Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 35 - FEBBRAIO 2002


LA MONTAGNA E IL BOSCO
La foresta nella economia, nella cultura e nella identità della società montanara
Bosco e pianificazione territoriale
Dalle periodiche statistiche sullo stato del territorio si ricava un dato a mio avviso molto importante: è il progressivo incremento areale dei boschi, che negli ultimi trent'anni, soprattutto a causa della fuga verso la pianura, hanno guadagnato, con modeste differenze da un capo all'altro dell'area alpina, circa 15% in termini di superficie, prevalentemente a scapito dei pascoli di quota. Ma anche i coltivi non hanno avuto sorte migliore. In vent'anni hanno ceduto circa 20% della loro superficie, destinata in parte ad alimentare diverse forme di urbanizzazione ed in parte, appunto, al "recupero" spontaneo delle foreste, con esiti da valutare molto attentamente sia sul piano della struttura ecosistemica sia su quello della stabilità fisica e biologica del territorio.
Ormai tutti sono concordi nell'interpretare le trasformazioni del territorio montano non solo come conseguenza dell'esodo delle sue genti, che dura da oltre ottant'anni, quanto piuttosto di un cambiamento di posizioni culturali avvenuto negli ultimi venti.
Ciò si riverbera certamente anche sulle attenzioni gestionali verso il bosco e sulle attese economiche ad esso legate.
Dalla lettura dei Piani Territoriali Provinciali abbozzati nel passato decennio che, per inciso, sono stati tra i primi strumenti urbanistici ad aver tentato percorsi di costruttiva interdisciplinarità, si traggono significativi indicatori al riguardo. Ricordo, ad esempio, riferimenti allarmati per la riduzione della superficie un tempo destinata al castagneto da frutto, all'eccesso di densità di molti dei boschi d'origine artificiale, alla decrepitezza di non pochi di quelli, maturi o senescenti, da tempo non più sottoposti a curazione. Soprattutto i boschi cedui, da sempre considerati e sfruttati come essenziale riserva di legna da ardere, patiscono oggi di questo viraggio culturale, sia quelli collocati nelle fasce altimetriche inferiori e più vicini ai centri abitati dei fondivalle, sia quelli delle fasce altimetriche superiori, con le ovvie differenze compositive e le possibili implicazioni sotto il profilo economico e colturale.
Ricordo che in uno di questi piani venivano prospettate soluzioni per certi versi ingenue, ma che sono esse stesse testimonianza dei cambiamenti culturali in atto. Si scriveva, infatti, che tra gli strumenti da attivare si poneva "... la ricerca di incentivazioni per rivitalizzare la cura dei cedui, di modo che sia per essi possibile il ritorno al normale ciclo produttivo, trovando per il legname nuovi sbocchi di mercato (costruzioni, campo energetico, ecc.) ..".
Per l'altofusto si prevedeva invece un più stretto "collegamento tra l'industria di trasformazione del legname e il comparto del terziario turistico ... al fine di creare sistemi integrati capaci di garantire continuità occupazionale e migliore sfruttamento delle strutture". Prioritaria pare comunque al Pianificatore "... la sensibilizzazione ai problemi del bosco di tutti gi utenti che lo frequentano e la creazione di strutture di controllo capaci di ridurre l'eccessiva presenza turistico-ricreativa".
Al bosco di montagna ancora si attribuisce dunque un fondamentale, se non esclusivo, significato economico, disattendendo così l'opportunità di collegare i significati ambientale, naturalistico, culturale, paesaggistico e tutelare delle foreste (che tutti i selvicultori sentono oggi comprimari con le pur imprescindibili opportunità legate alla produzione di legno), con i processi economici, sociali e urbanistici che la pianificazione d'area vasta è chiamata a controllare e a indirizzare verso il raggiungimento del massimo beneficio per l'intera collettività locale.
I molti significati del bosco, non solo in montagna, vanno in ogni caso attentamente collegati alla generale riscoperta dei valori della Natura, assieme alla voglia di vivere in un ambiente sano e piacevole.
Alla pianificazione territoriale spetta il compito di re-interpretare i boschi e la selvicoltura, che è la tecnica cui viene affidato il compito di guidare la crescita armoniosa delle foreste verso le nuove forme e le nuove funzioni richieste dalla società che, anche in montagna sta rapidamente cambiando.

Selvicoltura, ecologia e pianificazione
Come forestale, e come ecologo, avverto forse più di altri il fatto che mai come ai nostri giorni vi è stato conflitto tra selvicoltori e fruitori del bosco, tra pianura e montagna.
Fino a pochi anni fa nessuno poneva in dubbio la necessità di ricavare legname dal bosco, per destinarlo a tutti i consueti e possibili usi. Non vi era nemmeno la diffusa opportunità, legata alla disponibilità di risorse e di tempo libero, di andare per boschi, e di ragionare sugli effetti estetici della pratica selvicolturale.
Solo di recente, e quasi esclusivamente tra la gente di città, si è generata ostilità verso gli interventi in foresta, ai quali dunque non viene riconosciuto lo stesso significato e lo stesso valore di quelli applicati nei campi e in agricoltura.
C'è il convincimento che solo i boschi, anche quelli da sempre intensamente utilizzati e trasformati nella composizione e nella struttura, siano espressione di naturalità, per cui per essi si nega la possibilità d'essere coltivati anche se nell'interesse dell'intera società.
Sul fronte opposto si sostiene che selvicoltura significa tutela del capitale e degli interessi che esso produce, come dimostra l'esistenza stessa di quei boschi che gli altri vorrebbero mantenere nel medesimo stato colturale, ma senza praticarvi alcun intervento.
Come dire "guadagno senza rischio e senza lavoro".
Pochi sanno che tra tutte le attività colturali, la selvicoltura è quella studiata per risultare la più rispettosa dei principi ecologici dell'omeostasi e dell'equilibrio con l'ambiente.
Basta pensare che, in montagna, il selvicoltore opera su ampie superfici, di difficile accesso e di altrettanto difficile controllo; egli non ha modo d'impiegare gli strumenti di cui dispone l'agronomo, cioè quelli propri delle tecnologie chimiche, biologiche e meccaniche. Per guidare il bosco verso gli obiettivi di produzione e di perpetuazione, la selvicoltura può fare affidamento solo sulle leggi di Natura, quelle che regolano la crescita di individui e di popolazioni, se possibile forzandole, con il solo strumento del taglio, attraverso il controllo dei fattori della fertilità dei suoli, della competizione inter ed intraspecifica e della selezione.
Col progredire di alcune branche del sapere, soprattutto nei campi della fisiologia e della genetica, si è proceduto ad una profonda revisione scientifica e tecnica dei fondamenti culturali della disciplina, pur restando sempre fedeli alle sue basi d'ecologia, tanto che spesso i forestali hanno finito per essere punto di riferimento per gli stessi movimenti ambientalisti.
D'altra parte l'ecologia, o meglio, l'ecologismo, ha avuto nello stesso periodo una spettacolare diffusione, quale in passato nessun'altra espressione culturale ha mai conosciuto.
Si è così da un lato sviluppata, almeno in alcuni strati della popolazione, una importante attenzione verso l'ambiente, finalmente osservato con criteri ecosistemici; ma dall'altro lato si è anche fatta serrata la critica verso ogni tipo di intervento in foresta, senza che essa fosse basata su altrettanto mature valutazioni scientifiche.
In pratica, citando Pratesi, molti di questi nuovi ecologisti rifiutano fermamente l'idea che "la morte di un albero possa essere motivo di migliore vita del bosco". Il che significa, però, negare ogni possibilità di taglio in foresta, impedendo il mantenimento di quegli equilibri colturali su cui per secoli si è basata, e perfezionata, ogni produzione materiale e immateriale fornita dal bosco.
Va anche attentamente valutato il fatto che oggi alle foreste si rivolgono molte diverse professioni, con intenti che spesso contrastano tra loro.
Per questo motivo è essenziale che la pianificazione del territorio, soprattutto in montagna, divenga rapidamente processo veramente interdisciplinare, nel quale siano fatte interagire e rese integrate tutte le conoscenze necessarie ad evitare gravi ripercussioni sulla capacità di autocontrollo di molti fragili, ma essenziali, sistemi ambientali.

Vecchi problemi che restano di attualità
Il trend di crescita e di trasformazione delle foreste non è tuttavia da interpretare come fatto in sé negativo; se da un lato non sempre si registra una parallela crescita delle cure colturali, dall'altro si sono rilevati anche interessanti segnali di miglioramento strutturale e funzionale dei boschi, testimoniato da alcuni e significativi indicatori.
Alcuni hanno portata ecologica ed economica insieme, come il progressivo incremento delle biomasse e delle dimensioni (diametri e altezze) dei singoli alberi e dei loro collettivi; altri vanno invece attentamente valutati anche solo per la valenza extra-economica che conferiscono al bosco, come il passaggio, spesso spontaneo, dai cedui all'altofusto, la crescita della diversità specifica nello strato arboreo e la diffusione di soggetti "monumentali", utili non solo sul piano paesaggistico, ma anche su quello ecosistemico, perché attivano importanti meccanismi di omeostasi.
Parallelamente, e in sintonia con questi segnali, va però anche valutato il cambiamento dei problemi di cui il selvicoltore, in qualche modo, deve tenere conto.
Come si è detto, in parte questo cambiamento è generato dalla diversa sensibilità ecologica e ambientalista dei nuovi fruitori del bosco, ma in larga misura è legato alle profonde trasformazioni cui è sottoposto l'intero territorio alpino e prealpino. Merita ricordarne un paio tra quelli che hanno le maggiori ripercussioni sociali.

Zootecnia. L'attività zootecnica e il pascolamento in alpeggio hanno subito un pesante declino, pur restando ancora in alcune contrade l'asse portante dell'economia rurale.
Alla zootecnia, per altro, viene oggi sempre più riconosciuta, e per certi versi invocata, una importante funzione paesaggistica in ragione dei caratteri che essa sa imprimere al territorio attraverso le superfici mantenute aperte e per il senso di ruralità trasmesso dalle malghe, purché caricate.
E' forse l'unico caso in cui il recupero del bosco oltre l'artificiale confine altimetrico cui era stato costretto dal pascolo e dallo sfalcio, può costituire un problema di complessa economia globale e di etica pianificatoria, più che di tecnica gestionale.
Il conflitto tra bosco e pascolamento interessa marginalmente ancora quasi soltanto formazioni d'alta quota, e ad esso si collegano danni soprattutto a carico del suolo, per costipamento, erosione e blocco del ciclo della sostanza organica.
Meno consistenti rispetto al passato sono invece i danni a carico del novellame e della rinnovazione, o quelli arrecati agli alberi adulti a seguito dello scortecciamento e della diffusione di fitopatie.
Al posto degli animali domestici, in questa direzione ora agiscono gli ungulati selvatici, soprattutto caprioli e cervi, questi ultimi in costante e rapida diffusione.
Non sembri una curiosità ricordare l'antica pratica della raccolta dello strame, ormai ovunque cessata, cui si imputava l'innesco di processi di depauperamento del suolo capaci d'annullare le potenzialità di sviluppo del bosco. Oggi si prospettano tecnologie di recupero energetico basate sull'impiego di necromasse fino a ieri ignorate, ma provviste dello stesso significato funzionale dello strame.
In periodi di scarsità energetica si può concepire il recupero d'ogni forma d'energia convenientemente recuperabile, fermo restando il principio di non aggravare il bilancio con costi indiretti, come potrebbero essere quelli generati dal conseguente degrado dei boschi.
Fauna e bosco. Poco sentita fino a ieri era l'esigenza di garantire nicchie idonee alla permanenza, o alla diffusione, di alcune specie animali che nell'immaginario collettivo sono la massima espressione di naturalità.
E' il caso dei tetraonidi, dei picidi e di tantissimi altri uccelli, compresi quelli che per vivere richiedono sistemi o biotopi in via di scomparsa, come stagni e torbiere.
È soprattutto il caso degli grandi ungulati, di cui certamente è piacevole la vista, ma che possono creare problemi alla perpetuazione del bosco.
Più sottile, per le implicazioni di indole sociale, è il caso dei grandi predatori, come la lince, lo sciacallo, l'orso.
È anche il caso del cinghiale, in rapida diffusione, cui è associata l'idea atavica di fiera e di elemento di rischio per le coltivazioni.
Si tratta di un nuovo importantissimo fronte che si apre alla selvicoltura, che viene chiamata a sviluppare sistemi di conciliazione tra esigenze antitetiche, tra cui la stessa rinnovazione e la valorizzazione, in senso naturalistico, della biocenosi.
La progressiva scomparsa di alcune forme colturali, come lo sfalcio dei prati, che garantivano il pabulum necessario alla vita di popolazioni animali ormai rare e di grande pregio estetico e naturalistico, è ancora uno degli attuali problemi che si pongono per i cambiamenti della montagna, a scala continentale.

Turismo. Il turismo grava oggi sul territorio montano e alpino con forme di fruizione molto differenti, e con effetti più incisivi rispetto a quelli registrati in passato. Soprattutto è cresciuta la frequenza con cui il turista si avvicina alla foresta, così che i danni generati dalla presenza dell'uomo, come ad esempio il calpestio, risultano moltiplicati. Sono cambiate anche le attese e le attenzioni dei fruitori del bosco verso alcune sue produzioni, non più solamente estetiche e "spirituali", ma anche materiali, come i funghi e i cosiddetti frutti minori.
Contro la probabilità che si verifichino danni di questo tipo in prossimità dei poli d'attrazione turistica, si vanno definendo tecniche di selvicoltura che mirano a rendere il bosco poco "gradito" alla gente, oppure, all'opposto, attraverso il sacrificio di alcuni modesti lembi di foresta, resi gradevoli e recettivi, con la speranza che la restante parte dei boschi, più fragile e di maggior valore integrato, sfugga all'impatto almeno di questo tipo di "visitatore".
Più sottile e più grave è l'attacco portato in profondità nel bosco col diffondersi della viabilità minore.
La disponibilità di facili accessi e la moda del "fuoristrada" hanno favorito, infatti, non solo la penetrazione in massa degli "utenti", ma anche la dilatazione nel tempo della loro permanenza in foresta, oltre che il probabile diffondersi di patologie legate a specifiche forme d'inquinamento. In questo senso va comunque registrato il decadimento della "qualità" dei frequentatori della montagna, e del bosco, che spesso mostrano verso i fragili ecosistemi alpini sensibilità inversamente proporzionale alla potenza dei mezzi impiegati per salire in quota.
Con questa chiave va qualche volta letta anche la pratica della mountain-bike.
Il turismo invernale di norma non è conflittuale con la sopravvivenza del bosco. Nemmeno lo sci esercitato "fuori pista", purché praticato quando la coltre nevosa ricopre totalmente la vegetazione pioniera d'alta quota e nei siti in cui la rinnovazione, o i giovani alberi, abbiano i getti apicali portati ben sopra il piano della neve.
Resta pur sempre problematica la stima della capacità portante del territorio, o dei suoi singoli sistemi, pur nella eterogeneità dei significati attribuiti alla parola, di volta in volta ecologici, economici, idraulici e geo-pedologici, o anche più genericamente sociali, perché legati alla "globalizzazione" degli stili di vita e alla perdita di identità delle genti di montagna.

Nuovi problemi
L'inquinamento diffuso dell'aria da fonti vicine, quali il traffico stradale e le combustioni domestiche, ma soprattutto da fonti lontane, come i centri industriali della pianura, che producono effetti anche a raggio continentale, è divenuto problema sensibile per il selvicultore.
Non ho notizie di manifestazioni gravi come quelle registrate in passato in Germania e nei Paesi dell'Est europeo; ma anche sulle Alpi si sono diffusi sintomi, a volte preoccupanti, delle nuove patologie forestali, i cui meccanismi d'azione sono ormai sufficientemente definiti, ma non così i sistemi per porvi rimedio.
Si dovrebbe ovviamente agire sulle cause del danno, cioè sui comportamenti dell'uomo che generano le nuove patologie forestali, ma si tratta ovviamente di scelte e di azioni che esulano dalle possibilità del tecnico forestale. Alla selvicoltura spetta invece il compito di individuare le specie più resistenti ai diversi inquinanti, recuperando razze ed ecotipi ignorati, o penalizzati in passato ma che oggi, attraverso l'aumento della biodiversità dei sistemi, potrebbero contribuire non poco a conferire stabilità alle cenosi più minacciate.
Certo è che i ritmi biologici degli alberi forestali, e i tempi necessari ai processi sistemici che coinvolgono piante, animali e terreni forestali, sono talmente lunghi, di norma centenari, da rendere aleatoria ogni previsione e da mettere a rischio i risultati degli interventi.
Le foreste, e soprattutto quelle più prossime alle condizioni di naturalità, sono quindi da considerare i più sensibili e i più fragili bersagli dei guasti prodotti dalla nostra società tecnologica.
Nella stessa area di problematicità si colloca il rischio di gravi attacchi di patogeni opportunisti, resi più attivi e distruttivi dal diminuire della resistenza del sistema, su cui influiscono negativamente non solo gli inquinanti e il carico antropico, ma anche i cambiamenti d'ambiente.
Tra questi si ha l'effetto serra e l'innalzamento della temperatura (global warming), che in sinergia coi cambiamenti dei regimi udometrici, sta determinando spostamenti del limite superiore del bosco, rottura di secolari equilibri compositivi e l'innesco di processi successionali di cui non si può prevedere il possibile stadio finale a medio termine. In tale direzione agisce anche il cambiamento qualitativo dell'aria, col il tasso di CO2, che cresce di 1.5 ppm ogni anno, con l'incremento di O3 a livello del suolo, con i cambiamenti qualitativi del flusso radiante, con l'estremizzazione degli eventi meteorici, tutti fattori che avranno effetti difficilmente immaginabili sulla tenuta e sulle possibili linee di evoluzione delle nostre foreste.
Resta importante, e il trend delle frequenze induce pessimismo, il rischio di incendi, oggi legato più al turismo che alle pratiche agricole. Al fuoco è collegato il rischio d'instabilità idrogeologica, soprattutto sulle aree a maggior pendenza e dunque di scarso valore e di più difficile accesso.
Foreste e selvicoltori guadagnano la ribalta dei media "grazie" agli incendi e alle alluvioni. Dopo gli eventi del 66 si discusse ovunque, e a ogni livello, sui collegamenti tra governo della montagna, allora quasi sinonimo di governo del bosco, e dissesto idraulico e geologico in relazione agli eventi meteorici intensi.
Da allora la discussione si riaccende ogni anno, anche se l'attenzione si è via via spostata sul degrado urbanistico, una volta accertato il miglioramento funzionale dei boschi e il fatto che quelli ben governati e ben trattati hanno ottima efficacia nella intercettazione delle acque meteoriche, nella regimazione dei deflussi e nella mitigazione delle piene, ovvero nel dare stabilità alle terre, in montagna come in pianura.
Sicuramente lo sviluppo di nuove tecnologie ha giovato molto al miglioramento delle condizioni in cui si svolgono i diversi mestieri forestali, rendendoli un po' meno pesanti, più sicuri, più veloci e più redditizi rispetto al passato.
Ma non ostante questi decisi miglioramenti, l'imprenditoria legata alle utilizzazioni forestali mostra i segni di un deciso declino. Pochi, e solo per breve tempo, sono coloro che si dedicano ai lavori in foresta, forse non solo per questioni di reddito, ma soprattutto per motivi di prestigio sociale, che assolutamente non viene riconosciuto a questa categoria di imprenditori.
Così c'è il rischio che per mancanza di questi operatori tecnici, e al declino delle economie ad essi collegate, venga a cessare anche il controllo dei fenomeni connessi al ciclo delle acque e alla stabilità dei versanti, col seguito di quei minuti e diffusi interventi che erano presidio quasi invisibile, ma fondamentale, della montagna.
Si dovrà, allora, intervenire a valle, dove le opere di presidio e di controllo della vulnerabilità assumono, a carico di tutta la società, dimensioni e costi ben più importanti.
Oggi un po' dappertutto nel mondo si scopre che le foreste molto giovano alla stabilità delle terre. Ad esempio l'Istituto Wuppertal (1995) segnala come circa 50% del degrado dei terreni agricoli sia dovuto ad erosione idrica ed eolica, e come esso possa essere direttamente o indirettamente mitigato attraverso una adeguata politica di potenziamento dei sistemi forestali.
Da noi tutto questo è conosciuto da molti anni; giusto quattro secoli fa, nel 1601, veniva steso e presentato al Consiglio dei X della Serenissima il progetto dei fratelli Paolini, "pianificatori" bellunesi, che denunciavano l'errata gestione delle terre di montagna come causa prima del degrado della laguna e del rischio d'alluvione. Più di recente va ricordato lo storico dibattito tra forestali e ingegneri tenuto nel 68' all'Accademia di Lincei in tema di dissesto idraulico e geologico in area montana (L. Susmel, 1968). Tra le due culture professionali vi era e vi è ancora una fondamentale differenza di posizioni tecniche: gli ingegneri hanno a mente soprattutto la progettazione, che muove dalla necessità di provvedere nell'immediato a rimediare alle emergenze; gli altri invece da sempre lavorano alla pianificazione, che è metodo con cui si cerca la strategia migliore per risolvere il problema alla radice, anche se in tempi lunghi, con percezione globale delle cause e degli effetti e attraverso il governo coordinato dei processi e dei fenomeni che avvengono in area vasta.

Cosa potrà cambiare per la selvicoltura?
La selvicoltura, come ogni altra pratica colturale, deve fare i conti con l'economia. Possedendo l'unico strumento del taglio, essa può mirare ad ottenere continuità di buoni redditi secondo le differenti funzioni che la società attribuisce al territorio forestale solo con la prospettiva di realizzare un accettabile utile nel mercato della produzione legnosa.
Sotto questa angolatura possono essere più correttamente intesi i cambiamenti di tecnica, e nei fondamenti culturali, che reggono la pratica selvicolturale.
Nei decenni, soprattutto negli ultimi quattro, gran parte delle tecniche selvicolturali sono infatti state rivisitate in ragione dell'evoluzione in senso ecologico, e ambientalista, sia della società, sia dei tecnici incaricati dell'"azienda" forestale. Hanno così conosciuto un netto declino tutti gli interventi che potevano portare il sistema verso strutture pesantemente coetanee e monospecifiche, ma che davano idea di consentire alla proprietà e all'impresa redditi apparentemente elevati nel breve periodo. Senza ovviamente contare i costi indiretti nel medio e nel lungo periodo, in quanto legati al degrado delle strutture forestali. Ha così trovato terreno fertile quella nuova concezione selvicolturale, comunemente detta "naturalistica", mirata, più che alla massima produzione legnosa, al perseguimento della maggiore stabilità biologica del bosco, a quella "fisica" delle terre e dei versanti (funzione di presidio idrogeologico), oppure, ancora, all'ottimizzazione della funzione ricreativa, teorizzata, sul finire degli anni '60, con la locuzione "terza dimensione della foresta". Vicina a questa funzione vi sono quella culturale e quella paesaggistica, che si ottengono cercando di dare al bosco le forme, i colori, le prospettive sceniche e la profondità delle vedute che si ritengono utili alla meditazione e alla elevazione psichica, oppure, più semplicemente, alla gratificazione estetica.
In genere risultati buoni per tutte queste funzioni si ottengono con interventi di curazione ben distribuiti nel tempo e nello spazio, tagliando cioè su piccole superfici, al limite "per pedali", e tornando a tagliare sulla medesima area a distanza anche di molti anni. Così si garantisce copertura continua del suolo, che è, salvo debite eccezioni, presupposto alla continuità e alla regolarità dei cicli energetico-materiali.
E in molti casi, dove sia ammissibile, si giunge ad accelerare i processi di "naturalizzazione" dei sistemi, ad esempio lasciando in foresta una parte della sua necromassa, ed anche qualche albero morto in piedi, affinché si di essi trovino nicchie favorevoli molti degli organismi che giovano alla biodiversità e dunque al potenziamento degli equilibri ecologici. Si può intuire come l'economia legata al turismo non sempre si concili con questi indirizzi gestionali.
Alla biodiversità, ad esempio, è nemica la presenza dell'uomo, ma ancor più il disturbo portato in profondità dai ricercatori di funghi, il costipamento del suolo a margine dei sentieri sempre più ampi e più fitti intorno alle località di villeggiatura, il rumore portato in quota con strade e con impianti di risalita. A farne le spese, poi, sono soprattutto quegli animali che, nell'immaginario collettivo, sono "testimonial" della montagna e della sua natura, venduta a buon prezzo sul mercato del turismo. Da qui si aprono importanti scenari per il futuro impegno culturale, scientifico e tecnico degli operatori del bosco e della montagna. Mi azzardo a segnalarne qualcuno.

Diversità. Un primo ha indole scientifica, e trova spazio nella ricerca sull'intima struttura del bosco, che è comunità di molte specie, egualmente importanti per la vita del sistema e tutte capaci di trasmettere al tecnico preparato utili indicazioni su come organizzare la gestione del bosco. La strada sperimentata in questa regione, basata sullo studio e sul riconoscimento di un congruo, significativo, numero di tipi di bosco, soprattutto se agganciate alla conoscenza degli equilibri coi corrispondenti assetti pedologici, è da ritenere quella migliore per giungere a risultati buoni sul piano operativo.
Interdisciplinarità. Un secondo promettente cammino è quello preso dalla pianificazione d'area vasta, che quasi ovunque ha riconosciuto alla ecologia, e alle sue pratiche applicazioni, un respiro che non è quello ideologico, o di settore, ma è assai più profondo e organico, capace di portare lo strumento della pianificazione alle valenze proprie dell'interdisciplinarità e della integrazione costruttiva delle diverse e necessarie competenze professionali.
In questa prospettiva il bosco non va più inteso come sistema a sé stante, ma come elemento di un paesaggio più articolato e interconnesso di vari altri sistemi, da capire e da gestire con processo appunto interdisciplinare.
Ma lo sguardo di chi ha facoltà di muovere e di guidare il governo del territorio deve, a mio avviso, mirare più in là di tutto questo, verso un terzo orizzonte.
L'obiettivo è riuscire a fare leva sulla sensibilità della gente verso i problemi della montagna.
Non sono forse problemi molto differenti da quelli già affrontati nelle aree di pianura, ma sono più attinenti all'ambiente, alla qualità della vita, alla consapevolezza della fragilità dei sistemi ecologici dai quali l'uomo dipende.
La montagna, infatti, ha senso per le sue specificità ambientali, che ne fanno un patrimonio unico e irripetibile, da usare con accortezza e parsimonia per averne in cambio benessere, e dunque non da svendere tutta e subito per poche lire, a vantaggio di pochi, con danno per tutti gli altri.

A mio avviso si tratta di una questione di cultura, di identità di popolo, di orgoglio da ricostruire con i sistemi propri della comunicazione, della educazione e della corretta e capillare informazione.
Che è, appunto, il quarto fronte su cui si cimentano il bosco e la montagna.