Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 38 - FEBBRAIO 2003


SI FA PRESTO A DIRE PARCO
La ricerca del CED-PPN per conto del ministero dell’Ambiente
Si chiama "Il sistema nazionale delle aree protette nel quadro europeo: classificazione, pianificazione e gestione" ed è il primo vero rapporto sulle aree protette italiane. A realizzarlo su incarico (nel 2000) del SCN di Aldo Cosentino, Ministero dell’Ambiente, è stato il CED-PPN, il Centro europeo di documentazione sulla pianificazione dei parchi naturali creato nei primi anni Novanta da Roberto Gambino in seno al Dipartimento interateneo Territorio del Politecnico di Torino.
In diciotto mesi di lavoro il rapporto è stato realizzato a partire dalle indicazioni di un "gruppo di riflessione" formato, oltre che dallo stesso Gambino, da Federparchi (Enzo Valbonesi e Antonello Nuzzo), dal Centro studi Valerio Giacomini (Renzo Moschini) e da Legambiente (Fabio Renzi). Gabriella Negrini del CED-PPN ha curato la gestione generale della fase operativa. Il risultato è in un CD che può essere richiesto al CED-PPN, tel.011-5647477, e che contiene tanto le duecentoquaranta pagine di relazione finale che i ben otto allegati, per ulteriori settecento pagine. Presentato in una prima versione nel dicembre 2001, è stato definitivamente ultimato e consegnato - oltretutto successivamente alla pubblicazione in Gazzetta del nuovo aggiornamento dell’Elenco ufficiale – nel settembre 2002.

A chiarire la profondità dell’analisi proposta, il rapporto si apre rilevando l’ambiguità del termine chiave, quel lo di "area protetta". Certamente le categorie previste dalla legge quadro, art.2, sono in prima fila (parchi nazionali, parchi naturali regionali, riserve naturali, aree marine protette ai sensi delle leggi 127/85 e 979/82, aree Ramsar) ma non esauriscono il tema. A restare fuori sono aree senz’altro oggetto di una qualche protezione e cioè almeno: i parchi e le altre aree istituite dalle Regioni al di fuori delle suddette categorie; i parchi e le altre aree istituiti da Province, Comuni e privati; soprattutto, le aree d’interesse comunitario (Rete Natura 2000).
E a voler essere completi, poi, non godono pure di protezione le cosiddette zone contigue, le aree tutelate ai sensi della legge sul suolo (183/89) e quelle orientate a fini conservativi dai piani urbanistici e territoriali?
Classificazione, dunque: serve una nuova classificazione.
È il contenuto che certamente più farà discutere della ricerca, e che difatti ha già iniziato a farlo (anche nelle occasioni pubbliche di presentazioni del rapporto, come a Bologna nello scorso gennaio) facendo registrare l’accusa da parte del mondo ambientalista di offrire il destro a operazioni di indebolimento complessivo dell’azione di tutela. In realtà l’obiettivo di una nuova classificazione proposta, certamente tra le parti qualificanti e innovative dello studio del CED-PPN, sembra funzionale a un riassetto delle politiche dei parchi non più rinviabile pena lo scadimento definitivo di un sistema sempre evocato ma tuttora inesistente.
Visto il momento in cui vede la luce, il rapporto non manca opportunamente di cogliere le novità introdotte nello scenario costituzionale dalla riforma del Titolo V, e lo fa con le considerazioni del giurista Andrea Simoncini, tra i membri del pool di esperti coordinati dal CED-PPN. Tra le possibili e probabili conseguenze della riforma costituzionale in materia di parchi, annota Simoncini, vi sono proprio il riaccentramento in capo allo Stato centrale del potere classificatorio e la necessità di un intervento generale di revisione delle classificazioni esistenti. La potestà legislativa esclusiva nuovamente assegnata allo Stato centrale, si noti bene, prevedrebbe per le Regioni solo eventuali interventi (legati a delega specifica) "di natura regolamentare attuativa e non più legislativa". Insomma, niente più leggi regionali sui parchi e tantomeno nuove classificazioni da aggiungere a quelle doc della 394. Per inciso, tale interpretazione non sembra condivisa da alcuni a cominciare dalla Regione Emilia Romagna, che al contrario si accinge a varare una nuova legge sui parchi (quella in vigore risale all’84) annunciata dall’assessore Guido Tampieri durante il già citato seminario di Bologna e, pochi giorni dopo, in un convegno sui parchi della Sinistra Ecologista a Roma.
Delle categorie presenti nell’Elenco Ufficiale nazionale e della attuale confusione e relative difficoltà interpretative il rapporto contiene osservazioni ben note e ormai sufficientemente, ci pare, condivise. La distinzione tra parchi nazionali e regionali, nonché quella operante all’interno della categoria delle aree protette marine (classificate a seconda di cosa recita ciascuna legge istitutiva), sono ormai paradigmi burocratici ampiamente citati e probabilmente essi stessi tra le ragioni elementari epperò principali del conferimento dell’incarico al CED-PPN. Vesuvio nazionale ed Etna regionale? Circeo nazionale e Ticino regionale? Una rivisitazione dell’esistente mostra da subito tutta la difficoltà dell’operazione, che non per questo appare meno doverosa.
E accorre in aiuto il criterio di scopo, cioè proprio quello da cui prendono le mosse tanto le proposte di nuova classificazione avanzate nel rapporto che quelle internazionalmente riconosciute dell’IUCN (ma il rapporto non si sottrae dal fornire prime indicazioni operative per una revisione classificatoria, per esempio basate sulla presenza o meno di Sic all’interno delle AP: si veda più avanti).
L’Unione mondiale della natura, com’è noto, nel 1994 ha rinnovato le proprie categorie cui alla fine di una elaborazione ancora in corso - e valutando la priorità assicurata a 9 obiettivi di gestione, dalla ricerca scientifica alla conservazione delle risorse tradizionali - le varie aree protette vengono assegnate. Le categorie IUCN attuali sono sei: I Strict Nature Reserve / Wilderness Area; II National Park; III Natural Monument; IV Habitat / Species Management Area; V Protected Landscape / Seascape; VI Managed Resource Protected Area. Tanto per fare un esempio, alla categoria II dei parchi nazionali apparterrebbero a tutt’oggi solo 9 parchi italiani e 28 parchi UE. La maggior parte delle nostre aree protette, al contrario, ingrossa le fila dei paesaggi protetti (categoria IUCN V) con ben 36 presenze tra le 86 UE. In particolare, va notato che il 50% dei parchi europei e un terzo di quelli italiani sono classificati in V categoria tra i Protected landscape e non nella II.

Montani o collinari, di recente istituzione, sempre più estesi. Il quadro dei parchi europei ricostruito nel rapporto è riccamente documentato e, se possibile, confortante.
L’exploit istitutivo degli ultimi due decenni, infatti, almeno sulla carta pone in primo piano il contributo dell’Italia a quei 25 milioni di ettari (il 5% del territorio delle 33 nazioni prese in esame) sottoposti a tutela.
In particolare, il nostro Paese primeggia in assoluto nella superficie inclusa in parchi, mentre risultiamo carenti - oltre che per l’assenza di paesaggi protetti - di riserve.
Che sono poche ma soprattutto piccole.
Dalla messe di dati raccolti emergono numerosi dati di tutto interesse, come il ruolo crescente dei parchi regionali nello scenario continentale.
Nei paesi dove sono presenti, tali aree protette costituiscono di gran lunga la categoria quantitativamente più frequente. In particolare in Spagna, Germania, Portogallo, Italia, Francia superano ben l’80% dei parchi istituiti. Nature remote, nature umanizzate, paesaggi rurali, isole assediate, parchi urbani: sono le cinque metafore evocate dal rapporto per raggruppare le situazioni esistenti in Italia e in Europa, cui ciascun lettore di Parchi potrà facilmente associare l’area protetta dove lavora, opera, risiede. Quanto alle situazioni ambientali, il 46% dei parchi europei risulta localizzato in ambienti montani (al di sopra dei 600 m) e un altro 21% in ambienti collinari: parchi di pianura, lacustri, litoranei e fluviali rappresentano invece rispettivamente il 10%, 9%, 9% e 5% dei restanti casi.
P er ricostruire il quadro nazionale il rap- porto esamina le diverse legislazioni regionali. In materia di parchi a mancare all’appello sono Calabria e Molise mentre le categorie di classificazione individuate, dalle Alpi al Canale di Sicilia, sono ben 28!
La formazione dei sistemi regionali di aree protette risulta oscillare tra due estremi ugualmente deprecabili: subisce la pianificazione ordinaria, con il rischio di una mancata istituzione delle aree previste, oppure la precede con il rischio di difficile raccordo.
Avanza così il nemico numero uno dei parchi almeno italiani e cioè la visione settoriale delle politiche di tutela delle risorse naturali.
Ad emergere è pure, secondo l’analisi di Gambino e colleghi, “una gestione e una pianificazione operativa che rinuncia alla formazione della rete”.
Di fatto, viene annotato, alla tutela positiva dei parchi si va sostituendo almeno in parte la tutela regolativa dei Sic. Poche e ben note le Regioni che meritano riferimenti meno negativi. Tra queste Toscana, Piemonte e le Province Autonome di Trento e Bolzano, per “una corrispondenza tra le previsioni di tutela e le politiche di spesa” e una adeguata cooperazione coi livelli provinciali e comunali: ed Emilia Romagna e Lombardia, per “una organicità delle politiche di tutela con le politiche territoriali”.
È interessante l’invito dei ricercatori a riprendere una linea strategica capace di raccordare aree protette e resto del territorio già praticata negli anni Ottanta, che poi lasciò il campo “ad una visione più settoriale delle politiche di tutela delle risorse naturali”.
In controluce non è difficile scorgervi la critica di molti pianificatori all’art.12 della 394/91 (assai caro invece a molti ambientalisti), dov’è sancita la perentoria supremazia del piano del parco che sostituisce ogni altro strumento di pianificazione.
Tra i dati raccolti emerge quello relativo ai Comuni coinvolti, in tutto o in parte, dalle 725 aree protette censite dal rapporto.
Sono 2171, pari al 27% dei Comuni italiani. Quindi si passa ad affrontare gli aspetti più disparati, per esempio le aree contigue, previste in tutte le leggi regionali sui parchi ma definite in sede di istituzione delle aree protette solo in Emilia Romagna e in Toscana. Aree contigue di fatto e già operanti, però, sono considerate dal rapporto anche gli insiemi dei Comuni parzialmente interessati dalle AP, laddove vengono attuate le misure di incentivazione ed investimento proprie dell’area a parco. Il contesto socioeconomico, l’uso del suolo all’interno delle aree protette, gli indici di insularità e compattezza, i livelli di infrastrutturazione sono tra i parametri utilizzati per ricostruire un ritratto delle aree protette italiane inedito e quanto mai sfaccettato.
Il confronto tra l’Elenco ufficiale e la situazione nazionale completa fa registrare la presenza di oltre mezzo milione di ettari, per la precisione 575.914, di un’Italia protetta ignorata dalle politiche statali di supporto finanziario sostanzialmente per un solo fattore e cioè la presenza o meno del divieto di caccia: una scelta di natura politica di cui prima o poi al mondo dei parchi italiani toccherà valutare a fondo costi e benefici.
Quanto alla Rete natura 2000, anche qui il rapporto fornisce dati interessanti.
Ad esempio, sulle Zps non incluse in altre categorie di aree protette e/o Sic: sono un pugno di aree e precisamente una foresta (il Cansiglio?) e parte del Delta del Po in Veneto, alcune aree montane o collinari nel Lazio (Monti della Tolfa, Reatini, parte dei Simbruini e Lepini), l’isola di Ponza e le due aree montane del Sirino e del Raparo in Basilicata.
Riguardo ai Sic il loro apporto al sistema nazionale di aree protette, se totalmente considerato, porterebbe la percentuale di territorio nazionale protetto dall’attuale 11 al 19%. Da notare che in Friuli, Liguria, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto la percentuale sul territorio regionale dei Sic esterni alle aree protette è ben superiore alla percentuale degli stessi parchi & riserve.
Qui più che altrove, insomma, l’Europa supplisce alla scarsa volontà politica regionale e nazionale di tutelare importanti risorse naturali scientificamente individuate.
E il rapporto ne elenca alcune: per esempio il Monte Bianco e il Monte Rosa, l’area delle Murge, il lago di Bolsena, i Lattari e parte del Monte Amiata. Ma quella di Natura 2000 è una tutela in realtà ancora in buona parte da conquistare, se è vero che – come dicono i dati – più della metà (il 53%) delle superfici delle aree Sic+Zps sono fuori dalle aree protette.

Passando a esaminare i grandi ambiti territoriali, il rapporto ne elenca quattro che sono naturalmente le Alpi, la Pianura padano veneta, l’Appennino e le Terre peninsulari, le Isole.
Vi si aggiunge il Sistema costiero, sovrapposto parzialmente, definito dall’insieme dei 639 Comuni litoranei della penisola e delle grandi isole. Proprio il sistema delle coste risulta essere quello più interessato da aree protette, e alzi la mano chi lo sapeva già: frontemare sono collocate 176 AP per un’estensione di 800mila ettari, pari al 19% del territorio costiero complessivo. Gli altri grandi sistemi, infatti, sono interessati da parchi o riserve in misura minore (Alpi 16%, Pianura padana 7%, Appennini e resto penisola 12%, isole 4%).
Ma quel sistema costiero, inevitabilmente connesso al sistema delle isole minori, è anche l’unico a scontare un’identità debole “per una elevata frammentazione dei siti, una inadeguata dimensione, una marcata differenziazione dei contesti e un mancato raccordo con il sistema idrografico (le foci)”. Eppure è proprio mediante quel reticolo, scrive Gambino, che “si sviluppano le principali connessioni trasversali tra ambito costiero e fasce montane” e va realizzato “un raccordo tra le politiche di protezione e quelle di difesa del suolo, in termini di programmazione di interventi coordinati, ma anche per la formazione di nodi protetti di rilevante ruolo ecologico”.

Ulteriori informazioni, oltre ad aggiungere nuovi elementi alla riflessione proposta, provengono dalle risposte a un dettagliato questionario fornite dal 70% dei parchi nazionali e regionali e dalle riserve marine.
Per esempio, alla domanda che chiedeva di definire le priorità degli obiettivi di gestione gli enti gestori hanno risposto indicando al primo posto - in più del 50% dei casi - non la conservazione della biodiversità o la ricerca scientifica o l’uso sostenibile delle risorse naturali, ma piuttosto il ruolo educativo. Ponendosi, sia detto per inciso, in singolare sintonia coi nuovi orientamenti del National Park Service USA e il suo più recente documento programmatico (scaricabile online nella sua traduzione italiana dal sito dell’e-magazine di Federparchi www.parks.it/ilgiornaledeiparchi).
Tra i principali problemi di gestione, il più sentito è quello delle attività antropiche come problemi di inquinamento, pressioni edilizie, abusivismo. Seguono staccati la lotta agli incendi e le presenze turistiche incontrollate. In relazione alle politiche di spesa, dai questionari il budget a disposizione dei parchi è risultato dipendere dalle diverse politiche regionali e dalla capacità dei singoli enti, più che dalla estensione delle AP e dalla categoria di appartenenza.
La media di spesa, prevalentemente assorbita dai costi gestionali ordinari e dalla realizzazione dei servizi, è calcolata intorno ai 90-100 euro per ettaro. I piani sono in vigore solo nel 46% dei parchi (l’unico dato del rapporto prontamente citato dal ministro Matteoli in occasione della Conferenza nazionale di Torino), i regolamenti nel 20% e i piani economico-sociali nel 3%.
La rete ecologica compare nel terzo capitolo, quello dei problemi nodali.
I suoi nuclei di interesse primario, è ribadito, non possono essere solo i parchi attuali ma vanno cercati pure all’esterno.
“Il problema”, scrive Gambino quasi parafrasando Valerio Giacomini, “non è quello di salvaguardare alcune isole felici, alcuni lembi superstiti di natura, ma di migliorare la qualità ambientale complessiva del territorio, come insostituibile risorsa collettiva”.
Zps e soprattutto Sic possono avere un ruolo fondamentale come stepping stones, aree di collegamento tra i nodi.
La presenza di Sic all’interno di un’area protetta, poi, potrebbe anche costituire un elemento utile a una riclassificazione basata sul criterio di scopo: in quel caso, l’obiettivo gestionale prioritario dell’area protetta potrebbe infatti essere considerato la conservazione della natura in senso stretto e dovrebbe discenderne una sua individuazione come parco naturale (o area wilderness, come spiegato più avanti).

Chi giunge in fondo al rapporto, al capitolo 4 – l’ultimo – sotto al titolo "Proposte" troverà infine le pagine più dense. Che prendono le mosse da un giudizio difficilmente confutabile: "l’imponente sforzo prodotto dallo Stato, le Regioni e gli enti locali che ha consentito in poco più di un ventennio di sviluppare enormemente le aree protette, recuperando un ritardo storico e conquistando una posizione di primo piano nel panorama europeo, non è però valso a legare in sistema tali aree, se non in forme parziali ed embrionali inadeguate a cogliere tutte le straordinarie potenzialità sinergiche che si profilano nel nostro paese".
Poi le cinque ipotesi di lavoro dello staff di Gambino.

  • 1) Le politiche nazionali delle aree protette devono coordinarsi con quelle europee, a cominciare dalla classificazione, dalle prescrizioni della Convenzione europea del Paesaggio, dalla Rete Ecologica Europea (Eeconet).
  • 2) Va bene il progetto di una rete ecologica nazionale, ma questa "non è soltanto e forse neppure prevalentemente una rete di parchi" perché a loro complemento andrà ripensato "il ruolo di alcune componenti strategiche del sistema territoriale, come le fasce fluviali e le grandi fasce naturali e seminaturali ad elevata biopermeabilità, che corrono lungo i principali sistemi montuosi". "È in questa prospettiva", recita il rapporto, "che la costruzione, attualmente in corso, della Carta della Natura, lungi dall’esaurirsi in una semplice e neutrale ricognizione, dovrebbe fissare le opzioni di base per la definizione delle Linee d’assetto del territorio nazionale, e rappresentare quindi un punto di svolta".
  • 3) La ricetta per dilatare l’azione di tutela oltre i confini dei parchi sta nella saldatura tra aree protette e paesaggio; è alla tutela paesistica che può essere assegnato un potente ruolo "connettivo" in vista del miglioramento della qualità complessiva del territorio.
  • 4) La visione unitaria proposta dalla 394 va ripresa abbracciando componenti del sistema finora escluse dai ranghi di aree protette (come i corridoi ecologici, le aree di riqualificazione, i paesaggi culturali, i parchi urbani, etc.) che al sistema "concorrono in modi e con ruoli profondamente diversificati, senza vincoli di subordinazione".
  • 5) Dalla constatazione che le politiche per le aree protette hanno successo solo se integrate nella gestione territoriale ordinaria, ne consegue che "le azioni di tutela e d’intervento confinate all’interno dei perimetri istituzionali, ancorché si avvalgano del "sovraordinamento" riconosciuto agli Enti parco nei confronti degli Enti locali (in particolare, del potere "sostitutivo" del piano del parco rispetto ad ogni altro piano, in base all’art.12 L.394/91) sono generalmente perdenti".
    Ancora sulla 394 il rapporto precisa l’osservazione critica, seppure con pudore, in un altro passaggio.
    “Quanto più le aree protette vengono concepite e gestite come territori aperti, interessati da complessi sistemi di interazioni ecologiche, economiche e culturali che attraversano i perimetri istituzionali (…) tanto più ci si allontana dall’illusione di fondare la gestione sulle scelte autonome, autoreferenti e sovraordinate delle autorità di gestione”.

Il rapporto si chiude con le proposte per una nuova classificazione delle aree protette italiane. Un tema centrale ma in un certo senso strumentale, come già premesso ad apertura della relazione finale.

Ecco le nuove otto categorie proposte: aree wilderness; parchi naturali (d’interesse nazionale e d’interesse regionale); monumenti naturali ed aree assimilabili; riserve naturali terrestri ed aree assimilabili; riserve marine; paesaggi protetti; aree per la gestione sostenibile di determinate risorse; aree di riequilibrio ecologico.
La classificazione si basa sul "criterio di scopo", ossia sul mix di obiettivi di gestione attribuiti a ciascuna area.
E, non meno importante, l’attribuzione di un’area ad una certa categoria – in termini non definitivi, ma verificabili almeno ogni dieci anni - dovrebbe essere il frutto di un processo di concertazione.
“Il senso e la motivazione principale della presente ricerca”, conclude il rapporto, “consistono nel tentativo di contribuire a far sì che l’istituzione, la gestione e la pianificazione delle aree protette nel nostro paese approdino alla costruzione di un vero e proprio “sistema nazionale”, diramato su tutto il territorio ed orientato a garantire e promuovere, come revisto dalla L.394/91, art.1, “in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese”.
E proprio della legge quadro e della sua attuale efficacia la ricerca del CED-PPN, in ultima analisi, si pone insieme come report di verifica e proposta di innovazione, ampliandone finalità che al momento “appaiono inevitabilmente parziali e riduttive”.
Non senza trepidazione, aggiungiamo noi, la parola alla politica.