Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 38 - FEBBRAIO 2003


UN MODELLO IMPRENDITORIALE DI PARCO NAZIONALE
A dieci anni dalla ricerca condotta dall’Università “Bocconi”
Nel 1992 compariva, per i tipi dell’Istituto Poligrafico dello Stato, il volume “Un modello imprenditoriale di parco nazionale”, che riportava i risultati di una ricerca realizzata dall’Università Bocconi di Milano, su commissione del Servizio Conservazione della Natura del Ministero dell’Ambiente.
Il lavoro si proponeva, attraverso analisi socio-economiche e il confronto con realtà estere, di definire un modello teorico di parco in grado di reperire autonomamente gran parte delle risorse finanziarie necessarie per il perseguimento degli obiettivi di conservazione.
È interessante analizzare, dieci anni dopo, i contenuti di quel lavoro, che si sviluppavano prendendo in esame in particolare il “caso Parco Nazionale del Gran Paradiso”, per verificare se le previsioni in esso contenute si siano effettivamente realizzate e comprendere la fattibilità del modello di auto sostenibilità finanziaria.
Rispetto a quanto ci si potrebbe attendere, specie in tempi in cui l’orientamento è di far raggiungere ai parchi l’autonomia economica e finanziaria, la sorpresa è grande.
Fin dall’introduzione gli autori erano estremamente attenti a chiarire che la gestione imprenditoriale di un parco non poteva avere finalità economiche preminenti su quelle conservazionistiche e che il concetto di imprenditorialità andava inteso come “un modo nuovo di intraprendere qualsiasi attività umana per poter realizzare le finalità istituzionali adattando le azioni ad una realtà in continuo cambiamento.”
Lo studio nasceva in un momento in cui si sviluppava nell’opinione pubblica una forte attenzione per le aree protette.
Ad una cultura protezionistica talvolta molto rigida, che voleva la cristallizzazione della protezione e si spingeva ad auspicare più o meno implicitamente l’espropriazione dai territori protetti delle attività economiche tradizionali, si contrapponevano comunità locali che reagivano con una decisa avversione a tutto ciò che si riferisse alla parola “parco”.
In ambienti più aperti nasceva invece la consapevolezza che nel nostro paese si tutelavano aree più o meno antropizzate, spesso lontane dal concetto di wilderness ed in cui anche il patrimonio culturale e tradizionale locale andava protetto per evitare un ulteriore spopolamento ed invecchiamento delle popolazioni residenti.
Si reputava necessario che i parchi adottassero politiche di apertura nei confronti degli utenti e del territorio circostante, difficili da attuare con finanziamenti pubblici insufficienti ed aleatori. In questo contesto si inseriva lo studio della Bocconi; l’esame preliminare della letteratura economica della conservazione portava l’Università a ritenere comunque indesiderabile un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, preclusivo di occasioni e di sviluppo futuro e a valorizzare il ruolo delle Autorità pubbliche per la tutela di risorse il cui costo non viene adeguatamente considerato dai singoli cittadini. D’altra parte nonostante divenisse sempre più importante la domanda di natura protetta, intesa come “servizi” offerti dalle aree protette e come generica domanda di conservazione, per l’economista era probabile che questa fosse sottostimata e che fosse opportuno promuoverla cedendo servizi al di sotto dei costi, ricorrendo anche a finanziamenti dello Stato che, sommandosi a quote di autofinanziamento, non distorcessero una efficiente allocazione delle risorse.
Un altro esame preliminare, quello relativo al dibattito a livello scientifico ed economico, individuava un sostanziale accordo sulla necessità di istituire parchi nazionali, mentre – come è ovvio – il ragionamento divergeva sul regime dei vincoli e delle attività economiche considerate compatibili.
La Bocconi, per parte sua, riteneva fondamentali tre orientamenti per smorzare i conflitti:
  • provvedere ad una adeguata zonazione, che distinguesse tra aree a vocazione conservazionistica in senso stretto ed aree in cui consentire equilibri più bilanciati,
  • sostituire o integrare le forme tradizionali di sviluppo con altre, altrettanto redditizie, compatibili con la conservazione del territorio,
  • intervenire con compensazioni, qualora le prime due serie di misure si fossero dimostrate insufficienti, per coerenza con lo spirito espropriativo di diritti reali per fini di pubblica utilità, previsto dall’art.42 della Costituzione, che prevede sempre e comunque un indennizzo.
    Da qui nasceva l’importanza di costruire un modello imprenditoriale di parco nazionale, di cui dovevano essere promotori in prima persona gli stessi enti di gestione poiché realisticamente “vi possono essere limiti nelle capacità finanziarie, organizzative, imprenditoriali presenti in loco”.

Organizzazione e gestione
Il volume prendeva quindi in esame gli aspetti naturalistici e socio-economici del Parco nazionale Gran Paradiso, ripercorrendo con il capitolo “Il parco e le popolazioni locali: un rapporto difficile”, il crogiolo storico di errori e pregiudizi che per anni hanno contrapposto il parco ai locali e di fatto rallentato, se non bloccato, la sua attività.
Le accuse di limitazione allo sviluppo, di scarsa collaborazione tra parco ed enti locali, di mancato coinvolgimento delle popolazioni nelle decisioni che le riguardavano, di composizione squilibrata del consiglio di amministrazione, sembrano in parte superate dalla nuova legge quadro sulle aree protette e da un clima che oggi sta faticosamente superando preconcetti e diffidenze.
L’analisi degli aspetti organizzativi e gestionali metteva in evidenza una legislazione – allora e per certi versi ancora oggi - lacunosa e confusa, finanziamenti accettabili ma non risolutivi, conflittualità di competenze tra le regioni, inesistenza di forme di concertazione tra enti nella pianificazione e programmazione, un elevato peso di considerazioni “di ordine strettamente politico nella gestione e nella scelta degli organi amministrativi e direzionali”, un percentuale bassa di territorio in proprietà al Parco, l’assenza di zonizzazione e più in generale di forme di pianificazione (l’approvazione dei piani si è sempre arenata in sede regionale) e di regolamentazione interna, un territorio piccolo e con molti accessi incontrollati che rendono difficile l’imposizione di tariffe di accesso, un debole ricorso a criteri e strumenti di gestione imprenditoriale, poco personale e scarsa informatizzazione. Per contro una forte consapevolezza dei problemi, la presenza di personale professionale e motivato, di guardaparco portatori di valori e di esperienze uniche, un immenso patrimonio storico e naturale, una immagine forte di serietà e di professionalità.
Ma quale era ed è la vocazione del Parco? Storicamente il PNGP aveva improntato la sua gestione ad una conservazione rigida della flora e della fauna, che ha indubbiamente consentito il ripopolamento del territorio con una ricchezza faunistica senza pari, ma anche provocato il progressivo isolamento dal contesto socio-territoriale, la difficoltà di fornire ai visitatori motivati servizi qualificati e quindi un impoverimento sociale ed economico dei comuni e il rafforzamento di atteggiamenti critici e non collaborativi in sede locale.
Anche qui, come altrove, si è fatta strada l’idea che il patrimonio naturale è tutelato per la collettività e non come bene in sé, e ci si è aperti a forme di erogazione di servizi di orientamento, educazione e protezione ai visitatori e quindi a forme di valorizzazione e sviluppo sociale delle collettività interessate.
Era ben presente in Bocconi il rischio che tale apertura potesse andare a discapito della conservazione; la prima necessità avanzata era quindi di prevedere una campagna di azioni educative. D’altra parte l’esame della domanda di fruizione del parco (1.500.000 visitatori l’anno con una stima di disponibilità di spesa per 137 miliardi), consentiva di comprendere come la promozione del parco non si ponesse in termini di azioni per incrementarne il numero quanto piuttosto richiedesse la ridistribuzione temporale e geografica e quindi la qualificazione del rapporto parco/utente, lasciando molto spazio per incrementi al di fuori dei periodi di punta, durante i quali possono essere sfruttate maggiormente le specificità legate al parco piuttosto che ai tradizionali usi della montagna (sci ed escursionismo-alpinismo).
Il perseguimento di questa finalità non poteva essere raggiunto che con una azione congiunta del parco con gli attori sociali e territoriali in quanto era richiesta la presenza di infrastrutture per ospitare i visitatori, la concertazione dell’attività di promozione con le aziende di promozione turistica, la presenza di personale preparato a guidare i turisti.
La gestione imprenditoriale di un parco nazionale dipendeva dunque da un lato da strategie di promozione attiva nel confronti del turismo e della scienza, che avrebbero aumentato le entrate e dall’altro dal riassetto organizzativo e gestionale, che avrebbe dovuto consentire un risparmio di gestione.
Questo significava innanzitutto la ricerca di uno status giuridico ottimale per un parco nazionale e l’individuazione di modelli gestionali alternativi, ma anche il raggiungimento di maggiore autonomia nei confronti dei soggetti politici ed istituzionali. Comportava l’elaborazione di politiche gestionali, lo sviluppo di competenze e professionalità specifiche legate alle attività turistiche, il rafforzamento dei criteri di gestione economico finanziaria e di controllo di gestione, il potenziamento delle politiche di marketing e di comunicazione.
Il volume passava infine alla elaborazione di azioni innovative in termini di servizi offerti alle diverse categorie di destinatari. Lo faceva individuando modi diversi di gestire il parco che contemplassero la razionalizzazione della gestione, la riqualificazione della domanda e dell’offerta, l’introduzione di elementi di innovazione imprenditoriale per utenti attuali o potenziali.

I pacchetti di servizi
Venivano proposti sette pacchetti di servizi, per ognuno dei quali veniva analizzata la domanda e si esaminavano genericamente costi e benefici economici e sociali. Per alcune azioni si verificava la necessità di investimenti, si fornivano costi e ricavi.
Il pacchetto “muoversi nel parco”, dedicato alla mobilità all’interno del parco collegava e razionalizzava servizi già esistenti come parcheggi, mezzi pubblici, collegamenti particolari come gli impianti a fune (skilift, funivie) la rete di strade sterrate, mulattiere, punti panoramici. Si puntava ad offrire servizi migliori (ad esempio affiancando ai parcheggi aree pic nic e servizi igienici), a creare un servizio integrato tra linee di trasporto esterne ed interne, ma anche a ridurre l’impatto delle presenze e l’uso dell’auto. Si prevedeva di rendere più percorribili i sentieri segnalandoli con cartine, strutture per le tappe, ci si riprometteva di ottenere una maggiore pulizia ed una migliore organizzazione e distribuzione dei flussi realizzando introiti (pedaggi, biglietti...).
Il pacchetto “alloggiare nel parco” utilizzava servizi in gran parte già offerti dal parco (alloggi, campeggi, ostelli, rifugi e bivacchi, strutture per ecoturismo come gli alpeggi e le baite di alta quota) cercando di razionalizzarne la gestione e di incrementare la capacità ricettiva. Proponeva di promuovere inventari completi degli appartamenti, delle camere in affitto, degli alpeggi e delle baite in quota disponibili ad ospitare gli interessati ad esperienze di vacanza-lavoro o ecoturismo per consentire, per il tramite degli uffici turistici, il soddisfacimento della domanda di particolari segmenti di mercato. Centri polifunzionali di servizio avrebbero dovuto accogliere tutte le funzionalità per il visitatore e l’abitante locale come il pronto soccorso, lo sportello bancario, l’ufficio di polizia, l’ufficio postale, l’ufficio informazioni ma anche lo spaccio di generi di prima necessità, piuttosto che la stazione per carburanti o il meccanico.
Con “godere il parco” si proponeva di verificare la funzionalità dei centri visita del parco e di valutare l’opportunità di costruirne altri. Si suggeriva di organizzare conferenze, mostre, proiezioni, manifestazioni folkloristiche e dell’artigianato, di creare una “linea di prodotti del parco” (cancelleria in carta riciclata, magliette e zaini in fibre naturali con il logo del parco, per esempio), di razionalizzare il servizio di escursioni guidate.
Il pacchetto “sfidare il parco” intendeva indurre un aumento della popolarità del parco catturando il target di sportivi appassionati della montagna con percorsi vita ed itinerari a cavallo opportunamente attrezzati e segnalati, corsi di roccia e di sci-alpinismo, manifestazioni e gare sportive, conferenze e proiezioni. Venivano proposte sponsorizzazioni da parte di imprese di articoli sportivi, veniva contemplata la possibilità di indirizzo verso zone meno conosciute, si cercava di attirare ed interessare anche i visitatori più schivi ed autonomi.
Con il pacchetto “proteggere il parco” venivano indicati servizi volti al soddisfacimento delle esigenze di tutela e al ripristino delle caratteristiche naturalistiche come rimboschimenti, ripopolamenti, scambi floro-faunistici, rapporti con istituzioni scientifiche italiane ed estere, convegni e pubblicazioni di argomento scientifico, ricerche e sperimentazioni. Indipendentemente dalla puntualità e necessità di talune di queste proposte, che giungendo da economisti risultavano generiche e non sempre puntuali, il discorso di fondo, totalmente condivisibile, era la necessità di restituire al parco prestigio ed immagine ed una maggiore capacità organizzativa e gestionale anche nell’ambito più squisitamente scientifico.
Ma erano indubbiamente gli ultimi due pacchetti ad apportare i maggiori contenuti innovativi. “Vivere il parco” suggeriva quello che era ed è uno degli elementi fondamentali per consentire vita serena ad un parco: l’informazione sulle attività ed i principi ed il coinvolgimento delle popolazioni locali nelle decisioni.
Il pacchetto proponeva di attivare forme di sovvenzioni per il recupero del patrimonio abitativo ma anche di salvaguardare le tradizioni e la cultura locali e consigliava di studiare agevolazioni fiscali e creditizie. Con la predisposizione di schemi di crediti agevolati riservati ai locali e lo studio di sgravi fiscali per gli abitanti del parco si proponevano al potere legislativo, altalenante tra una inusitata durezza (si pensi alle sanzioni penali per la raccolta di specie vegetali, indipendentemente dal fatto che si tratti di piante comunissime e banali o di endemismi rarissimi o all’esclusione dall’istituto della denuncia inizio di attività – d.i.a. - prevista nel territorio non protetto per i lavori di trascurabile entità, indipendentemente dal tipo di zonazione) ed il facile populismo a favore degli abitanti delle “riserve indiane”, fatti reali come una vera politica fiscale in grado di ridurre il contenzioso con chi vive nelle aree protette e di favorire gli investimenti eco-compatibili.
“Innovare il Parco” infine prevedeva il coinvolgimento delle aziende private per convenzioni di sponsorizzazione e per la formazione, aprendo l’Ente al mondo dell’impresa e del business per trovare intese e comunione di intenti.
Accanto a questo mondo il pacchetto proponeva il singolare accostamento ad un mondo opposto, quello dei deboli, delle persone bisognose di assistenza, con la predisposizione o l’adattamento di strutture in cui accogliere, specie in periodi di bassa stagione, malati di mente, tossicodipendenti, anziani.

“Autostrade” concettuali
Per quegli anni le proposte avanzate erano interessanti ed innovative, perché introducevano la necessità di abbandonare una linea di totale dipendenza dalla finanza statale e di attivare autonomi flussi d’entrata ma soprattutto avanzavano il concetto di attività durevole e di economia compatibile, ben differenziata dal comune sviluppo turistico.
Talvolta alcune analisi di fattibilità e valutazioni economiche non erano realistiche (centri polifunzionali), si scontravano di fronte a problemi di fattibilità, si limitavano ad esporre una idea senza svilupparla o ipotizzavano volumi di domanda decisamente ottimistici.
Ad esempio la previsione del passaggio del 25-30% dei visitatori presso i centri visita, di fronte ad un verificato ben più modesto 3-5% o il target di 5000 persone coinvolte annualmente nei corsi di roccia o alpinismo, del tutto irrealistico. O il volume di partecipanti alle visite guidate. Tuttavia il fine dello studio non era di elaborare un vero e proprio piano di marketing, puntuale anche nei particolari, quanto di analizzare e proporre autostrade concettuali, modi nuovi di concepire la gestione economica ed organizzativa delle aree protette.

La Bocconi individuava il perno attorno a cui creare la gestione imprenditoriale nell’assetto giuridico dell’ente parco.
Alla luce della legislazione allora vigente, il modello più realistico veniva individuato nell’Ente autonomo, per le sue peculiarità di autonomia decisionale, di sintesi degli aspetti decisionali con quelli gestionali, e quindi le possibilità di ricorrere all’autofinanziamento ed alla definizione della propria struttura organizzativa.
Per attuare le politiche imprenditoriali la Bocconi proponeva di istituire una commissione gestionale ed un organo di staff a supporto della direzione. La prima, composta da esperti nel management e da persone con esperienza imprenditoriale di estrazione locale, avrebbero dovuto esercitare funzioni di indirizzo e programmazione strategica per i problemi imprenditoriali. Lo staff, composto da dipendenti dell’Ente con conoscenze specialistiche nelle materie economiche, avrebbe invece dovuto procedere all’attuazione dei progetti giudicati prioritari dalla Commissione.
L’Ente per fare questo avrebbe però dovuto poter utilizzare ampiamente il suo potere regolamentare, procedere alla semplificazione delle procedure amministrative con il meccanismo delle intese nell’ipotesi di interessi che coinvolgessero Stato e regioni, utilizzare lo strumento degli accordi di programma per superare i problemi legati ai conflitti di competenza. Si sarebbe dovuto, per poter sburocratizzare l’attuazione del piano del parco, delegare gli interventi a società a capitale misto pubblico-privato o stipulare convenzioni con soggetti privati, per esempio cooperative, dopo precise analisi economiche in termini di redditività e di impatto economico-sociale.

La legge quadro non è andata in questa direzione; ha sì riconosciuto la validità del modello dell’Ente, ma ha ingessato diversi aspetti di autonomia, ha introdotto procedure amministrative complesse e sicuramente in contraddizione con i principi di semplificazione e gestione adottati con la L.142/90 per gli enti locali, ha aggravato i conflitti di competenza tra Enti territoriali e parchi (si pensi alla natura sostitutiva di tutti gli altri strumenti pianificatori propria del piano del parco), ha introdotto procedure di concertazione così artificiose da bloccare di fatto i processi di pianificazione (non a caso i piani dei parchi approvati si contano sulle dita di mezza mano).
Ma quello che oggi colpisce è come il concetto di imprenditorialità proposto dalla Bocconi non si realizzasse in una valutazione strettamente finanziaria ed economicistica, volta esclusivamente alla realizzazione di utili, ma mirasse ad introdurre elementi di redditività - lontani dalla autosostenibilità - inseriti in una economia locale in cui la presenza del parco deve avere soprattutto un effetto di moltiplicatore economico e sociale.
Ed accanto a questo aspetto, con una sensibilità che solo una scuola di alta cultura e valore etico-sociale può avere, si avanzavano esigenze di eguali garanzie costituzionali, si introduceva il concetto di necessità di concertare la formulazione del modello con le popolazioni locali e si sottolineavano necessità non solo materiali ma anche culturali, sociali, etiche ed estetiche.

Il libro si chiudeva facendo presente che “non è ammissibile che alle popolazioni locali siano inflitti costi superiori a quelli che, per l’esistenza e la gestione del parco, sono sopportati da qualsiasi altro cittadino italiano”. E quindi faceva presente la necessità di meccanismi di compensazione, ricordando, che anche per questa ragione “l’obiettivo di una completa autosufficienza economica del parco appare assai difficilmente raggiungibile. D’altronde sembra più che logico che la collettività nazionale debba sobbarcarsi qualche costo per il mantenimento di ambienti naturali unici, di straordinaria importanza.”

Non misconoscendo la propria storia e cultura la Bocconi concludeva ricordando il contributo della cultura imprenditoriale allo sviluppo economico e sociale, che riconoscendo che le risorse ambientali sono un bene prezioso e delicato, può riproporsi di metterlo a disposizione di molte persone con l’avvertenza che “deve essere protetto per poter essere usato o se si vuole, deve essere usato proteggendolo”.

Conclusioni che conservano, con grande autorevolezza, tutta la loro validità, a patto che al significato di protezione non sia attribuita una flessibilità forse necessaria nel mondo imprenditoriale, ma certamente non possibile in quello naturale.

*Direttore del Parco nazionale Gran Paradiso