevoli scolaresche, pronte ad applaudire anche l'assessore, il presidente e il ministro della difesa.
E' talmente ardua, l'impresa, da far venire una fortissima voglia di mettersi da parte, magari seguendo i movimenti degli scoiattoli del giardino di Kensington, dalle parti della statua di Peter Pan, lasciando ai grandi della terra (veri, o presunti tali) l'esercizio dell'arroganza e quindi del potere, cosa che viene sempre molto apprezzata (l'auto segregazione), anche quando sia impossibile confonderla con il senso di responsabilità e la riservatezza.
Viene una fortissima voglia di limitarsi a gestire correttamente la tutela della biodiversità del fazzoletto di territorio che la legge ha definito parco, valorizzandone cautamente e con molto senso della misura l'esistenza, senza avventurarsi in altre sfere, quali potrebbero essere progetti integrati di sviluppo dell'agricoltura più o meno sostenibile, del turismo più o meno destagionalizzato, della ricerca a vari livelli.
Senza battersi per fare sistema nella regione, nel paese, o addirittura nel'Adriatico o nel bacino del Mediterraneo. Senza voler essere europei nei fatti (nelle azioni progettuali; nei comportamenti amministrativi, quali la gestione integrata della costa).
Ci sono tavoli dove non è corretto chiedere di essere invitati. Finché c'è da stendere un programma elettorale, è giusto scrivere qualche riga sul ruolo delle aree protette.
Ma dopo le elezioni, ognuno deve stare al suo posto. I presidenti dei parchi innaffino le loro pianticelle, e assicurino alle scolaresche guide informate sulle caratteristiche della biodiversità, ma non si immischino nei progetti e nei piani di sviluppo agricoli e turistici, urbanistici o socioeconomici.
Per quello già ci sono i sindacati, la confindustria, gli artigiani, i commercianti, gli agricoli, le corporazioni di ogni ordine e grado, le associazioni ambientaliste.
L'anci, upi ed uncem. La società civile e le pie donne. Ed i dolenti della Santa Croce. Non vorremo davvero aggiungere a tutta questa pletora di rompiscatole anche i parchi e le riserve naturali! Così si ragiona colà dove si puote ciò che si vuole.
E dove si può usare il "big stick".
O quello piccolo, camuffato da forbici che tagliano fondi, o da delibere che tagliano teste.
Ed è così che l'entusiasmo che può venire in una aula scolastica, o in un centro visite, o in un convegno di specialisti, può raffreddarsi di molto quando ci si confronta con la dura realtà dei veri potenti che non ti ascoltano quando cerchi di argomentare l'utilità di un nuovo sviluppo sostenibile, costruito con l'aiuto delle aree protette, ma necessario anche altrove, per non continuare a distruggere beni che non si ricostituiscono.
Perché, come diceva Teddy Roosvelt prima del 1918, andando a caccia con il Winchester, "la civiltà di una nazione si dimostra anche dal modo in cui sa proteggere il suo territorio". E anche la civiltà di una regione, di una provincia e di un comune.
Cercando nei molti giornali prodotti lodevolmente dalle aree protette (vedasi la sezione "tam tam") si fa fatica a trovare articoli buoni per il duplice uso locale e globale. Può capitare qualcosa di globale.
Capita molto di locale, per ovvie e giuste ragioni. Ma il cosiddetto "glocale" non c'è, di norma.
La cosa si spiega in molti modi, che potremo analizzare con comodo.
Ma non è un segnale positivo.
Vuol dire che non ci siamo ancora, o, peggio, che ci siamo rassegnati a stare nel nostro cantone, contando le penne del falco pellegrino, difendendo la reputazione offesa del lupo, lucidando i cartelli di divieto di caccia ed i tabelloni "voi siete qui", sempre più ricchi di informazioni e di promesse di passeggiate miracolose, pronti alla metamorfosi.
Pronti a reincarnarci in una farfalla rara, o in uno scoglio strano, o in una pianta che si trova solo qui o in un altro parco della Liburnica, in una zona a protezione integrale.
Peter Pan non voleva diventare grande.
E noi nemmeno, se per grande si intende un violento politico che sgomita, e rompe costole, e parla, scrive, traffica e zittisce, pur di arrivare dove vuole.
"La civiltà di una nazione si dimostra anche dal modo in cui riesce a proteggere il suo territorio". Anche? Perché non "solo"? Oppure "soprattutto"? Ma anche accontentandoci dell'anche, non mi pare che a quasi cento anni da quella massima, la nostra nazione possa dirsi civile, in quel senso lì.
E neppure le nostre regioni, province e comuni.
Come dice in altra parte di rivista Piero Ottone, è una questione di crescita culturale complessiva.
E come dice Gianni D'Elia è questo il terreno strategico dove cultura ed impegno civile possono strappare risultati storici, oppure andare a sonore e rintronanti sconfitte.
Se tutto continuerà così, se destra e sinistra continueranno a ignorare, nella sostanza, le ragioni dello sviluppo sostenibile, se non arriveranno novità né dai centri centralistici, né dalle periferie plurali e federaliste, a ridosso dell'Adriatico si condenserà sempre più fitta e sempre più brutta la città serpentiforme già battezzata Adriapoli, fatta di cemento e di brutte case costruite quasi dovunque, da Grado ad Otranto, senza soluzione di continuità.
E in altri mari la situazione non sarà diversa.
Oppure ciascuno di noi prenderà coscienza di doveri sociali più ampi dei confini dei ruoli sociali che ci sono capitati in sorte.
Allora dalle aree protette si potrebbe dar vita ad una nuova urbanizzazione, autosostenibile, in grado di valorizzare i paesaggi ed i centri storici, e magari di abbattere le scempiaggini ricostruendo in modo differente i luoghi dell'abitare e quelli del convivere e del socializzare.
Con l'aiuto delle nuove culture che giustamente chiedono di contaminare le vecchie. In un avvenire multietnico, dove la diversità non dovrà significare regressione e banalizzazione dei valori e della civiltà, così come succede nella natura, dove biodiversità è sinonimo di qualità, e non di barbarie. Possibilmente senza grandi bastoni e senza Winchester.
All'europea, diciamo.
Tra un attentato ed una guerra più o meno santa, tentando di cogliere ogni attimo fuggente che si dovesse presentare nel casualissimo gioco delle forze politiche, scriviamo nelle nostre agende 21 qualche impegno che ci consenta di fare sistema, per scongiurare la barbarie ed il trionfo dell'entropia. Anche Peter Pan, che non è un fesso, e che è meno svagato di quel che si pensa, ce ne sarà riconoscente ...
M.G.