Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 38 - FEBBRAIO 2003


RICORDIAMOCI DEL FUTURO
A colloquio con Roberto Gambino
D a due anni questa rivista si apre con una mia intervista ad una “grande firma” della cultura italiana, che tento di coinvolgere sui temi che ci stanno particolarmente a cuore. La vicenda ha un antefatto. Un documento che pubblicammo nel settembre 1995 come fascicolo allegato, scritto a due mani (da me e da Renzo Moschini) intitolato “sui temi della protezione, oggi”, che poneva il problema del rapporto tra “grandi firme” e parchi, nel tempo.
L’espressione “grandi firme” può essere anche fuorviante, essendo più un codice interno alla redazione che una reale sintesi di quel fascicolo e di quella problematica. Tuttavia oggi parlano le carte stampate, al di là delle intenzioni. Siamo partiti da Alberto Magnaghi e dalla sua proposta di “autosostenibilità”, siamo passati al poeta Gianni D’Elia che ci ha affidato il compito di fermare la spirale del tempo del consumo, a Piero Ottone che partendo dall’esperienza di Portofino riprendeva e sviluppava esplicitamente il domandone sul rapporto tra grandi opinion leader nazionali e le problematiche che nascono quando si amministrano le aree protette. E così finiva il 2001. L’anno scorso le “grandi firme” provocate e pubblicate sono stati Paolo Baratta e Francesco Di Castri, che hanno rispettivamente rievocato la “stagione verde dal 95 al 96” ed evocato la novità delle politiche di valorizzazione della biodiversità nella società dell’informazione, e poi Piero Bevilacqua, che ha visto le aree protette come nuovi presidi del territorio, e Franco Cassano, che inserisce i parchi nella sua visione del pensiero meridiano e del rapporto tra ambiente, misura e Mediterraneo, suggerendo di trovare una idea di ricchezza migliore di quella corrente, più precisa, se terrà conto dei valori non commerciabili e di quelli che si tutelano e si sperimentano nelle aree protette.
Tutto ciò premesso (la premessa può apparire lunga, ma tenta di riannodare un filo verde che si è dipanato in due annate della rivista, intrecciandosi con convegni ed eventi di grande rilievo, come la ripubblicazione di “Uomini e parchi” di Valerio Giacomini, e come la presentazione del tuo studio sul sistema nazionale delle aree protette nel quadro europeo, del quale ci occupiamo a parte, con la penna di Giulio Ielardi) comincio a dimandare.

Tu non sei un esterno, rispetto alla rivista. Sei dei nostri da sempre. Ma sei anche una autorità culturale, come dire - se me lo consenti - una “grande firma”. Chi meglio di te può tentare di chiudere il cerchio che abbiamo aperto a suo tempo? Quindi, ancora più in concreto, ti pare sufficiente l’attenzione che i grandi opinion leader riservano ai temi che tu studi e che noi divulghiamo e ruminiamo?

È sufficiente l’attenzione dei grandi opinion leader per i nostri temi?
Non credo che la gravità e la rilevanza degli attuali problemi ambientali – e soprattutto di quelli della difesa del nostro patrimonio naturale-culturale – siano adeguatamente percepite dalla società civile e dal sistema politico: la prima, pronta ad infiammarsi di fronte a disastri o catastrofi o sfregi conclamati ma assai poco sensibile ai rischi, alle minacce e ai cambiamenti destinati a produrre effetti nel futuro; il secondo troppo legato a quanto può dar frutto entro le scadenze politiche ed amministrative.
Con le debite eccezioni, mi pare manchi una leadership in grado di cogliere ed orientare le nuove speranze, le paure e le attese latenti della società contemporanea – le domande di sicurezza e di qualità, di natura e di paesaggio, di identità e di bellezza – e di additare dei traguardi. Le tensioni utopiche che pure animano questa stagione tardo-moderna o post-moderna stentano quindi ad aggregarsi in speranze progettuali. Per quanto riguarda i parchi, poi, continua a sorprendermi la contraddizione tra il loro indiscutibile "successo" (la crescita portentosa degli ultimi decenni, il rapido passaggio da una conflittualità generalizzata ad un crescente consenso sociale) e la scarsa attenzione che anche importanti osservatori e opinion leader riserbano ad una realtà che interessa ormai direttamente - per rimanere nel nostro paese - più di un quarto del territorio nazionale ed un terzo della sua popolazione.

Come si spiega il ritardo?
Le ragioni sono certamente molte. Vedo sul fondo l’impreparazione psicologica e culturale di una società che non ha ancora finito di vivere la “grande transizione” guidata dallo sviluppo industriale (insofferente di ogni “vincolo ambientale” e contrapposto anche nell’immaginario collettivo alla conservazione della natura e dei segni del passato) e che stenta a misurarsi con le nuove culture dell’informazione e della creatività diffusa.
Di qui, forse, la difficoltà ad immaginare forme innovative di sviluppo riconciliate con l’ambiente, capaci di recuperare le sapienze e i valori ereditari e soprattutto di “ricordarsi del futuro”, misurando costantemente gli effetti nel tempo delle scelte attuali. Ma anche la crescente imprevedibilità delle dinamiche reali (frutto del progresso tecnologico e del rapido passaggio dalla società dei luoghi alla società delle reti) pesa sulla scarsa attitudine a “prevenire”, evitando i costi proibitivi dei collassi e degli insuccessi ambientali, ad inventare scelte prudenti e consapevoli, a ricostituire rapporti amichevoli con la terra.

Cosa possono fare le aree protette per interessare maggiormente la cultura?
Aprirsi il più possibile al territorio, promuovere iniziative che escano dai confini istituzionali e dalla sfera della protezione passiva, per mostrare coi fatti come gli obiettivi della conservazione possano coincidere con quelli della fruizione e della valorizzazione delle identità locali, in termini economici, sociali e culturali. È chiaro che l’effetto dimostrativo richiede anche di investire, assai più di quanto si sia tradizionalmente fatto, nella comunicazione e nelle attività “interpretative”, che da tempo sono al centro dell’attenzione in altri paesi.
Ma questo orientamento – che già caratterizza l’attività di molti parchi, anche o soprattutto dei più giovani – non avrebbe però grandi effetti se si esaurisse sul piano locale, nell’azione individuale di ciascun parco.
È sempre più necessario sviluppare politiche di rete, che pongano in evidenza il rilievo nazionale e internazionale dell’insieme delle aree protette del paese. In questa direzione iniziative come quella del Progetto APE possono assumere un ruolo decisivo.

Quali stimoli ricavi dalle precedenti interviste?
Ho trovato molto interessanti le interviste finora pubblicate da Parchi, ricche di spunti diversificati. Nonostante la diversità dei punti di vista mi pare di cogliere un punto di convergenza proprio nell’esigenza condivisa di aprire i parchi al territorio circostante, nel concepirli non già come brandelli di natura da salvare, ma come motori di sviluppo realmente innovativo di tutto il territorio, come laboratori di sperimentazione di percorsi innovativi proponibili al mondo esterno, come strumenti efficaci per promuovere la creazione di “valore aggiunto” territoriale…
È una visione “territorialista” che trova in Alberto Magnaghi un’interpretazione particolarmente coerente, ma che si riscontra anche nel pensiero “meridiano” di Franco Cassano, nella consapevolezza storica di Piero Bevilacqua, nell’esperienza di Matteo Fusilli: e che certo richiede anche una “nuova lingua” per nominar le cose, come suggerisce D’Elia... Riflessioni ulteriori non possono che partire, a mio avviso, dalla constatazione del gap che tuttora separa queste visioni – come i “nuovi paradigmi” che l’Unione Mondiale della Natura va oggi suggerendo - dalle pratiche correnti e da gran parte dei comportamenti amministrativi, a tutti i livelli, da quelli ministeriali a quelli regionali e locali.
Per tentare di superare questo gap, mi sembra utile portare l’attenzione su alcuni aspetti finora poco frequentati dal dibattito e dalle riflessioni:

  • da un lato, il ruolo almeno potenziale dei parchi nella costruzione di nuove “soggettività territoriali” capaci di esprimere, più efficacemente di quanto sia dato alle tradizionali istituzioni locali, l’identità e l’immagine complessiva dei territori interessati, di dar voce alle comunità “perdenti” e di promuovere progetti più incisivi di valorizzazione territoriale;
  • dall’altro, il ruolo simbolico-comunicativo dei parchi (ruolo storicamente esercitato fin dalla nascita dei primi parchi nazionali, ma oggi di crescente importanza nella società dell’informazione), non solo come traccia e memoria di equilibri perduti nei rapporti tra uomo e natura, non solo come mezzi insostituibili di quella “celebrazione della diversità” su cui l’Unione Mondiale della Natura richiama l’attenzione, ma anche e forse prima di tutto come “metafore viventi”, concretamente e liberamente esperibili, di nuove alleanze virtuose, nuovi modi di sviluppo della società contemporanea, più consapevoli ed ambientalmente sani.

Occorre un dibattito interdisciplinare non estraneo alla politica?
Nella mia esperienza, l’interpretazione, la gestione e la pianificazione dei parchi incrociano inevitabilmente una moltitudine di saperi disciplinari, di conoscenze “ordinarie” e di sensibilità diffuse, di preoccupazioni culturali e di intenzioni e volontà politiche. Non esiste alcuna prospettiva interessante per un dibattito che si rinchiuda o si frantumi nei recinti scientifici delle diverse discipline, come per un dibattito che prescinda dalla conoscenza scientifica del territorio o dall’apporto insostituibile delle culture locali. Anzi, il confronto continuo, aperto e trasparente, tra le diverse voci e i diversi interessi è spesso più importante dei singoli risultati conseguibili: i processi contano più dei prodotti.