Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 37 - OTTOBRE 2002


“ PIANIFICAZIONE E OPERATIVITÁ ”
Le aree protette sono in grado di operare anche in assenza dei piani?
di Carlo Alberto Graziani
Vorrei partire da un paradosso riferito da Roberto Gambino: da un lato la crescente importanza assegnata alla pianificazione dalle leggi ambientali e, dall’altro, il fatto che il governo del territorio sembra - o sembrava? - aver decretato la morte del piano e il trionfo della deregolamentazione. Vorrei allora innanzitutto chiedermi se la pianificazione serve alla gestione di un parco: sono necessari il piano per il parco e il piano pluriennale economico e sociale? Certo, siamo obbligati a farli perché la legge quadro sulle aree protette li prevede: ma sono necessari o rappresentano un mero orpello formale?.
Voglio essere realistico e nello stesso tempo costruttivo. Dai dati offerti dallo stesso Gambino risulta che solo il 55% dei parchi, tra nazionali e regionali, si è dotato del piano per il parco, anche se un ulteriore 30% lo sta elaborando. Mi rendo conto che dall'angolo visuale di Gambino si tratta di un dato positivo; la realtà però mostra che i parchi stanno esprimendo notevole vitalità e sono in grado di operare positivamente anche senza i piani; d’altra parte non va tralasciato il fatto che quelle percentuali sono molto inferiori per i parchi nazionali e che i parchi nazionali storici hanno vissuto per decenni, e continuano a vivere, praticamente senza piani. In particolare per quanto riguarda il Parco Nazionale dei Monti Sibillini, esso, a otto anni dalla sua operatività (la relazione del prof. Graziani risale al novembre 2001), non ha ancora il piano per il parco e ha appena adottato il piano pluriennale economico e sociale che però non è ancora stato approvato dalla Regione e quindi non è operativo.
Nella gestione quotidiana si avverte la mancanza dei piani? La risposta è in sostanza negativa. Anche se spesso si ritiene che i piani e soprattutto il piano per il parco rappresentino la panacea (quante volte diciamo: “al momento in cui avremo il piano potremo affrontare e risolvere i problemi”), in realtà non sembra che nella gestione quotidiana i parchi mostrino incertezze reali e comunque, se incertezze vi sono, esse quasi mai sono attribuibili alla mancanza dei piani. Tanto che è stata teorizzata l'esistenza una sorta di piano implicito il quale consisterebbe nella sintesi delle scelte fondamentali che gli organi del parco, pur in mancanza di piani, hanno effettuato e continuano a effettuare.
Tale mancanza dunque non è di impedimento all’operatività dei parchi; ben altri sono gli impedimenti, ma non è questa la sede neppure per un cenno. I parchi invece sono operativi anche senza i piani. Prendiamo la questione cruciale dei nulla-osta: istituzioni e privati li richiedono ai parchi; i parchi li rilasciano (e oggi esiste pure un avallo giurisprudenziale sulla legittimità dei nulla-osta in mancanza dei piani) e anche grazie a ciò sono riusciti ad affermare la loro autorevolezza.
In fondo i parchi potrebbero dire ai comuni e agli altri enti: “fate voi i vostri piani, noi ci limitiamo a valutarli e se la valutazione è positiva rilasciamo il nullaosta come la legge ci consente”; e così si potrebbe tranquillamente andare avanti. Anzi proprio questa, in teoria, sarebbe potuta essere la scelta legislativa, anche se avrebbe creato qualche problema… occupazionale ad architetti e urbanisti.
Effettivamente in un quadro che si fonda sulla separazione, sulla gerarchia, sulla differenza il piano può considerarsi superfluo.
A ben vedere è proprio in questo quadro che i parchi storici hanno proceduto e che i parchi di nuova generazione, in assenza di piani, procedono. E’ un quadro però che finisce per opprimere, forse perché lascia tutto nella provvisorietà e inevitabilmente lascia ampi spazi alle scelte arbitrarie.
Se invece provassimo a fare un salto concettuale e a muoverci in un quadro di partecipazione, di intesa, di cooperazione, se ci convincessimo che il parco non lo realizza l’ente parco, ma è opera dell’insieme delle istituzioni e dalla società, ci renderemmo conto che il piano diventa strumento fondamentale perché rappresenta il terreno della partecipazione, del confronto, dell’intesa. Forse, in astratto esso potrebbe non essere necessario ai fini della partecipazione: non vedo però altro strumento migliore. L’attuale esperienza dei parchi, del mio Parco, dimostra che proprio sul piano si gioca la partecipazione: esso perciò diventa lo strumento fondamentale, il più importante, il decisivo.
Quanto ho cercato di dire non è il frutto di una considerazione astratta, se volete teorica: quella che vi porto è, lo ripeto, una testimonianza di oggi. Il Parco Nazionale dei Monti Sibillini — ma credo che tutti i parchi che hanno in corso di realizzazione il piano siano nella stessa situazione — vive proprio in questo periodo un momento delicatissimo e intenso sul fronte degli organi, del personale, dei progettisti nostri consulenti e soprattutto dei rapporti con le altre istituzioni. E' un momento drammatico, perché entra in questione non tanto la credibilità del parco, la sua autorevolezza, ma tutto un progetto, il ruolo generale dei parchi.
Ma se le cose stanno così, si scopre la vera portata di quel comma 7 dell’articolo 12 che è stato ritenuto devastante dal Presidente Moglie: “Il piano ha effetto di dichiarazione di pubblico e generale interesse e di urgenza e di indifferibilità per gli interventi in esso previsti e sostituisce a ogni livello i piani paesistici, i piani territoriali, urbanistici e ogni altro strumento di pianificazione”. Questa norma che si suole interpretare in termini di gerarchia — e anche oggi gli interventi l’hanno interpretata in termini di gerarchia, perciò di separatezza — in realtà va interpretata in chiave di partecipazione. Il legislatore proprio questo ha voluto dire: il piano per il parco sostituisce gli altri strumenti perché gli enti competenti a emanarli hanno portato le loro scelte, i loro piani in quel piano, sono diventati effettivamente co-pianificatori. Il piano per il parco (così lo definisce significativamente la legge quadro del 1991, anche se la legge 426 del 1998 torna a parlare di piano del parco) non è solo dell’ente parco, non è solo del consiglio direttivo e oggi, con la legge 426, del consiglio direttivo e della comunità del parco, è anche di ciascun comune, degli altri enti locali, delle regioni. Il piano per il parco è il piano di tutte le istituzioni: è la confluenza, la sintesi a livello alto di una serie di altri piani e perciò di una serie di scelte complesse (piani regolatori, piani paesistici, Pit, Ptc, ecc.).
Tutto ciò comporta un ruolo attivo delle altre istituzioni, ruolo che forse mai hanno svolto: perché se si deve realizzare la co-pianificazione non è il parco che propone, anche se di fatto la proposta tecnica può venire dal parco, ma tutti i soggetti devono esprimere attivamente la propria iniziativa e dunque svolgere un effettivo ruolo di pianificazione. Ed è proprio in ragione di questo ruolo che il piano per il parco vede riconosciuta dalla legge un’efficacia così pregnante.
Naturalmente l’efficacia sostitutiva del piano per il parco riguarda solo i contenuti che ad esso sono propri, altrimenti la legge finirebbe per rivelarsi contraddittoria: la legge invece va interpretata nel segno della razionalità e quindi dell'armonia, non invece della contraddizione. I contenuti che sono propri del piano per il parco sono indicati esattamente dall’art. 12; per gli aspetti ulteriori valgono i piani regolatori e gli altri piani. E questi – sia chiaro – valgono comunque: non perché contengono previsioni che non sono in contrasto con il piano per il parco, ma perché quegli aspetti non sono previsti, e non possono essere previsti, dal piano per il parco. Si potrebbe configurare una sorta di ruolo residuale degli altri piani, dove però l'espressione “ruolo residuale” è equivoca, perché sembra alludere a un rapporto gerarchico che invece non è in gioco: non si tratta cioè di piani di maggiore o minore importanza.
Non sono un pianificatore, però ritengo che gli aggettivi abbiano un senso: la terminologia che riconduce i rapporti tra piani nel segno della specialità o generalità, della ordinarietà o straordinarietà non è in grado, a mio avviso, di interpretare la complessità, la coesistenza, la confluenza, la cooperazione che sono le categorie concettuali che con quella norma il legislatore ha voluto introdurre. Credo che noi – istituzioni, giuristi, pianificatori - dobbiamo approfondire questi temi proprio perché, se è necessaria la partecipazione attiva di tutte le istituzioni, dobbiamo riuscire a capire esattamente come esse devono lavorare insieme, cioè cooperare, co-pianificare.
L'interpretazione in chiave di co-pianificazione mi sembra tale da restituire coerenza e armonia al sistema e inoltre evita – è necessario sottolinearlo – un delicatissimo problema di costituzionalità soprattutto alla luce della legge costituzionale n. 3, sulla riforma del titolo V della parte II della Costituzione, che, dopo il referendum, è oramai entrata in vigore e che attribuisce funzioni amministrative ai Comuni secondo il principio di sussidiarietà.
Non mi nascondo però che questa ricostruzione unitaria del sistema faccia nascere alcuni problemi: per esempio riguardo al ruolo dell’autorità di bacino, che non partecipa alla elaborazione del piano del parco e perciò non interviene nel processo di pianificazione, oppure riguardo agli aspetti tecnici della co-pianificazione. Quanto al primo problema, non sono in grado oggi di risolverlo, però sono convinto che non vi siano ostacoli insormontabili; quanto al secondo, spetta ovviamente ai tecnici - all’architetto, al pianificatore - l’individuazione degli strumenti idonei: ritengo però che anche nel settore della pianificazione i parchi rappresentino una sfida per trovare nuove soluzioni e soprattutto esigano che si innalzi il livello dell’analisi.
In proposito sono particolarmente interessato alla posizione della Regione Marche che ha indirizzato ai parchi una nota in cui la sostituzione dell’art.12 viene interpretata in modo letterale: il piano del parco si sostituisce integralmente agli altri piani. Ribadisco che non ci possiamo attestare — proprio perché urteremmo contro la ratio del sistema — su un’interpretazione del concetto di sostituzione in chiave gerarchica, anche se apparentemente questa sembra essere la lettera della legge. Come abbiamo però visto nella intenzione del legislatore la sostituzione è determinata dalla confluenza delle scelte di pianificazione; pertanto una sostituzione dell’intero piano non avrebbe alcun senso se non altro perché la norma prevede che il piano debba avere determinati contenuti.
A mio avviso non si tratta di auspicare un nuovo intervento legislativo: è possibile operare in attuazione di principi che già esistono nell’ordinamento e che devono essere interpretati. Potremmo così, nel caso del Parco Nazionale dei Monti Sibillini, costruire, nello spirito della legge, un procedimento di concertazione Marche-Umbria certamente utile e interessante.
Vi è un altro punto che mi preme sottolineare ed esso riguarda i rischi che incontra l’elaborazione dei piani: sono rischi che sperimentiamo nella gestione del nostro parco, ma che possono riscontrarsi nella pianificazione anche di altri parchi. Da un lato vi è il rischio dell’estrema semplificazione, o addirittura della banalizzazione: il piano diventa mera sommatoria dei piani urbanistici dei Comuni, mera sommatoria, per quanto riguarda il Ppes, dei desiderata dei Comuni e degli altri enti locali. Si tratta di un rischio perché il parco è complessità e perciò i piani devono rispondere a questa complessità. Dall’altro lato vi è il rischio della estrema complessificazione o addirittura della sofisticazione che poi si traduce in oscurità di linguaggio e comunque in difficoltà di comunicazione, in ultima analisi in mancanza di trasparenza.
Pur nella consapevolezza della difficoltà dei problemi e della natura inevitabilmente complessa del piano del parco, dobbiamo fare uno sforzo tutti quanti per trovare una soluzione, per superare questi rischi, tenendo conto che comunque la complessità è legata al fatto che il parco è un insieme di relazioni, non è un’area chiusa in se stessa. E’, come dice Gambino, una “rete di reti”. Ma occorre comunicare tutto ciò e non è affatto facile perché l’esperienza culturale che tutti abbiamo è quella della pianificazione di un’area.
D’altra parte vediamo il piano come libro dei sogni che ci risolverà tutti i problemi.
Ne ho già accennato: è una sorta di tentazione da cui sovente noi gestori siamo presi, a volte per fuggire dalle responsabilità del quotidiano. In realtà i piani sono processo: anche su questo dobbiamo stare attenti. Sono processo perchè si incontrano con una realtà che presenta aspetti in continua evoluzione: ad esempio gli aspetti istituzionali e normativi... Come questa natura processuale si traduca in disegni, in carte, in norme regolamentari è un problema di carattere tecnico, difficile, ma comune a qualsiasi esperienza di piano.
Altro punto: i rapporti tra piano per il parco e piano pluriennale economico-sociale. Credo che la scelta del legislatore di prevedere due piani distinti si giustifica con la difficilissima vicenda parlamentare ed extraparlamentare che ha portato alla legge e in particolare con la necessità di dare evidenza allo sviluppo (ecco il piano pluriennale economico e sociale) e di dare un ruolo effettivo alle istituzioni locali (ecco la comunità del parco). In una concezione di piano, come quella descritta da Massimo Sargolini, che è la concezione che stiamo realizzando nel Parco Nazionale dei Monti Sibillini, questa duplicità non ha senso. Anche qui la legge ci impone una certa cosa (la duplicità dei piani) e noi dobbiamo applicare la legge. Ma i temi dello sviluppo sostenibile, soprattutto alla luce della prassi interpretativa, sono in tutta la legge, non solo nell’art. 14 che prevede il Ppes. Ai parchi si rimprovera di pensare solo allo sviluppo e non alla conservazione, senza rendersi conto di introdurre una dicotomia non solo scolastica, ma soprattutto deviante, perché lo sviluppo che i parchi progettano e iniziano a realizzare è strettamente connesso alla conservazione. D'altra parte il ruolo della comunità del parco è stato esaltato dalla legge 426 del 1998. Il piano per il parco – quello disciplinato dall’art.12 della legge quadro – deve potersi costruire in termini di forte integrazione con il Ppes. Il concetto di contestualità introdotto dalla legge 426, a ben vedere, fa riferimento a questa integrazione. Non che necessariamente ci si riesca. Per quanto riguarda il nostro parco ci siamo riusciti solo in misura marginale: la contestualità l'abbiamo risolta in maniera formale, anche perché costruire un piano integrato esige un livello di complessità e di approfondimento alto e non sempre tutti siamo preparati ad affrontarlo. La prospettiva però con cui dobbiamo continuare a confrontarci è senza dubbio molto importante, anche se ai sensi della legge – in considerazione dell’attuale livello della cultura della pianificazione - deve essere considerata sufficiente la mera contestualizzazione formale. Però il vero obiettivo non può che essere quello della piena integrazione tra piano per il parco e piano pluriennale economico e sociale.
Passiamo ora a un’altra questione che interpella direttamente la cultura della pianificazione dei parchi: le aree contigue.
Tranne che in alcune particolari, anche se importanti, situazioni (ad esempio nel Cilento) le aree contigue non si sono fatte. Tale inattuazione è dovuta a una serie di ragioni e forse anche al fatto che rispondono a una logica che non è quella delle relazioni, delle connessioni, ma è quella delle aree e perciò, in ultima analisi, della chiusura.
A Macerata abbiamo sottolineato più volte che il parco è luogo aperto; l'interpretazione che ho cercato di dare dell'art. 12 va proprio in questa direzione; il contesto a cui faceva riferimento Attilia Peano supera il concetto di area. Parlavamo di utopia nel senso etimologico del termine, come “non luogo”: il parco è non luogo in quanto rinvia, per i contenuti stessi della legge e della prassi gestionale, a un sistema di relazioni aperte, a un sistema di connessioni.
Il concetto di unità di paesaggio, che è al fondo dell'elaborazione di Roberto Gambino e del suo gruppo, a mio avviso sta a significare proprio il non luogo. Anche se per il pianificatore – me ne rendo ben conto – il non luogo, l’utopia, si deve trasformare in luogo.
Da questo punto di vista pertanto il concetto di area contigua è limitativo. In generale le Regioni non hanno preso l’iniziativa, prevista dall’art.32 della legge quadro, di istituire le aree contigue in sostanza per motivi di politica venatoria. Pertanto le aree contigue hanno bisogno di una revisione legislativa se ad esse si vuole dare attuazione. L’attuazione delle aree contigue diventa importante – al di là degli aspetti tattici che indubbiamente erano presenti al momento della discussione parlamentare – se si accoglie fino in fondo il concetto secondo cui la pianificazione non può limitarsi ai confini del parco e il parco stesso non ha confini.
A noi che abbiamo responsabilità istituzionali in un settore così delicato, anche perché segnato da una grande trasformazione culturale, incombe il dovere di operare in questa logica di apertura e di superamento del concetto stesso di confine. La co-pianificazione, il ruolo di co-pianificatori dei Comuni, delle Comunità montane, delle Province e delle Regioni serve proprio a questo: a dare una dimensione concreta a questa apertura.
Vedo subito due rischi concreti molto precisi rappresentati da due tipi di barriere – l’uno tradizionale, l’altro nuovissimo - che finiranno inevitabilmente per tradursi in confini: l'infrastruttura stradale e autostradale che, secondo i progetti caldeggiati da ogni parte, assedieranno il territorio dei Sibillini e gli impianti eolici che mediatori senza scrupoli, con l’ausilio di una normativa particolarmente favorevole, vorrebbero disseminare su questo stesso territorio.
Il grande rischio è di trovare il territorio chiuso in tanti quadrati, triangoli, trapezi, altre figure geometriche, dove poi sarà molto più difficile costruire relazioni, interconnessioni, reti ecologiche, unità di paesaggio.
Voglio concludere sottolineando come i piani e in particolare il piano per il parco - per come occorre costruirli, per l'interpretazione da dare all'art.12, per il ruolo di co-pianificatori che le istituzioni devono svolgere - non siano soltanto un'operazione di tipo culturale.
Certo, rappresentano anche una grande operazione culturale, ma devono potersi inverare sul territorio.
Qui non c'è bisogno di fare teoria, ma è necessario scendere nel concreto, a partire, nel mio caso, dalla realtà dei Sibillini. L’elaborazione e l’approvazione del piano deve essere collegata a una serie di accordi di programma su punti strategici, a partire dai punti più delicati anche per la loro emblematicità (penso in particolare alle strade del Fargno e della Sibilla, ai piani di Castelluccio, all’insediamento di Frontignano), o anche a un grande accordo di programma trasversale.
Tutte le istituzioni devono avere il coraggio, senza tirarsi indietro e senza lasciare alle altre la prima mossa, di individuare i nodi fondamentali per una grande operazione di riconsiderazione dell'intero territorio al fine di dimostrare come il piano per il parco possa essere un concreto strumento di sviluppo sostenibile.