Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 37 - OTTOBRE 2002


TROVARE UN’ALTRA IDEA DI RICCHEZZA
Ambiente, Mediterraneo, Misura
di Mariano Guzzini
Incontro con Franco Cassano
Come sempre, anche in questa estate di nuovo millennio non si riesce a staccare davvero. Troppi fili restano collegati a vicende di incerta evoluzione, e la vacanza in queste condizioni appare ed è davvero un lusso, oppure un “deleatur” (alla Saramago), un “non” abusivo e provocatorio inserito nella nostra personale storia dell’assedio della Terra da parte della volgarità e della stupidità.
Sicché, per non perdere il vizio della cultura e dell’ottimismo della volontà, mentre si cerca di capire cosa ci verrà raccontato a Torino, alla seconda conferenza nazionale delle aree protette, e cosa noi stessi faremo in modo che ci venga detto, tento di mettere in campo un’altra grande firma del dibattito europeo e mediterraneo: il Franco Cassano di “Paeninsula”, del “Pensiero meridiano” di “Modernizzare stanca” , e di “Mal di levante” che mi appare il prosecutore naturale di quel conversare acculturato che da qualche numero sto cercando di condividere con alcuni di coloro che mostrano di avere una qualche sensibilità verso i temi che affronta la nostra rivista.
E’ curioso, infatti, come tutte le culture siano attraversate da reticolati e da terre di nessuno, al punto che un poeta come D’Elia si meraviglia molto di essere intervistato a proposito di aree protette, un giornalista del tonnellaggio di Piero Ottone quasi si chiama fuori, e lo stesso Cassano si difenda e si schermisca, chiarendo a più riprese di non essere, e di non avere in programma di diventare un esperto di parchi naturali.
Come faremo a costruire un mondo diverso, ricco di valori condivisi, se ogni approfondimento appare uno specialismo, e se ogni specialismo rischia metastasi che lo trasformano nell’armatura di un segmento di corporazione che parla idioletti misteriosi e vive di nozioni pettegole e inconfessabili, e di oscuri processi di esclusione e di cooptazione?
Me lo chiedo in treno, nell’afa pesantissima di una giornata estiva che finirà in lampi, tuoni e fulmini, ed è assai probabile che l’inquietudine della natura mi renda più inquieto del ragionevole nei confronti degli specialisti e degli specialismi.
Tant’è che poche ore prima, quando mi sono trovato nel cuore della Bari descritta magistralmente in “Mal di Levante”, al cospetto della chiesa San Giuseppe e del cinema Esedra, nell’intersecarsi dei confini delle quattro Bari dal complesso passato e dall’incerto avvenire con le file di ragazzini seduti sui gradini della chiesa di San Giuseppe in attesa del futuro, ho ritrovato il gusto della ricerca porta a porta. E quando mi sono seduto in una stanza il cui balcone si affaccia su quella piazza e su quella fila di ragazzini, in una sala dall’alto soffitto affrescato e dall’arredamento sobrio ed elegante, dove la pace si sposa con la serenità, ed un the freddo riconcilia con il piacere del rapporto interpersonale, il dialogo è nato subito semplice e naturale. Partendo da Ancona, città natale di Cassano, e dai fatti privati, per spostarsi ai fatti pubblici.
Due testi del Cassano impegnato nelle vicende civili sono il pretesto del passaggio del discorso dai fatti privati a quelli pubblici.
“Mal di Levante”, pubblicato da Laterza nel 1997, un anno dopo del più noto “Il pensiero meridiano”, ed un fascicolo a colori, molto illustrato, “La città e il mare”, frutto del lavoro collettivo di “Città plurale” associazione per la rinascita della cittadinanza attiva, dicono in chiaro, nero su bianco, che Franco Cassano si batte a viso aperto contro i mostri ambientali e contro le dinamiche sociali e psicologiche che generano l’inestricabile involuzione di tutte e tre le Bari moderne, lasciando tuttavia spalancata la speranza di una nuova e migliore sintesi tra vizi pubblici e private virtù. (m.g.)

M.G.
In "Mal di Levante" parli della decadenza di Bari e della sua possibile salvezza, vista come presa di coscienza delle ragioni del malessere urbano della nostra civiltà, che fa dei luoghi di tutti una terra di nessuno. Bari ha sperimentato in anticipo l'indecenza dell'accostamento tra opulenza privata e squallore pubblico, come conseguenza della mercificazione di ogni bene. Reagire a questo, significa indicare la strada di nuovi modi di vivere utili per superare ogni malessere urbano. Parlando della "cura", vale a dire della possibile fuoriuscita da questo inferno, parli di tre cose in una: dell'autentica vocazione mediterranea di una università capace di capire che essere ponte non vuol dire colonizzare, e che cerca la fusione tra valorizzazione turistica e tutela dell'ambiente. Puoi essere più dettagliato nel definire queste chiavi di volta della fuoriuscita dal malessere urbano che incombe su ogni città? E puoi immaginare un ruolo di un parco che sia a ridosso di una grande città malata di mercificazione e di postfordismo, come antidoto naturale?

F.C.
Io la metterei così: è giusto che il parco che si trova vicino ad una metropoli inquinata e alla Blade Runner permetta di ritemprarsi a coloro che vivono in un mondo di replicanti, computer e protesi meccaniche, di fuggire in uno spazio verde, come quello verso cui corrono i due protagonisti alla fine della versione tradizionale del film di Ridley Scott. Ma così esso sarebbe solo compensazione, funzionale al mondo che lo circonda, ora d'aria nel grande meccanismo della produzione. Io spero in un rimbalzo critico, vorrei che il Parco riuscisse a dire qualcosa alla Metropoli che lo circonda, non nostalgia del passato, ma nostalgia del futuro, di un futuro che non sia pura prosecuzione del presente.
Certo, i turisti non sono il demonio, e il turista è concepibile quando tra i popoli c'è la pace, ma occorre educarli facendo sul serio, ricostruendo un'ecologia del turismo, facendo vedere anche i suoi effetti perversi, gli inganni che esso presuppone e costruisce, occorre metterli sull'avviso sul rischio di una grande Disneyland universale. Una cosa è che un paese viva di turismo, un'altra è che perda la sua identità facendo di essa una merce per vendere la quale si trasforma in un'altra cosa. Si diventa tutti uguali vendendo all'acquirente delle differenze da cartolina, è proprio il contrario della custodia della varietà e della diversità.
Bisogna fare breccia nei percorsi levigati e artificiali dei turisti, evitare un esotismo di bassa lega, perfettamente conciliato con il non uscire mai da casa propria. Ecco, un parco potrebbe promuovere una riflessione seria sul turismo, sui suoi pregi e sui suoi difetti, non preoccuparsi solo di ammettere o non ammettere turisti. Insomma non è il parco per sé, ma il parco più ciò che è capace di fare e di dire su ciò che lo circonda. Nessuno ha il rimedio, ma non per questo si può rimuovere la malattia o interdire i tentativi di trovare una terapia.

M.G.
Qualcuno (Federparchi e la Regione Puglia) sta lavorando per organizzare alla Fiera del Levante una esposizione delle aree protette dell'areale del mediterraneo. Potrebbe essere la grande occasione per riannodare i fili spezzati delle antiche koinè, o per individuare la fisionomia di quella nuova che c'é ma non si esprime ancora con una voce ed una dignità unica, capace di essere la cura del malessere urbano che Bari esemplifica, ma che è presente in Europa ovunque il moderno si identifichi con la mercificazione dei beni pubblici, e ovunque l'ironia e la malinconia vengano sostituite dalla virilità e dalla fisicità del principio di realtà?

F.C.
Tutto ciò che di serio si fa sul Mediterraneo mi interessa, e potrebbe essere interessante l'iniziativa che tu dici. Ma da noi spesso l'etichetta Mediterraneo viene appiccicata su tutto, e può essere il nome dato ad alberghi che cementificano la costa, o a banche che riciclano danaro sporco.
Del resto spesso una parte dei paesi arretrati mette l'ambiente tra le risorse da vendere per entrare nel gran circo universale dell'opulenza Sarebbe invece molto importante riuscire a far capire in che modo la conservazione della natura può essere una ricchezza. Ma qui torniamo al punto decisivo, l'idea di ricchezza.
Non credo ad un titanismo del Parco (tutto il discorso ha senso solo se esso è un nodo di una rete più larga e complessa), ma esso potrebbe dare un contributo proprio a partire da sé, provare a definire un'idea di ricchezza in cui l'aria, il mare, l'acqua, le foreste sono beni pubblici, una ricchezza comune, comune a tutti gli uomini e le donne di oggi, ma anche a quelli che seguiranno.
Ecco, occorrerebbe provare a trovare una nuova idea di ricchezza, contenuta in quella nozione di Misura che Camus indicava come caratteristica del Mediterraneo. Ambiente, Mediterraneo e Misura.

M.G.
Se avessimo ragione, e se fosse vero che tutelare paesaggi, monumenti e culture, biodiversità e multiversi, sia oggi l’occupazione più adatta a chi vuole collocarsi dalla parte della soluzione dei problemi del globo, in che modo è possibile scivolare su qualche banana e tornare in un colpo solo a far parte del problema (e non più della soluzione) rientrando a pieno titolo nella palude della banalità e nel grande oceano delle ovvietà dominanti?

F.C.
Se ci si siede sul parco, non nel parco, cosa sicuramente benefica e consigliabile, il rischio di questo ribaltamento c'è. Un parco tutela una parte della natura, ma su questa pur nobilissima funzione di conservazione ci si può sedere, dimenticandosi del mondo, dello stato in cui la natura giace al di là dei confini del parco. Anzi di fronte a tanta violenza ci si può beare della propria diversità, soddisfatti di potersi sottrarre allo scempio universale. Si potrebbe però osare di più, chiedersi se il rapporto specialissimo con la natura che all'interno del parco si instaura non possa essere rovesciato all'esterno, come un metro critico dello stato di salute della natura fuori del parco. Il parco avrebbe qualcosa da dire anche su come vanno le cose al di fuori dei suoi confini. Senza arroganza, ma con la sicurezza di sapere qualcosa di utile.

M.G.
C’è un abbaglio clamoroso, c’è un incurabile narcisismo monomaniaco, c’è una presunzione luciferina, nella nostra idea di avere le mani in pasta nella risposta concreta (e praticabile da moltissimi altri) al carattere nevrotico ed ansioso della società moderna nella sua globalità?

F.C.
C'è una gran chiacchiera ecologica, spesso incurante dei risultati, con atteggiamenti nobili, ma solo di facciata, un ecologismo prêt à porter. Ma forse al peggio non c'è un limite, perché oggi abbiamo un ministero dell'Ambiente, che sembra essere pentito della propria esistenza e sogna di ricongiungersi al vecchio e caro ministero dei Lavori Pubblici. Tutto questo non accade per caso, ma fa parte di una sistematica distruzione o vendita all'incanto dei beni pubblici, di quelli che appartengono a tutti i cittadini. Io credo che l'ambiente sia il principale bene pubblico dell'umanità, e che il suo malessere dipenda dal fatto che non esiste nessuna autorità capace di tutelare questo bene, la cui cura dipende da accordi ai quali gli Stati più potenti e più inquinatori si sottraggono senza pagare alcun costo. Staccare la tutela ambientale da questo sfondo politico, da questa lotta, può essere rassicurante, ma corre il rischio di farne un'attività museale, consolatoria rispetto agli stupri sistematici che si perpetuano ai danni della Terra. I parchi non possono essere una natura in bacheca, non si possono sottrarre a questo conflitto.

M.G.
Lo sviluppo sostenibile (alcuni scrivono “autosostenibile” e la differenza è molto interessante) non è necessariamente “moderno”. Non si tratta di mettere altra legna ed altro fuoco sotto la pentola di Tocqueville, né di passare dalla pentola normale alla pentola a pressione. Il progetto autosostenibile che si sperimenta nei parchi ha la possibilità di rimodulare il rapporto dell’uomo con la conoscenza in forme e tempi molto legati all’idea che perdere tempo può anche significare guadagnare tempo, ed ha la possibilità di ripensare ai lavori in un nuovo e differente rapporto con il paesaggio, la storia, le tradizioni ed i tempi di vita?

F.C.
Credo che qui si giochi una scommessa importante. Il parco non deve essere l'esibizione di un'alterità che stupisce e annichila, di un'alterità irrecuperabile. La natura è e rimane il contesto insuperabile della nostra vita al di fuori del parco. Noi uomini abbiamo ridotto il pianeta a fondo di risorse a disposizione del nostro metabolismo e della nostra volontà di potenza. Io credo che dal parco debbano venire anche suggerimenti praticabili, non nostalgici, ma realistici, ipotesi di riforma della vita. Il cosiddetto progresso spesso non fa progredire. Ti faccio un esempio. Tempo fa il trullo che fitto per l'estate è stato collegato all'acquedotto, e il proprietario ha ritenuto trionfalisticamente di poter abbandonare la vecchia cisterna. Un tripudio della modernità! In questi giorni, in cui l'acqua è diventata drammaticamente scarsa, il vecchio sistema di raccolta dell'acqua piovana in cisterne è molto più efficace. Pensa che l'antica e classica classificazione dei trulli li distingue in funzione del modo in cui raccoglievano l'acqua piovana! Quanta consapevolezza del valore dell'acqua c'era in quell'antica definizione! Questo non vuol dire né che era meglio l'antico né che il piccolo è la soluzione di tutti i problemi. La tecnica può essere sottratta ad una crescita cieca ed esponenziale ed usata per spingere tutti ad economizzare l'acqua. Nessuna nostalgia, ma il rifiuto dell'etnocentrismo della modernità trionfante, di quella modernità che sembra voler bruciare qualsiasi idea di durata e si scarica tutta nell'attimo, nell'orgasmo del consumo.

M.G.
Tutto ciò è - per molti versi - nuovo. Nel senso di non conforme e di non conformista. E siccome il tempo passa in ogni caso, il percorso che si sperimenta nei parchi utilizzando fino in fondo “il senno del prima” è pur sempre un modo di progredire?

F.C.
Il progresso non coincide con lo sviluppo. Lo sviluppo è l'aumento della capacità di controllo del mondo, della disponibilità di beni, attraverso l'espansione della scienza e della tecnica applicate alla produzione. Progredire (pro-gredi), andare avanti, è un'altra cosa: esso si occupa della qualità, dipende dal giudizio di valore che si dà su una civiltà. Questa autonomia significa per esempio che, per poter valutare la qualità della nostra società, non si deve far ricorso solo ai parametri dominanti (il PIL, ecc.). Ci sono altri beni che costituiscono la ricchezza: lo stato di salute del mare, delle foreste, dell'atmosfera, la nostra capacità di rispettare i diritti delle future generazioni evitando di prosciugare tutte le risorse del pianeta, la capacità di innovare senza disperdere il passato, di contenere una pluralità di tempi e di forme di vita.

M.G.
Nessun parco tollera modelli esterni e ciascun amministratore così come ciascun operatore, ha molto a cuore la propria autonomia, si batte per difenderla, o per ottenerla quando gli viene negata. Eppure la somma di tante autonome proposte può essere vista come terreno di confronto per sviluppare percorsi analoghi, oltre i confini delle aree protette. Non pensi che lavorare attorno a questa problematica sia oggi una delle pochissime cause alle quali ci si possa affezionare (alla quale Pereira si potrebbe dedicare), essendo non ancora dimostrato che l’intero impianto sia destinato a fare fallimento?

F.C.
Io rispetto la varietà intellettuale in generale e non vedo perché non dovrei rispettare quella di coloro che amministrano i parchi. Ma credo anche che ci si debba confrontare, altrimenti la varietà diventa una cosa diversa, tanti piccoli regni senza comunicazione, una specie di recinzione delle proprie idee, uno ius excludendi omnes, che è la formula con cui i romani definivano la proprietà privata. Non credo che i parchi siano proprietà privata degli amministratori.

M.G.
Il pensiero meridiano è parente del pensiero pluriversalista e della prassi pluriversalista. Come potrebbero fidanzarsi e sposarsi?

F.C.
Il pensiero meridiano è un parente così prossimo del pensiero pluriversalista che un matrimonio configurerebbe un caso d'incesto. A parte gli scherzi, potrei dire che il pensiero meridiano è meno irenista del pensiero del pluriverso, che mi sembra certe volte non si sottragga ad una filosofia della storia ottimistica e provvidenziale. La pluralità comprende troppe cose per poter essere accettata in busta chiusa. Tra le tante differenze c'è anche quella tra i grandi poteri e i miliardi di uomini incerti sul loro futuro e sulle loro aspettative di vita. Questi non sono lati diversi dell'umanità, ma un solo lato, quello feroce dell'ingiustizia: questa pluralità così drammatica di destini è indecente e va combattuta. Direi ancora che il pensiero meridiano è anche un'idea del tempo determinata, esso crede che la lentezza sia una forma di esperienza di grande importanza. L'idea che il mondo progredisca diventando sempre più veloce è un'idea distruttiva e barbarica, ma è proprio l'idea dominante nella nostra società, fondata sull'integralismo della competizione e dell'economia. L'amore più veloce è quello a pagamento, ma l'amore vero ha altri ritmi, prende strade piene di curve, di ritorni indietro e di soste, d'inganni e di desideri che bruciano. E, come l'amore, la riflessione e l'educazione sono velocizzabili solo diventando un'altra cosa, solo pagando il costo di un'immensa mutilazione antropologica.

M.G.
Dopo quanto si è già detto, è possibile porsi l’obiettivo di conquistare il centro (come inviti a fare in “Paeninsula”) sulla base dell’incontro tra progetti di parchi realizzati da uomini-nord, est, ovest e sud? Come definire tali progetti? E come raggiungere l’obiettivo di conquistare e mantenere il centro?

F.C.
Io credo che il parco possa oscillare tra il mostrare un'alterità irrimediabilmente perduta e il diventare una casa dove si elaborano risposte che valgono anche per il "mondo di fuori", in cui l'alterità diviene un elastico che permette di ripensare il mondo esterno da una distanza, con un minimo di saggezza, la sperimentazione di altri ritmi e tempi di vita, il tentativo di elaborare una cultura più capace di riscoprire, sotto il tessuto della tecnica, il fondo di una condizione terrena che non è fatta solo di prodotti e progetti, ma anche di memoria delle origini, capace di ricordare che siamo una specie tra le tante, gettata su un pianeta azzurro, in cui la vita è nata sulla base di circostanze difficili ed instabili, che proveniamo da qualcosa che ci precede e che, nonostante tutto il nostro orgoglio, ci seguirà.
Nonostante tutto, la nostra vita si consuma ancora nell'alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni, tra il movimento inquieto dei pianeti e quello olimpico e ripetuto delle stelle, sospesi a metà tra il ciclo lungo degli alberi secolari e quello brevissimo degli insetti effimeri, tra le piogge e la sete, tra il polo e l'equatore, è un tragitto con una sola direzione che va dal nascere, al fiorire, all'appassire, al morire. Senso della misura e del limite significa riscoprire ciò che resiste alla nostra ossessione di distinguerci e contrapporci a tutte le altre creature, che ci rende simili a ciò che ci circonda, presi dallo stesso ciclo.
A suo modo anche un parco è un artificio, perché per nascere e riprodursi, deve far uso di tecniche e competenze, del lavoro e dell'intelligenza di molti, deve lavorare paradossalmente contro la stessa società che lo produce, o almeno contro i suoi aspetti più distruttivi.
In qualche modo ricorda i dilemmi dell'etnologia, è un salvare dettato dal rimorso. Ma rispettare (re-spectare) significa guardare indietro. Lo sguardo all'indietro del parco è uno sguardo che si oppone al fondamentalismo dello sviluppo, a quel suo titanismo che lo porta a scavalcare ogni limite.
Esso può aiutare a reintrodurre il senso del limite, a rallentare la corsa folle della nostra civiltà, a renderla capace di coabitare con le altre culture e con l'equilibrio del pianeta. Ho già detto prima, parlando del rapporto tra la costruzione dei trulli e il valore dell'acqua, che spesso, in quelle che noi chiamiamo culture sottosviluppate, è depositato un prezioso sentimento del limite. La modernità si salverà solo se, invece di pretendere solo di insegnare, ricomincerà ad apprendere dalle altre culture. Il centro di questo complesso equilibrio è una saggezza fatta di molte saggezze, una de-costruzione di tutti i fondamentalismi, compreso quello del moderno. Nella follia del parco ci può essere del metodo.

Qui prendiamo fiato, e facciamo conoscenza con alcune figure importanti nella vita del nostro interlocutore. La signora Luciana Cassano, che ci offre bevande fresche. Il figlio, Giuseppe. Un rappresentante della natura, nella fattispecie cane, che ci studia con occhio benevolo. La conversazione interrotta riprende da un mucchietto di fogli scaricati da internet: è il documento del National Park Service degli Stati Uniti che cade molto a proposito per attualizzare il nostro dialogo.

F.C.
L’impressione che mi sono fatto, leggendo quel testo, è quella di un tentativo di passare dal conservazionismo duro ad una soluzione più moderata…
E’ come se il parco venga visto come un’interfaccia tra qualcosa e qualcosa d’altro, anzi come una finestra sull’”altro”. Per gli europei e per noi italiani potremmo dire che si apre un dialogo nuovo, quasi un “rimbalzo”. Al di là delle differenze, delle diversità tra i due contesti, c’è da vedere se c’è qualcosa che può rimbalzare- dagli Usa- nella nostra cultura, e non parlo solo di archeologia, e di tutto ciò che in Europa già avviene nel campo della tutela attiva. Direi in prima battuta che quello che potrebbe rimbalzare dagli Stati Uniti è un nuovo modo di interpretare e di utilizzare l’alterità.
L’alterità della natura è molto più forte nei grandi spazi della vecchia America, nella letteratura, come con Henry David Thoreau, nei racconti di viaggio presso il laghetto Walden.
Lì sì che c’è alterità forte: il riavvicinamento, il recupero di una dimensione culturale è un fatto positivo se porta con sé qualche elemento di quella alterità rispetto al nostro sistema di oggi. Equilibrio non coincide necessariamente con l’avvicinamento.
Non c’è solo l’ingresso della storicità nella natura, c’è anche l’elemento specularmente contrario che è molto importante perché arrivando a quella cultura - quell’elemento contrario- può valorizzare quelle dimensioni che danno peso ad un'altra concezione del tempo, dello spazio, del consumo.
L’impostazione in parte nuova che viene adottata dal NPS è molto interessante, e può contribuire ad aggiustare il tiro in certi modi di fare educazione ambientale o didattica ambientale e naturalistica, purché l’archeologia non diventi nostalgia di un mondo passato, e la nuova posizione dei parchi americani la si possa leggere come una serie di suggerimenti che mirano a superare il settorialismo. Se nel concetto di educazione, di un ruolo attivo che i parchi possono avere, si comincia a mettere anche questa dimensione –il recupero delle antiche culture- si riesce a mettere anche questo rapporto dolce che esse avevano, questo può essere un elemento rilevante. Siamo parte di una civiltà antica e straordinaria, ma oggi il carattere distruttivo di questa società è molto forte. Questa alterità mi è sembrata un elemento prezioso, l’andare oltre, laddove l’uomo non ha ancora analizzato tutto. Con l’Umanesimo era sorto il grande valore dell’uomo ma poi si sono rotti tutti gli argini a causa dei suoi discendenti, dell’espansione violenta della tecnologia. Una cosa mi sento di affermare con sicurezza: nelle culture altre da noi, dove percepiamo elementi di miseria, di degrado, di sopraffazione, ingiustizia, arretratezza… possiamo trovare anche antiche risorse di saggezza. Ci siamo distaccati dal concetto di bene comune.
Se il parco con la sua alterità ci aiuta a recuperare elementi perduti, a partire dal bene pubblico dell’ambiente, avrà fatto molto.
Ancora in riferimento al documento dei parchi americani, mi è venuto in mente un altro autore: Hans Jonas, “Il principio di responsabilità”. L’uomo che si adopera per negare il non essere, agendo in favore della vita sua e delle generazioni future.
Come dice anche Woody Allen, perché dobbiamo fare i sacrifici per le future generazioni? E’ una battuta: configurare i propri interessi significa configurare qualcosa di molto astratto ma l’alterità, il senso dell’alterità aiuta a capire questo processo, il passato ci aiuta a capire il futuro, per trascendere il nostro modello di vita, che è come una macchina senza freni, per introdurre modelli, diciamo, di “saggezza”, di controllo.

M.G.
La macchina deve avere meccanismi severi di controllo, per non impazzire. Ed è del tutto evidente che molte “pazzie” vanno corrette, con misura, e sapienza. Del resto l’umanità ha abbandonato antiche certezze per avventurarsi in mare aperto, e ha bisogno di bussole e strumenti satellitari che erano inutili quando si limitava a seguire la linea di costa.

F.C.
Nel momento stesso in cui recuperi una parte della tua storia –ho in mente un autore come Bateson specialmente in quel libro rivisto dalla figlia dove parla delle religioni come di una specie di anticamera del “dio Eco” (l’ecologia, non l’Umberto delle bustine di Minerva), per cui alcuni vecchi interdetti religiosi sarebbero come un’intimazione a non superare certe soglie.
Quindi il nostro processo di secolarizzazione coincide con un abbandono di questo vincolo... il punto fondamentale è chiedersi se in queste antiche culture nostre, nelle diverse mitologie, non ci sia un sentimento dell’ equilibrio che sicuramente oggi non si può raggiungere proiettandosi all’indietro ma che può essere in parte recuperato nella nostra cultura di oggi.
Faccio l’esempio dell’acqua: le moderne tecnologie dovrebbero mirare ad una conservazione, ad una non- perdita del bene acqua, non solo perché gli acquedotti devono essere opere ben fatte ma perché è opportuno che esista una raccolta dell’ acqua decentrata ed a questo punto anche garantita.
Credo che alcune importanti trasformazioni di questa grande società dovrebbero essere ispirate ad un recupero –creativo, ovviamente- di alcune di queste formule. Come quando gli indiani uccidevano il bisonte, e lo utilizzavano tutto: c’era un elemento di saggezza ecologica. L’archeologia a questo punto diventa qualcosa di molto importante perché farebbe rimbalzare nella nostra cultura elementi arcaici, producendo un cambiamento.

M.G.
L’alterità, la diversità fanno parte dell’essenza stessa dei parchi… Ne può derivare un aiuto per l’Europa, da questa esperienza dei parchi ed anche da quello che ci dicono gli americani (altrimenti, subendo passivamente l’impronta del capitalismo renano e del pensare luterano rischiamo di sfasciarci contro una idea monolitica e monomaniacale di Europa che probabilmente non esiste neppure sulle coste del mare del Nord)?
Questa nostra alterità, non ti sembra che vada nella direzione di un equilibrio tra le varie culture, nate nelle coste dei mari del nord, del centro, e del sud?

F.C.
Sicuramente, c’è un modo per trovare l’equilibrio, anche da parte di quelle culture che dicevamo, sottosviluppate… per arrivare a formare un quadro nel quale deve poi “saltare” l’autarchia, il modello sviluppista che tende a far riferimento solo a se stesso. Tutto ciò che lo relativizza, che lo fa vedere con altri occhi, ne costituisce una delimitazione, naturalmente con qualche rischio.
La grande risorsa è che il parco nella sua alterità costituisce una risorsa culturale, simbolica, di altissimo valore.
Le differenze sono da questo punto di vista secondarie rispetto all’elemento principale e la riflessione sulla biodiversità oggi fa parte della stessa nozione di complessità, che significa che non esiste un unico modello dove far rientrare tutto.
Altro termine da definire sempre meglio é “fondamentalismo”. Per me fondamentalismo è quando vedo le differenze dell’altro come imperfezioni e propongo me stesso come terapia dell’altro. Mentre mi pare ormai chiarito che per “alterità” intendo la relativizzazione di se stessi. Vedere le cose dal punto di vista degli animali, dell’altro genere, di altre età… questo significa avere una visione “al plurale”.
E che altro aggiungere sul concetto di “bene comune”? Uno dei rischi di quest’epoca è la secolarizzazione della trascendenza, la demitizzazione.
Una delle variabili di questo Governo, ad esempio, è mercificare il bene comune rappresentato dall’ambiente, non ti pare?