Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 38 - FEBBRAIO 2003


PARCHI SEMPRE PIU’ INTEGRATI NEL TERRITORIO
Intervista a Roberto Gambino
Roberto Gambino ha 67 anni.
È sposato, ha tre figli e due nipoti. E due grandi passioni: la montagna e il canottaggio, che lo hanno portato tra l’altro a risalire tutte le cime del monte Rosa e a scendere per tre volte il Po da Torino alla foce. Laureato in architettura nel 1959 a Torino, professore ordinario di urbanistica e pianificazione dal 1981, attualmente presiede il corso di laurea in Pianificazione territoriale, ambientale e paesistica presso il Politecnico di Torino.
È stato responsabile e coordinatore di molti piani urbanistici e territoriali, tra cui il PRG del capoluogo sabaudo nell’80. Ma già dalla seconda metà degli anni Sessanta ha iniziato a occuparsi di parchi.

Qual’era il terreno d’esordio?
Il grande parco collinare torinese, del quale tracciammo le linee con Edoardo Detti, Italo Insolera e Giampiero Vigliano. Quindi, un decennio dopo, ho cominciato a lavorare sul parco nazionale del Gran Paradiso.

Elenchiamo le aree protette dove ha lavorato come pianificatore.
Il primo schema di piano del Gran Paradiso è del 1983, mentre al parco regionale fluviale della fascia del Po ho lavorato nell’88 e nel ‘94.
Sempre in Piemonte ho presieduto a lungo la commissione scientifica di supporto ai parchi e alle riserve regionali. Poi ho coordinato gli studi per i piani del parco regionale dei Colli Euganei (1994), del parco regionale dei Colli di Bergamo (1997), del parco regionale del monte Beigua (2001), dei parchi nazionali del Vesuvio, dei monti Sibillini e del Cilento e Vallo di Diano (2002). Sono ancora in corso gli studi per il parco regionale delle Alpi Apuane e per il parco nazionale dell’Arcipelago Toscano.

Nell’ambito del Politecnico di Torino lei ha promosso la costituzione del CED-PPN, che tuttora presiede. Mi spiega come funziona?
Il Centro europeo di documentazione sulla pianificazione dei parchi naturali (cioè appunto CED-PPN, ndr) è nato alla fine degli anni Ottanta ed opera regolarmente dai primi anni Novanta presso il Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico. Unico per ora in Europa, come capofila di un network diramato in 35 Paesi con oltre 750 referenti svolge funzioni di raccolta, elaborazione e socializzazione della documentazione - raccolta in appositi archivi continuamente aggiornati - di promozione, organizzazione e realizzazione di ricerche sul tema, nonché di attività di dibattito e confronto internazionale.

È un centro di ricerca autonomo?
Dal punto di vista scientifico certamente sì.
Da quello amministrativo, nonostante il disegno iniziale, è oggi inquadrato nel contesto più generale del Politecnico.
La sede è nel Castello del Valentino.

Quante persone vi lavorano a tempo pieno?
Una ricercatrice più due persone di cui una poliglotta, grazie alla quale colloquiamo soprattutto telefonicamente o via e-mail con i nostri diversi referenti sparsi per l’Europa.

Sono soprattutto colleghi pianificatori?
Quasi mai. Sono perlopiù gestori di parchi, coi quali abbiamo allacciato rapporti in passato lavorandovi direttamente per realizzare una vasta ricerca sulla pianificazione dei parchi naturali in Europa. In altri casi si tratta di centri di ricerca oppure di autorità pubbliche di gestione. Molti di loro inviano periodicamente notizie o materiali, gli altri li sollecitiamo noi. In questo modo l’archivio del CED-PPN viene costantemente aggiornato.

Quali sono le principali ricerche che avete realizzato?
Intanto quella appena citata sulla pianificazione in Europa (sfociata nel volume I parchi naturali europei, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, ndr).
Poi si possono citare la ricerca Interreg con l’Università di Grenoble sul Coordinamento transfrontaliero degli strumenti di pianificazione ambientale e territoriale riferiti alle aree protette ed alle zone sensibili (1996) e, naturalmente, le due ricerche per il ministero dell’Ambiente italiano, SCN, sul Sistema nazionale delle aree protette nel contesto europeo (2001) e sul Progetto APE (2001).

Veniamo appunto alla ricerca sul sistema nazionale delle aree protette. Intanto, qual’è stato il dato più inatteso o quello più significativo che è emerso a suo giudizio?
Ve n’è più di uno, ma dovendo scegliere citerei quello relativo alla vastità e alla densità degli insediamenti che ricadono dentro od ai bordi delle aree protette. Infatti, sebbene l’istituzione dei parchi sia stata pesantemente condizionata, fin dall’origine, dalla preoccupazione di evitare eccessivi conflitti (caccia e non solo) e quindi dalla tendenza a localizzarli in aree relativamente remote dagli epicentri dello sviluppo urbano e produttivo, scopriamo che i 152 parchi nazionali o regionali interessano ben 1631 Comuni. Cioè il 20% dei Comuni italiani, interamente o parzialmente in essi inclusi, per una superficie complessiva pari al 24,8% del territorio nazionale e con una popolazione pari al 31,9% della popolazione italiana, di cui il 4% interna ai parchi. E’ un dato che dovrebbe essere attentamente meditato da chi ancora pensa che i problemi della conservazione possono essere separati da quelli economici e sociali delle popolazioni interessate. L’indicazione assume ancora maggior significatività se associata ad altre informazioni quali-quantitative, che documentano la complessità delle interazioni che legano i parchi al loro contesto territoriale, sollecitando politiche il più possibile integrate e multilaterali, coinvolgenti ampiamente le istituzioni e gli attori locali.

Proprio sulla via di una maggiore integrazione tra politiche territoriali ordinarie e settoriali, uno dei punti nodali evocati dalla ricerca è il rapporto tra parchi e tutela paesistica.
Come si affronta questo passaggio? Serve una riforma legislativa, e se sì quale?
Una riforma legislativa che - nel quadro di un organico rilancio delle politiche di conservazione della natura - prevedesse, accanto alle altre categorie di aree protette, anche la figura dei "paesaggi protetti", già largamente considerata a livello internazionale (IUCN) e in vari paesi europei, potrebbe facilitare il raccordo tra le due discipline.
E consentirebbe anche una appropriata e più estesa tutela di valori paesistico-ambientali estremamente diffusi nel nostro Paese, non facilmente ospitabili nelle altre categorie già in vigore.
Va però ricordato che, alla luce della Convenzione europea del Paesaggio (Consiglio d’Europa, 2000), è l’intero territorio a dover essere tutelato paesisticamente, con misure diversificate di gestione che possono andare dalla conservazione stretta alla riqualificazione ed alla completa ri-creazione dei paesaggi. Ciò richiede politiche di tutela assai più diffuse di quelle applicabili nei "paesaggi protetti" eventualmente istituibili, politiche che non possono certamente considerare soltanto i valori "visibili" come nella tradizionale applicazione della legge 1497/39, ma devono considerare adeguatamente anche i valori ecologici connessi (ad es. in tema di biodiversità associata alla diversità paesistica), i valori identitari, ecc. Di qui l’esigenza, peraltro già riconosciuta in sede di Conferenza nazionale del Paesaggio, di una organica riforma legislativa che vada oltre la legge 431/85, meglio nota come "legge Galasso".

Poniamo uno scenario. Nell’ambito di una ipotetica futura riclassificazione di parchi e riserve esistenti, in alcuni casi si propone il passaggio da parco a paesaggio protetto. La trasformazione non è trascurabile, cessa di esistere ad esempio il divieto di caccia. Come convincerebbe i contrari?
Un’ipotesi del genere, cioè quella di una nuova classificazione e successiva revisione delle aree protette già istituite, ha senso soltanto nel quadro di un organico sviluppo della legislazione in atto che preveda diverse condizioni.

Quali sono?
Intanto, l’integrazione delle aree protette in strategie più ampie e diversificate di conservazione e valorizzazione del patrimonio ambientale, che considerino in particolare il ruolo dei SIC e delle ZPS e la realizzazione della Rete Ecologica Nazionale.

Poi?
La ridefinizione del ruolo delle aree protette sulla base del "criterio di scopo", già applicato a livello internazionale dell’IUCN e a livello nazionale in altri Paesi europei. Ad ogni categoria, cioè, deve corrispondere un articolato mix di obiettivi di gestione. Alla base ci dev’essere comunque una concezione dinamica-processuale che consenta di monitorare ed eventualmente cambiare nel tempo la classificazione iniziale.
A queste condizioni è del tutto verosimile, in una visione europea, che il problema della caccia possa essere affrontato in modo diverso per le diverse categorie di aree protette: ma vorrei ricordare che, come i gestori delle aree protette sanno bene, tale problema non si affronta semplicisticamente in termini di caccia si/no, ma riconducendolo nel suo alveo naturale che è quello ben più ampio della gestione faunistica dell’intero territorio.

L’insularizzazione dei parchi, vale a dire il loro estraniarsi dal tessuto sociale, economico e di rapporti territoriali del contesto, in un Paese come il nostro equivale a un suicidio e il rapporto in più passaggi non manca di evidenziarlo. Esiste il rischio che da noi la tradizionale politica del ministero dell’Ambiente, dunque non solo l’attuale, più o meno inconsapevolmente finisca invece per lavorare in quella deprecata direzione?
Sì, esiste, tanto per la politica nazionale come per quelle regionali. Che vanno ridefinite nella direzione chiaramente indicata dalle ricerche operate e cioè verso politiche di sistema e verso forme integrate di gestione e pianificazione.

In un’intervista comparsa nel precedente numero di Parchi Aldo Cosentino, a capo della Direzione Conservazione Natura del ministero, sostiene che nei parchi nazionali i piani ritardano anche perché vogliono occuparsi di tutto, invece di limitarsi a indicare le linee direttrici lasciando spazio ai Comuni. Concorda?
L’esperienza internazionale insegna che la pianificazione è uno strumento indispensabile per una corretta gestione dei parchi, occorre quindi cercare di rimuovere gli ostacoli che la frenano.
Ma occorre fare alcune considerazioni serene, alla luce dei fatti. Primo. La pianificazione dei parchi condivide le difficoltà che incontra ovunque la pianificazione territoriale, o d"area vasta". Infatti la situazione italiana al riguardo, con il 46% dei piani approvati e un altro 34% in formazione, è comunque migliore di quella media europea ed assai migliore di quella che nel nostro Paese si registra per la pianificazione territoriale ex lege 142/90. Secondo. Le esperienze note dimostrano che i ritardi nella formazione dei piani dei parchi dipendono in scarsissima misura da ritardi nelle elaborazioni tecniche ed in misura preponderante dai conflitti di interessi - che assediano in misura maggior o minore tutti i parchi e che impongono lunghi e defatiganti processi di negoziazione - e dalla scarsa od assente collaborazione inter-istituzionale (per non parlare delle vere e proprie latitanze).
Di qui le conseguenti situazioni di stallo.

Quindi ai piani dei parchi non serve una maggior "specializzazione"?
Direi proprio di no, questo aggraverebbe i rischi di insularizzazione che evocavamo prima e sposterebbe soltanto i problemi. Ben pochi parchi sono interpretabili come santuari della natura avulsi dal contesto.
Al contrario, il carattere "integrato" della legge quadro 394/91 e successive modifiche riflette l’ineliminabile complessità degli ecosistemi da tutelare e richiede dunque un approccio complesso.
Tuttavia un maggiore e più precoce coinvolgimento degli enti locali, come si è visto in alcune esperienze, facilitando la complementarietà tra i piani dei parchi e quelli urbanistici, può accelerare i processi di reciproco coordinamento.

Veniamo ai progetti di sistema su Alpi, Appennino, Coste e isole.
Propongo una breve rassegna dei rispettivi punti di forza e di debolezza.
Intanto mi sembra che siano in situazione di stallo. Per quanto riguarda APE si impongono ormai scelte politiche nazionali e regionali che diano sostanza alle ipotesi meta-progettuali finora delineate, anche in termini istituzionali, prima che il patrimonio di speranze, proposte e iniziative accumulatosi in questi anni si dissolva. Per quanto riguarda le Alpi, alla firma dei protocolli, peraltro incompleta, non hanno ancora fatto seguito tentativi di delineare – seppure per parti – quadri strategici "territorializzati", atti cioè a cogliere le complesse interdipendenze tra le diverse politiche da praticare.
Quanto alle coste, infine, la situazione mi sembra assai più arretrata, dal momento che neppure i principi di fondo che dovrebbero orientare le strategie (ad es. per quanto riguarda la continuità lineare del sistema, le interrelazioni terra/acqua, il controllo degli sviluppi insediativi più o meno abusivi, ecc.), sono stati per ora messi in luce.

La ricerca sul sistema nazionale delle aree protette è stata un impegno gravoso e importante, come abbiamo anche cercato di mettere in luce in un articolo che compare in questo stesso numero della rivista. Come dovrebbe proseguire e con quali esiti operativi? Quali direzioni restano da affrontare con maggiore profondità?
La ricerca svolta per il ministero profila numerose esigenze d’approfondimento.
Tra le più cospicue segnalerei la necessità di precisare le implicazioni della costruzione di un vero sistema d’infrastrutturazione ambientale, tenendo conto delle ricerche sulle reti ecologiche già sviluppate dall’Università di Roma - coordinate dal professor Boitani - e, più in generale, delle altre componenti che dovrebbero farne parte.
Poi sarebbero da approfondire gli aspetti gestionali delle politiche dei parchi, anche in termini economici e finanziari. E anche i rapporti che dovrebbero instaurarsi tra politiche dei parchi e politiche del paesaggio: andrebbero approfonditi, anche alla luce delle strutture che si vanno formando per l’applicazione della Convenzione Europea.