Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 41 - FEBBRAIO 2004


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TRA DURBAN E BANGKOK: UN CONTRIBUTO DELL ’ITALIA?

Il nostro paese può e deve entrare nel dibattito internazionale

Dopo la grande assise di Durban, dove l’Unione Mondiale della Natura ha chiamato a raccolta oltre 3000 delegati da tutte le parti del mondo per il V° Congresso mondiale dei parchi, e in vista del prossimo Congresso di Bangkok (novembre 2004), si impone una riflessione collettiva, già in parte avviata, sui nuovi orientamenti che si profilano a livello internazionale in tema di conservazione della natura e di sviluppo sostenibile. I grandi cambiamenti che attraversano la società contemporanea stimolano nuove idee e nuovi approcci scientifici e culturali, che possono avere importanti ricadute sulle politiche praticabili, in particolare sulle politiche dei parchi. L’Italia, quasi assente a Durban, non può starsene alla finestra: la posizione di rilievo assunta al riguardo nel panorama europeo le consente ed impone di entrare nel dibattito e nel confronto internazionale delle esperienze con iniziative e contributi appropriati.

1. la svolta di Durban
Parlare di svolta negli orientamenti dell’IUCN in tema di conservazione della natura può sembrare eccessivo a chi consideri la continuità e la coerenza dell’impegno pluridecennale dell’Unione. Ma è stato lo stesso Direttore generale Achim Steiner a sottolineare, subito dopo la conclusione del Congresso, il grande “shift in focus” che si è registrato nelle concezioni e nelle politiche delle aree protette nel decennio che ci separa dall’appuntamento di Caracas. Il cambiamento riguarda certamente in primo luogo le aree protette – tema del Congresso – strappate definitivamente ad immagini e percezioni ancora largamente diffuse che le configurano come “isole separate di una conservazione mirata all’uso esclusivo di pochi privilegiati” (Steiner, 2003). Ma dietro a questo cambiamento di prospettiva è ben riconoscibile una svolta più profonda, che riguarda congiuntamente:
- il rapporto tra la conservazione e lo sviluppo sostenibile,
- il rapporto tra risorse da proteggere e contesto territoriale,
entrambi già impliciti nel titolo stesso del Congresso (“Benefits beyond Boundaries”), che poneva il problema di come le politiche di conservazione possano irradiare benefici al di là di ogni frontiera, spaziale, istituzionale, sociale, generazionale e di genere.
I documenti usciti dal Congresso non lasciano dubbi sulla stretta interconnessione stabilita, a tutte le scale, tra problemi ed obiettivi di conservazione della natura e problemi ed obiettivi economici e sociali, tra le preoccupazioni ambientali e quelle suscitate dalle tragedie della povertà, tra i problemi di sostenibilità e quelli dell’equità e della giustizia sociale. A livello globale, il Congresso ha sostanzialmente riconosciuto – anche per l’energica spinta delle agguerrite rappresentanze asiatiche, africane e sudamericane – intrecci e connessioni su cui da tempo i movimenti d’opposizione hanno richiamato l’attenzione. Non solo si respinge l’idea che le politiche di conservazione possano giustapporsi ai bisogni imperativi di vita e di sviluppo delle popolazioni sottosviluppate, ma si richiede esplicitamente che esse assumano un ruolo centrale nelle strategie di riduzione della povertà, di redistribuzione della ricchezza e di riconoscimento dei diritti fondamentali. Ma connessioni non meno stringenti sono state poste in evidenza con riferimento alle specifiche realtà nazionali e locali, in cui emerge il ruolo delle popolazioni indigene nella gestione cooperativa e conservativa delle risorse locali.
Non a caso il lavoro che da qualche anno sta svolgendo il combattivo Gruppo di lavoro per la gestione cooperativa (CMWG) guidato da Grazia Borrini Feyerabend ha suscitato al Congresso un ampio e pervasivo interesse, assumendo in molti workshop un ruolo di riferimento. In questa prospettiva, che apre la strada a quella “territorializzazione” delle politiche ambientali che già la Conferenza di Rio del 1992 aveva eloquentemente indicato, si superano definitivamente quelle concezioni – peraltro ancora fortemente radicate nelle pratiche e nella cultura della conservazione – volte a concentrare le misure di protezione su singoli siti o singole risorse. L’attenzione si allarga, come osserva Roger Crofts (2003) dai siti di speciale protezione all’ambiente circostante, alle comunità locali ed alle più vaste comunità di interessi le cui attese, aspirazioni e comportamenti influenzano ogni istanza conservativa. Ed è un allargamento che impone apertura al dialogo, umiltà e fiducia tra i diversi soggetti coinvolti, in vista di sistemi più flessibili e cooperativi di “governance”.
Questo cambiamento di prospettiva richiama due situazioni paradossali. La prima concerne le ragioni stesse del cambiamento, che riflettono la consapevolezza che occorre oggi “chiedere di più” alle politiche ambientali. Il Congresso di Durban risponde alla crescita della domanda sociale di politiche di protezione (testimoniata dalla spettacolare crescita, ancora nell’ultimo decennio, del numero e della superficie delle aree protette, le quali coprono oggi più del 12% delle terre emerse, ben oltre il traguardo del 10% fissato ancora un decennio prima), proprio mentre crescono i rischi, il degrado ambientale, le minacce di collassi e catastrofi determinate o assecondate da politiche, modelli di sviluppo e comportamenti collettivi irresponsabili (soprattutto nel mondo industrializzato). La società contemporanea sembra attraversata da divaricazioni schizofreniche tra il consenso e il successo attribuito ad alcune politiche ambientali ad alto contenuto simbolico (quali tipicamente quelle dei parchi) ed il rifiuto di mettere in discussione le ragioni stesse del degrado e del rischio ambientale, vale a dire i propri modelli di sviluppo e i propri stili di vita.
Un secondo paradosso attiene al confronto tra il panorama internazionale e quello europeo. Quanto più il dibattito internazionale evidenzia contrasti e differenze, portando alla ribalta i problemi, le attese e le rivendicazioni con cui devono confrontarsi le politiche ambientali nei paesi sottosviluppati, in contesti assai distanti da quelli della vecchia Europa, tanto più inaspettatamente si scoprono analogie e problemi comuni (Gambino, 2002). La duplice svolta che ha caratterizzato a Durban la maturazione del pensiero ambientalista ha infatti ampi riscontri nell’evoluzione delle politiche ambientali in ambito europeo, soprattutto per quel che concerne le aree protette. Basti pensare alla crescente importanza accordata agli interessi e ai bisogni delle comunità locali (soprattutto ma non solo nell’istituzione, nella gestione e nella pianificazione dei parchi regionali), ai tentativi messi in atto a livello europeo, nazionale e regionale per contrastare l’”insularizzazione” delle aree protette, al cambiamento negli stili di governo praticati in diversi paesi europei a favore di un ruolo più incisivo dei poteri locali. Dietro ai contrasti, spesso enfatizzati nelle immagini stereotipate, sembra emergere in tutto il mondo una necessità generale di imparare a “trattare le differenze, la complessità e l’incertezza in un mondo che cambia” (Steiner, 2003).
La spinta che ha impresso la duplice svolta di Durban sembra d’altronde destinata a proseguire, in vista del III° Congresso dell’IUCN che si terrà a Bangkok nel novembre di quest’anno. Il tema prescelto – “People and Nature: only one world” – tende infatti a rafforzare la posizione della conservazione come parte integrante ed essenziale dello sviluppo sostenibile. Nelle intenzioni dell’organizzazione, la conoscenza della biodiversità e degli ecosistemi dovrebbe sempre più qualificarsi come “conoscenza per lo sviluppo”, contribuendo a dar senso concreto agli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Si può anzi sperare che, a livello politico non meno che a livello scientifico e culturale, l’integrazione delle istanze conservative nei processi decisionali della società contemporanea possa aiutare in modo decisivo a far uscire questa espressione dagli equivoci e dalle confusioni che l’hanno finora imprigionata facendone un “ombrello” che copre le cose più contrastanti. Una scorsa ai titoli dei temi del Congresso sembra confortare questa speranza:
- la gestione degli ecosistemi : collegare sostenibilità a produttività,
- salute, povertà e conservazione: rispondere alla sfida del benessere umano,
- perdita di biodiversità e specie in estinzione: gestire il rischio in un mondo che cambia,
- mercati, affari e ambiente: rafforzare la responsabilità collettiva, legislazione e politiche.

2. vecchi e nuovi paradigmi.
Con più specifico riferimento alle aree protette (il tema generale del Congresso di Durban) si sono consacrati ufficialmente nuovi paradigmi, destinati a sostituire quelli radicalmente diversi che hanno finora caratterizzato le idee, le pratiche gestionali e le politiche di intervento. Adrian Phillips ha da qualche anno messo l’accento sulle differenze tra i vecchi e i nuovi paradigmi per le aree protette (AP), che possono riassumersi nei seguenti spostamenti (Phillips, 2003):
- obiettivi: dal “mettere da parte” a scopi conservativi, all’includere obiettivi economici e sociali; dalla protezione della vita selvaggia e dei valori scenici alle ragioni scientifiche, economiche e culturali; dalla gestione prevalentemente mirata su turisti e visitatori al ruolo del turismo a favore delle economie locali; dalla valorizzazione della “wilderness” alla valorizzazione del significato culturale della “wilderness”; dalla focalizzazione sulla protezione alla considerazione anche del restauro e della riqualificazione;
- “governance”: da forme di governo centralizzate a forme di “governance” pluraliste;
- comunità locali: da forme di gestione e pianificazione “contro” le comunità locali, indifferenti alle loro opinioni, a forme di gestione “con”, “per” e in qualche caso “da parte” delle comunità locali, orientate a soddisfare i loro bisogni;
- contesto: da forme di sviluppo e di gestione separate ed “insulari” a forme di pianificazione che le considerino parte di più vasti sistemi nazionali, regionali e internazionali, e a forme di sviluppo in rete (con le aree centrali di stretta protezione circondate da fasce-cuscinetto e connesse da corridoi verdi);
- percezione: dal vederle principalmente come una risorsa nazionale o un affare d’interesse nazionale, al vederle come una risorsa delle comunità ed anche come un affare d’interesse internazionale;
- tecniche di gestione: da forme di gestione tecnocratiche, reattive e di breve termine, a forme di gestione adattative e politicamente sensibili;
- competenze: da forme di gestione guidate dagli esperti, scienziati e naturalisti, a forme di gestione più pluridisciplinari ed attente ai saperi locali;
- finanziamenti: da quelli pagati dal contribuente a quelli che provengono da una pluralità di fonti diverse.
Non è difficile cogliere, per ciascuna delle voci di cambiamento, innumerevoli riscontri nell’esperienza italiana ed europea. Sembra anzi che taluni dei cambiamenti siano già stati “anticipati” o almeno discussi e propugnati nell’esperienza italiana ed europea, con motivazioni ed in termini assai più consonanti di quanto non sia rilevabile, ad esempio, nell’esperienza americana. Così, per quanto riguarda gli obiettivi generali delle politiche dei parchi, non si può dimenticare che negli ultimi decenni, dapprima nelle esperienze regionali (soprattutto in Francia e in Italia) e poi anche in quelle dei parchi nazionali, la finalità dello sviluppo socioeconomico locale è stata sistematicamente associata – non di rado in posizione prioritaria – alle finalità classiche della conservazione della natura e della pubblica fruizione. L’enfasi su quella finalità è cresciuta di pari passo col crescere del numero, della superficie e soprattutto dell’impatto sociale e territoriale dei parchi. E col crescere dell’importanza accordata ai bisogni e alle attese delle comunità locali, si sono – con fatica ed in modi assai diversificati – progressivamente messi in discussione i tradizionali sistemi di governo, alla ricerca di forme più efficaci e socialmente accettabili di governance. Varie circostanze, dal fatto che in Europa la maggior parte dei suoli delle aree protette sono di proprietà privata, al fatto che tali aree ricadono spesso in territori “perdenti” (vale a dire in declino economico, demografico e culturale) in cui i problemi più gravi non riguardano tanto l’eccesso di pressioni antropiche quanto il rischio di abbandono, al fatto che le risorse economiche e finanziare assicurate dalle amministrazioni centrali sono spesso assai carenti, hanno fatto sì che proprio in un campo, come quello delle aree protette, più di altri originariamente segnato dall’affermazione di un interesse sovra-locale, si avvertisse più precocemente l’esigenza di collaborare coi poteri e gli attori locali.
Parimenti, non può destare sorpresa il fatto che in Europa si sia da tempo riconosciuta l’esigenza di “andare oltre” i confini delle aree protette, per assicurare adeguate forme di protezione in territori che sono per la maggior parte densamente abitati e industrializzati, spesso devastati da processi pluridecennali di degrado e frammentazione, in cui la salvaguardia o la ricostituzione di reti di connessione tra gli spazi di maggior naturalità assumono un’importanza cruciale.
Il problema di integrare efficacemente i parchi nel contesto ecosistemico e territoriale si pone con drammatica evidenza in tutto il mondo: segnalato dal National Park Service americano già negli anni ’80 (NPS, 1986), esso è stato denunciato ampiamente a Durban: come si è spesso detto, nessun parco è abbastanza grande da garantire il successo di misure di protezione che si sviluppino esclusivamente al suo interno.
Ma, se questo è vero per parchi di milioni o centinaia di migliaia di ettari quali quelli che si trovano in America, Africa o Asia, è molto più vero per la maggior parte dei parchi europei, che misurano in media meno di 40.000 ha (Ced-Ppn 2001a) e che somigliano spesso ad “isole assediate”, immerse in contesti urbanizzati crescentemente ostili al libero dispiegarsi delle dinamiche naturali. Ancora più scontata, in Europa, la necessità di abbracciare compiutamente la dimensione “culturale” delle aree protette, evitando un appiattimento delle politiche di istituzione, pianificazione e gestione sui soli valori naturalistici, che sono qui, più che altrove, inscindibilmente fusi coi valori storici, culturali, paesistici.
In tutto il mondo, si nota un crescente interesse per i “paesaggi culturali”, dentro e fuori dei parchi e delle aree naturali protette.
Ma in Italia, come in molti altri paesi europei, la ricchezza e pervasività dei paesaggi culturali sono tali da costringere a mettere in discussione il significato stesso di quest’espressione codificata dall’Unesco, e a spostare l’attenzione sul significato culturale di tutti i paesaggi, compresi quelli dell’ordinarietà o persino del degrado, che connotano l’intero territorio – come esplicitamente ed autorevolmente raccomanda la Convenzione Europea del Paesaggio (CE, 2000).
Le poche considerazioni suesposte non hanno alcun valore consolatorio e non autorizzano alcun “ottimismo ambientale”.
Il fatto che i nuovi paradigmi consacrati dall’IUCN presentino una particolare “pertinenza” nei confronti della realtà italiana ed europea, non ha di per sé nulla di positivo.
Esso semmai riflette il fatto che molti problemi, clamorosamente esplosi nel panorama internazionale, hanno in Europa radici particolarmente profonde o presentano una particolare gravità. In realtà, riconoscere i problemi non significa averli risolti.
Nel nostro paese l’asprezza delle contestazioni e dei contrasti, che tuttora oppongono tante popolazioni locali alle autorità di gestione dei parchi, basta a dimostrare quanto poco gli orientamenti dichiarati a favore di un virtuoso connubio delle politiche conservative con quelle dello sviluppo socioeconomico locale siano riusciti finora a tradursi in fatti concreti. Le contestazioni nascono soprattutto da una mancanza di fiducia, e la fiducia nasce dall’esperienza. Anche gli orientamenti verso forme innovative di “governance”, basate sul principio della sussidiarietà responsabile, per quanto enfaticamente dichiarati nella maggior parte delle esperienze recenti, trovano tuttora ostacoli fondamentali nell’interpretazione rigida delle norme fissate dalla L.394/1991 (in particolare nel discusso ruolo “sostitutivo” dei piani dei parchi nei confronti di ogni altro piano locale). Ed analogamente l’integrazione dei parchi nelle reti di connessione ecologica e nei sistemi territoriali del contesto incontra tuttora ostacoli disarmanti nelle difficoltà di efficace raccordo tra la pianificazione “speciale” dei parchi e la pianificazione “ordinaria”, urbanistica e territoriale, oltre che quella paesistica.
Tuttavia, la ricerca di soluzioni appropriate nella linea indicata dai “nuovi paradigmi” richiede piena consapevolezza che i problemi da affrontare non sono il riflesso di anomalie o eccezionalità del nostro paese, ma rappresentano piuttosto la declinazione locale-nazionale di problemi sostanzialmente comuni, e che sempre più spesso devono essere affrontati con strategie comuni. In questo senso, sembra evidente che i dibattiti e le riflessioni sul tema delle politiche dei parchi che si svolgono non solo a livello di larga opinione pubblica ma anche a livello del sistema politico e persino negli ambiti più ristretti della cultura scientifica e professionale, denunciano troppo spesso una percezione del tutto inadeguata dei problemi in gioco.
Molte discussioni circa l’istituzione, la pianificazione e gli orientamenti gestionali dei parchi appaiono spesso prigioniere di immagini stereotipate e lontane dalla realtà che ancora configurano i parchi come “santuari della natura” o isole remote dalla vita delle popolazioni, o le opzioni conservative come misure passive di vincolo e limitazione che possono prescindere del tutto dalle loro attese e dai loro bisogni. La stessa cultura della pianificazione sembra spesso clamorosamente in ritardo: in quanti piani urbanistici e territoriali le aree dei parchi sono “zone bianche” consegnate a forme di disciplina separata, in nessun modo interagente con quella del contesto? Da questo punto di vista, è difficile negare il contributo di innovazione “culturale” recato dai nuovi paradigmi proposti dall’IUCN.

3. quali sistemi?
Una riflessione critica sull’esperienza italiana, alla luce dei “nuovi paradigmi”, non può che partire dal concetto di sistema. Esso occupa una posizione chiave nelle Raccomandazioni finali di Durban (5.4.: “la costruzione di sistemi comprensivi ed efficaci di aree protette”) ed è stato enfatizzato in Italia dalla cosiddetta “nuova programmazione”, ripreso anche dalla L.426/1998. Ma di quali sistemi si tratta?
Nella Raccomandazione IUCN la costruzione di sistemi di AP è collegata strettamente alla tutela della biodiversità, e quindi alle esigenze di adeguata comprensione della distribuzione di specie, habitats, ecosistemi e processi ecologici a tutte le scale. Di qui la richiesta di estendere tali sistemi in maniera tale da rappresentare tutte le eco-regioni, con particolare attenzione per gli ecosistemi minacciati o inadeguatamente protetti e per le specie a rischio d’estinzione. Coerentemente con l’”allargamento” delle politiche di protezione propugnato in via generale dal Durban Accord, la citata Raccomandazione invoca sia una estensione delle aree protette (in particolare per meglio coprire le aree marine e costiere ed i sistemi d’acqua dolce) sia altre forme di protezione, come la pianificazione paesistica, per fronteggiare i processi che si manifestano fuori delle aree protette e ne minacciano la biodiversità. Ci si collega così al grande tema delle connessioni tra aree protette e contesto ambientale, oggetto di un’altra Raccomandazione (5.9: “Gestione integrata dei paesaggi per sostenere le aree protette”) in cui si riconosce la nccessità di assicurare l’integrità ecologica delle AP controllando e restaurando i processi ecologici, sia all’interno che attorno o in prossimità delle stesse AP.
Ma proprio questo inevitabile allargamento delle istanze di tutela al contesto ambientale apre interrogativi che i dibattiti svoltisi a Durban (in particolare quelli sulle AP di montagna) non hanno consentito di chiudere. Ci si può infatti chiedere se i sistemi più vasti da considerare a tal fine possano ancora essere definiti come “sistemi di AP”: nel senso che gli obiettivi da perseguire con la loro costruzione e con la loro tutela possano essere del tutto ricompresi in quelli assegnati alle AP, pur espansi come suggerito dai “nuovi paradigmi” dianzi citati. Questa domanda si collega a quelle che hanno investito anche in Europa il concetto delle reti ecologiche (Boitani, 1999; Gambino, 2000) mettendone progressivamente in discussione la legittimazione scientifica.
La possibilità di interpretare reti e sistemi come strettamente funzionali ad accrescere o sostenere l’integrità delle AP sembra infatti pregiudicata alla radice dalla palese difficoltà di coprire adeguatamente con le AP tutte le situazioni critiche sotto il profilo della biodiversità, colmando i “gaps” attuali, a meno di sviluppi quantitativamente assai più rilevanti di quelli, pur già spettacolari, degli ultimi decenni. Ad esempio in Europa le clamorose lacune nella protezione delle aree costiere, di quelle marine o di quelle fluviali non sembrano realisticamente colmabili né con la proliferazione di AP né soltanto con la creazione di fasce di connessione; ciò vale anche per i territori di montagna, dove, pur in presenza di notevoli addensamenti di AP (il tasso di copertura del territorio complessivo è infatti circa triplo di quello degli altri territori: Ced-Ppn 2001a), sussistono ampie lacune sotto il profilo della rappresentatività (per es. nelle Alpi, perché il Gran Paradiso e non anche il Monte Bianco o il Monte Rosa?). Il problema si presenta anche a livello internazionale e non riguarda soltanto gli aspetti quantitativi (cioè se e quanto si possano espandere le AP per colmare le lacune) ma anche il senso da attribuire alla auspicata “integrazione” delle AP nel contesto. Effettivamente nel Piano d’azione, per raggiungere il Risultato 3 – la realizzazione di “una rete mondiale di aree protette integrate con i paesaggi terrestri e marini circostanti” – non si prevede soltanto l’istituzione di nuove AP, ma si afferma anche la necessità di “passare dalla nozione di rete ad una nozione in cui la matrice territoriale (culturale e naturale) sia considerata importante come quella delle AP, nella quale le due siano integrate e connesse con una assimilazione generalizzata delle politiche ambientali”. Tale necessità si pone a livello internazionale e regionale ma assume più precisi contorni a livello nazionale e soprattutto locale, ove si auspica, ad esempio, che “le autorità delle aree protette e dei territori adiacenti […] considerino la possibilità di applicare misure di zonizzazione, all’interno delle aree protette e ai loro margini, rivolte alla creazione di connettività”.
Sembra questo un primo passo verso il riconoscimento di una “complementarietà” tra protezione interna ed esterna, che trova più esplicito riscontro in esperienze europee – come ad esempio il Piano per il Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano – in cui si è evidenziata la necessità di assicurare, anche fuori del Parco, la tutela delle “matrici di naturalità diffusa” degli spazi rurali che circondano le aree meno antropizzate.
Le perplessità che suscita il concetto di “sistemi di AP” sono poi notevolmente accresciute se, nello spirito di Durban, le istanze conservative si saldano a quelle dello sviluppo sostenibile. È infatti evidente che le opportunità di sviluppi endogeni, durevoli ed auto-gestiti delle comunità locali non trovano ncessariamente nelle AP il loro fulcro applicativo. Molti studi, progetti e iniziative – primo fra tutti il Progetto APE (Ced-Ppn 2001b) - hanno individuato piuttosto nei “sistemi locali territoriali” (SLoT: Dematteis, 2001) il riferimento prioritario. Ciò non esclude certamente che le AP possano svolgere un ruolo cruciale nel propiziare la ricerca di nuove traiettorie di crescita, ma induce a respingere l’idea che gli SLoT possano essere considerati in funzione esclusiva o prevalente delle AP.
Il concetto di “sistema” cui fare riferimento – in una prospettiva che coniughi realmente conservazione e sviluppo sostenibile – non sembra quindi interpretabile come “sistema delle AP”. I più vasti sistemi da prendere in considerazione ai fini di una efficace “conservazione per lo sviluppo” non sono pensabili come sistemi di AP interconnesse, ma come sistemi più complessi e multi-obiettivo, di cui le AP dovrebbero fare parte integrante. In questa direzione si sono mosse non poche riflessioni e proposte che, anche nel nostro paese, hanno cercato di delineare nuovi approcci “di sistema”. Una delle idee centrali emerse in questi anni è quella di “infrastruttura ambientale”, che può essere utile confrontare con le indicazioni di Durban.
Una lettura critica del Piano d’azione di Durban potrebbe indurre a notare che le indicazioni relative al contesto ambientale-territoriale delle AP nascono comunque dalle AP, sono cioè strettamente funzionali alla loro protezione.
Anche le precedenti indicazioni dell’IUCN (1998) a favore di un approccio sistemico (verso sistemi che incorporino oltre alle AP anche aree esterne, per fronteggiare più efficacemente i fattori che minacciano la conservazione) potrebbero essere lette nello stesso senso. Ci si può chiedere se la duplice svolta impressa a Durban non esiga ormai un passo ulteriore, che porti a ribaltare definitivamente la prospettiva, partendo dal territorio anziché dalle AP, dalle esigenze complessive di tutela ambientale dell’intero territorio, anziché dalle esigenze specifiche delle AP. È questa la sfida lanciata con le proposte, maturate presso il Ministero dell’ambiente (da quelle implicite nel progetto di Rete Ecologica Nazionale di cui alla del. CIPE 22/12/98, a quelle esplicite delle due ricerche, sul sistema nazionale delle AP e sul Progetto APE: Ced-Ppn 2001a,b) evocabili con l’idea di “infrastruttura ambientale”. L’idea, in sintesi, che “le politiche delle AP devono convergere in una politica di sistema, volta a realizzare una vera e propria infrastruttura ambientale dell’intero territorio nazionale, in tutto analoga e coordinata con le altre reti infrastrutturali, tale da creare le condizioni perché i processi economici e sociali possano svilupparsi in modi ambientalmente ‘sani’, conservando il patrimonio naturale e migliorando la qualità della vita”. Una rete infrastrutturale così concepita non ignora certo il ruolo strategico delle AP: ma non è una rete “delle” AP, perché risponde ad esigenze di tutela più articolate e diffuse e collega spazi e risorse più differenziate di quelle soggette alla protezione “speciale” delle AP (quali ad es. l’intero reticolo idrografico, i grandi demani forestali, le fasce di continuità ad elevata biopermeabilità che si snodano lungo i crinali montani alpini ed appenninici: Gambino e Romano, 2003). Non si tratta dunque di indebolire il ruolo delle AP, ma al contrario di rafforzarlo specificandolo e consentendo loro di irradiare più ampiamente i loro benefici al di là dei loro confini.
L’idea di una rete d’infrastruttura ambientale che innervi l’intero territorio sembra quindi rappresentare un coerente sviluppo di quello spostamento “dalle isole alle reti” che costituisce, come abbiamo visto, uno degli aspetti più caratterizzanti dei nuovi paradigmi della conservazione.
Esso si presta ad una considerazione integrata delle dense e complesse reti di relazioni che hanno nel corso dei secoli o dei millenni strutturato il territorio italiano, depositandovi una enorme ricchezza di valori naturali, storici, culturali e paesistici intimamente intrecciati. Acquistano qui (come in molti altri paesi europei) particolare rilevanza le raccomandazioni di Durban volte a considerare forme di connettività bio-culturale essenziali anche soltanto ai fini della tutela della biodiversità, tenendo conto delle sue complesse interrelazioni con la diversità paesistica e culturale. Tale considerazione costituisce peraltro una base imprescindibile per attuare politiche di conservazione della natura strettamente connesse alle politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, in vista di una valorizzazione complessiva del territorio.
Ma questa stimolante prospettiva apre due ordini di problemi:
- il primo, relativo alle difficoltà , particolarmente nel contesto italiano, di coordinare attività di tutela che riguardano materie diverse (ancora nel recente Codice predisposto dal Ministero dei beni e delle attività culturali, la tutela dei beni culturali è ben distinta da quella dei beni paesaggistici, e questa dalla protezione della natura) e competono ad autorità diverse (il citato Ministero e quello del territorio e dell’ambiente, per limitarci al livello nazionale); difficoltà che rinviano a quei problemi di “governance” cui lo stesso Congresso di Durban ha dedicato attenzioni particolari;
- il secondo, relativo alla dimensione “areale” dei valori naturali, paesistici e culturali che l’infrastruttura ambientale dovrebbe mettere in rete, alla loro irriducibilità alla dimensione puramente “reticolare”, e alla necessità quindi di prendere in considerazione forme di tutela estesa, riguardanti aree spesso assai ampie e non solo corridoi di connessione.
Questo secondo ordine di problemi è da tempo frequentato dai dibattiti, dagli accordi e dalle riflessioni a livello internazionale. Già negli anni ’80 il National Park Service americano individuava nella pianificazione allargata alle regioni circostanti le aree protette il mezzo per assicurarne una efficace integrazione (NPS, 1986). Nell’esperienza recente del NPS, è soprattutto lo “strategic planning” ad assumersi questo compito (DiBello, 2003). Un riferimento concettuale che è stato in più punti ripreso nei documenti finali di Durban è quello delle bioregioni: la pianificazione dovrebbe sistematicamente svilupparsi a livello di bioregioni per raggiungere i suoi scopi ed in particolare evitare l’isolamento delle aree protette. La Raccomandazione 5.9. concerne precisamente la pianificazione e gestione integrata dei paesaggi terrestri e marini interessati dalle aree protette, con riferimento a varie Convenzioni internazionali sulla conservazione della natura ed anche a quanto previsto dalla World Heritage Convention per i “paesaggi culturali”. Per quanto riguarda l’Europa, queste indicazioni chiamano in causa la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) predisposta dal Consiglio d’Europa e siglata a Firenze da 45 paesi nel 2000. I motivi d’interesse della CEP ai fini qui richiamati sono almeno due:
- l’ampio significato che la CEP attribuisce al paesaggio in quanto non solo prodotto evolutivo dell’interazione tra fattori naturali e umani, ma anche “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” (art.5): concezione coerente con quella considerazione integrata dei valori naturali e culturali e con quell’attenzione per le popolazioni locali in più punti raccomandate dagli accordi di Durban;
- l’affermazione esplicita che la tutela e la valorizzazione del paesaggio riguardano l’intero territorio, “gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani”, “sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati”; concezione coerente con quel ribaltamento del campo d’attenzione, dalle AP al territorio intero, che si viene qui delineando.
Sembra quindi giustificata l’ipotesi, sottolineata nelle citate ricerche per il Ministero dell’ambiente, che le politiche del paesaggio, attuative della CEP, possano svolgere un prezioso ruolo complementare a quello dei parchi e delle aree protette, contribuendo alla realizzazione dell’infrastruttura ambientale diramata su tutto il territorio. Ma questa considerazione solleva a sua volta numerosi interrogativi, non privi di implicazioni scientifiche e culturali. Anche a prescindere dalle difficoltà politico-culturali che nascono dalla separazione o dalla confusione delle competenze e delle responsabilità amministrative, va chiarito il rapporto che può essere stabilito tra la tutela paesistica posta in essere ai sensi della CEP e la protezione “speciale” accordata, da un lato, ai “paesaggi culturali” (in particolare a quelli riconosciuti dall’Unesco nelle liste del patrimonio mondiale dell’umanità) e, dall’altro, ai “paesaggi protetti” corrispondenti alla categoria V della classificazione IUCN delle AP. Si tratta, palesemente, di tre diverse interpretazioni del concetto di paesaggio, cui corrispondono politiche diversificate.
In particolare, non va dimenticato che gran parte delle AP europee (compresi molti “parchi nazionali” come tali classificati dalle rispettive legislazioni nazionali, quali tipicamente i parchi nazionali inglesi) sono classificate dall’IUCN nella categoria V dei paesaggi protetti.

4. strategie e linguaggi comuni
I documenti conclusivi del Congresso di Durban sono pervasi dalla consapevolezza che gli attuali problemi ambientali non possano essere affrontati efficacemente se non mediante strategie comuni e condivise. Come si è visto, questa esigenza si pone a tutti i livelli, da quello internazionale (“global change”, produzione e consumi energetici, inquinamento marino, povertà, accesso alle risorse idriche, ecc.), a quello regionale e nazionale, a quello locale. A tutti i livelli, la costruzione di reti e sistemi che possano contrastare i rischi e i processi di degrado e propiziare la sostenibilità degli sviluppi economici e sociali, richiede accordi, intese e collaborazioni tra una molteplicità di soggetti istituzionali e di attori sociali. Il cammino verso il Congresso di Bangkok non potrà che sottolineare l’affermazione della Conferenza di Rio, 1992, secondo cui “nobody stands alone”, nessuno può agire in solitudine in un mondo sempre più caratterizzato da interrelazioni, interferenze, effetti-rete. Nella prospettiva che più direttamente ci riguarda, si avverte l’esigenza improcrastinabile di una politica nazionale per la conservazione della natura e la valorizzazione del patrimonio ambientale, che fornisca un quadro di coerenze per l’azione delle Regioni e per quelle stesse “politiche di sistema” (in particolare per i “grandi sistemi”, come le Alpi, l’Appennino, la fascia padana) già intraviste con la “nuova programmazione”e ribadite con la L.426/1998. La definizione della Rete Ecologica Nazionale, sulla base della Carta della Natura, è un passo essenziale verso quella delle Linee fondamentali d’assetto del territorio nazionale (DL 112/98) che spetta allo Stato determinare. Ma si avverte contemporaneamente l’esigenza che la politica nazionale si integri organicamente nelle strategie europee ed internazionali, non solo per rispetto degli obblighi assunti dal nostro paese, ma anche per conseguire la necessaria efficacia. Molte ragioni – non escluse quelle giuridiche che scaturiscono dalle recenti riforme costituzionali – convergono a sottolineare la crescente rilevanza dei vincoli e delle opportunità internazionali ai fini delle politiche ambientali e della stessa maturazione del quadro legislativo nazionale.
Il rapporto cruciale è ovviamente con l’Europa. Non soltanto perché l’Unione Europea ha competenze primarie in materia di politiche ambientali, ma anche perché molte delle politiche di sviluppo che possono più pesantemente incidere sulle condizioni ambientali e sulla fruibilità dei parchi e delle risorse naturali (come quelle agricole, o quelle dei trasporti o dei fondi strutturali) dipendono sempre più da decisioni che maturano a livello europeo. Inoltre, e più specificamente, non si può evitare di considerare che gran parte dei parchi e delle AP italiane sono snodate lungo le due principali dorsali delle Alpi e degli Appennini. Ma, se la prima tende ormai a costituirsi come ambito privilegiato di cooperazione transfrontaliera (Convenzione delle Alpi) destinato a svolgere un ruolo cruciale nel cuore dell’Europa, la seconda sembra destinata – come emerge dal Progetto APE – a un ruolo insostituibile di connessione tra l’Europa centrale e l’arco mediterraneo. Un ruolo coerente con le grandi tradizioni storiche, economiche e culturali del nostro paese, che potrebbe contribuire a contrastare il risucchiamento dello sviluppo economico e sociale verso il Centro Europa, a propiziare una più equilibrata distribuzione delle opportunità di sviluppo a favore del Mezzogiorno, ad affermare l’identità e il ruolo specifico dell’Italia nello sviluppo del turismo sostenibile euro-mediterraneo (Ced-Ppn, 2001b). Il confronto di Durban ha mostrato come il Progetto APE, proprio per queste ragioni, possa rappresentare non soltanto un esempio di rilievo nel panorama europeo, ma anche un primo sostanziale contributo per una strategia integrata di valorizzazione delle “montagne del Mediterraneo”. Di qui la necessità di considerare il costruendo sistema nazionale come parte integrante non solo della Rete Ecologica Europea, ma anche delle nascenti reti euro-mediterranee. A dispetto delle suddette considerazioni, non si può evitare di constatare che, non solo per quel che concerne il nostro paese e i suoi rapporti con l’Europa e il Mediterraneo, ma anche tra i paesi della vecchia Europa la cooperazione e la stessa reciproca conoscenza nel campo delle politiche dei parchi, delle aree protette e del paesaggio sono estremamente carenti. I relativi successi di Natura 2000 non devono ingannare: come dimostrano le ricerche (Ced-Ppn, 2001a), regioni e paesi europei si muovono in questo campo in modi molto diversificati e separati, ignorandosi a vicenda, senza esprimere visioni e strategie condivise, con approcci legislativi e apparati istituzionali eterogenei e difficilmente armonizzabili e confrontabili. Questa diversificazione – solo in parte riconducibile alle differenze dei contesti ambientali, delle vicende storiche, dei quadri politici e delle culture locali – penalizza i tentativi di cooperazione transfrontaliera (come tipicamente dimostra la sofferta esperienza dell’”Espace Mont Blanc”) e soprattutto pregiudica la possibilità di maturare strategie comuni a scala europea, in linea con la maturazione dello “Schema di sviluppo dello spazio europeo” (UE. 1999). A fronte di queste difficoltà, assume rilievo il problema della classificazione delle aree protette. L’estrema eterogeneità degli ordinamenti e delle classificazioni adottate dai diversi paesi (ulteriormente accentuata in vari paesi, tra cui l’Italia, da quella che si riscontra tra le diverse regioni al loro interno) impedisce di parlare un linguaggio comune, rende difficile cogliere e valorizzare le differenze reali, ostacola il confronto, lo scambio di esperienze e l’apprendimento collettivo. Si contano in Europa oltre 70 diverse categorie di AP, parte delle quali definiscono in modo diverso le stesse realtà, mentre altre definiscono in modo uguale realtà profondamente diverse, senza quasi rapporti riconoscibili con le classificazioni adottate dall’IUCN a livello internazionale nel 1994 (Ced-Ppn 2001a). Naturalmente il problema si pone anche a livello internazionale, ove è affrontato da un’apposita Commissione dell’IUCN (intitolata appunto “Speaking a Common Language”) tuttora all’opera.
Ma, per quanto riguarda l’Europa, alla luce delle precedenti considerazioni, il problema non è certamente soltanto lessicale o tassonomico, poiché tocca alla radice la possibilità di armonizzare le politiche dei diversi paesi –soprattutto ma non solo in ambiti transfrontalieri – e di concepire obiettivi e strategie comuni, sia per quel che concerne l’istituzione, la pianificazione e la gestione delle AP, sia, ancor più, per quel che concerne la loro integrazione nelle reti e nelle bioregioni circostanti. Sebbene il quadro di riferimento offerto dall’IUCN sia tuttora fluido ed aperto, il Congresso di Durban non ha mancato di fissarne alcuni aspetti con un’apposita Raccomandazione (5.19: “sistema delle categorie IUCN per la gestione delle aree protette”). Può essere utile rivedere in questa luce le ipotesi avanzate nelle recenti ricerche per il Ministero dell’ambiente (Ced-Ppn, 2001a). Va infatti notato che l’IUCN mira ad ottenere “il riconoscimento intergovernativo del sistema di categorie come metodo internazionale per classificare le aree protette”, il che dovrebbe condurre ad eliminare le discordanze più clamorose delle classificazioni nazionali, salva la possibilità di specificazioni chiaramente esplicitate. Sotto il profilo del metodo, le ipotesi della ricerca ministeriale evidenziavano un duplice criterio:
- il criterio di scopo: ogni tipo di AP è definito in base al mix di obiettivi di gestione che lo caratterizzano;
- il criterio dinamico: l’attribuzione di un’AP ad una categoria consegue ad un processo di concertazione e ha carattere non definitivo. Il primo criterio sembra rafforzato dalla Raccomandazione, laddove propone di eliminare addirittura le titolazioni generiche lasciando che ogni categoria sia definita esclusivamente dagli obiettivi (punto 5d). Il secondo criterio, certamente più impegnativo, sembra da approfondire, visto che ci si pone la domanda se debba esserci una corrispondenza verificabile tra l’attribuzione e la gestione effettivamente poi praticata (Dudley, Stolton, 2003).
Sotto il profilo del contenuto, l’ipotesi della suddetta ricerca prevedeva in particolare l’introduzione nella classificazione nazionale di alcune categorie attualmente mancanti, nelle quali collocare o spostare una parte delle AP:
1. aree di “wilderness”
2. riserve marine (finora legislativamente separate)
3. paesaggi protetti
4. aree per la gestione sostenibile di determinate risorse
5. aree di riequilibrio ecologico.
La prima, la terza e la quarta sono già presenti nella classificazione IUCN: la loro introduzione nell’ordinamento italiano potrebbe consentire di far chiarezza, per es. ricollocando nella categoria dei paesaggi protetti (con un mix di obiettivi più appropriato) alcuni parchi regionali o individuando con criteri più confrontabili le aree “wilderness”. Per quanto riguarda le riserve marine, si avvertono anche a livello internazionale esigenze di maggior visibilità e organicità (punto 5f della Raccomandazione), mentre per le aree di riequilibrio ecologico (che potrebbero in contesto europeo avere un posto importante soprattutto a ridosso delle aree urbane e metropolitane, come pure in situazioni di degrado, quali quelle conseguenti ad attività estrattive) il problema sembra del tutto aperto. In conclusione, è opportuno riflettere sulla possibilità di un ripensamento dell’intero sistema nazionale per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio ambientale, in sintonia con quanto sta maturando a livello internazionale. L’adozione di un linguaggio comune, confrontabile con quello degli altri paesi, potrebbe facilitare la definizione di strategie d’azione condivise per lo spazio euro-mediterraneo, qualificando il ruolo che l’Italia è in grado di assumere in questo campo a livello internazionale. L’appuntamento di Bangkok può essere un’occasione per esporre le iniziative concrete che il nostro paese intende sviluppare a tal fine.

di Roberto Gambino