Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 42 - GIUGNO 2004

 



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COUNT-DOWN 2010

Una nuova politica per la tutela della biodiversità
nell’ambito della Scienza della Sostenibilità

L’impatto umano sulla Terra. Alla fine del febbraio 2003 le Nazioni Unite hanno reso noto il nuovo Rapporto relativo alle stime demografiche planetarie ed alle previsioni di crescita della popolazione umana nel futuro.
Si tratta del 18° Rapporto di questo tipo pubblicato dalle Nazioni Unite dal 1950 (negli ultimi tempi questo Rapporto ha cadenza biennale). Secondo i dati presentati, le stime di crescita della popolazione al 2050 prevedono, secondo la proiezione media (quella che generalmente ha le maggiori probabilità di verificarsi) una popolazione mondiale di 8,9 miliardi di esseri umani (ricordo che attualmente siamo più di 6,3 miliardi).
A questi dati sulla crescita della popolazione è necessario affiancare quelli derivanti dalle migliori ricerche internazionali relative allo studio dell’impatto della specie umana sui sistemi naturali.
Ormai il mondo scientifico ha raccolto una straordinaria massa di dati che dimostrano come l’impatto sul pianeta dei modelli di produzione e di consumo delle nostre società sia straordinariamente pesante e che la strada sin qui intrapresa deve essere modificata al più presto e in modo deciso.
Le ultime ricerche sulla trasformazione fisica della superficie terrestre forniscono dati preoccupanti: la pubblicazione di Sanderson e altri (2002) afferma che l’83% della superficie terrestre è in qualche modo influenzato da uno o più fattori utilizzati per calcolare l’Human Influence Index (l’Indice di Influenza Umana). La frammentazione degli ambienti, quel processo dinamico di origine antropica per il quale un’area naturale subisce una suddivisione in frammenti più o meno disgiunti e progressivamente più piccoli ed isolati, costituisce una drammatica minaccia per i processi ecologici ed evolutivi presenti negli ecosistemi. Nel lontano 1976, il WWF promosse il primo studio scientifico a lungo termine sulla foresta amazzonica per comprendere le possibilità di mantenere la vitalità ecologica, strutturale e funzionale, di una serie di frammenti di ambiente forestale di diversa superficie (da 0,1 a 10.000 ettari) a nord di Manaus. Il progetto oggi definito The Biological Dynamics of Forest Fragments Project, ha fornito un’incredibile quantità di insegnamenti per comprendere gli effetti della frammentazione degli habitat e prodotto un grande numero di ricerche molto importanti in questo ambito (vedasi l’ultimo libro di Bierregaard et al., 2001).
Da quando abbiamo inviato nello spazio i primi satelliti per rilevare i dati sullo stato della Terra, abbiamo acquisito una quantità ingente di informazioni che fanno luce sui risultati del nostro pesante impatto. Sin dal lancio del primo satellite nello spazio per rilevamenti meteorologici, nel 1960, le tecniche del remote sensing satellitare si sono affermate come un elemento indispensabile per condurre osservazioni della Terra nel tempo e ad ampia scala. Il 23 luglio 1972 fu lanciato il Landsat 1 della NASA, il primo satellite per monitorare la Terra.
Da allora sono stati lanciati nello spazio altri sei Landsat, l’ultimo dei quali nel 1999, mentre globalmente oggi circolano più di 60 satelliti che scrutano il nostro pianeta e collezionano immagini della sua superficie.
Nel 2003 la Divisione dell’Early Warning and Assessment dell’UNEP, il Programma ambientale delle Nazioni Unite, ha reso noto un rapporto affascinante che utilizza le immagini da satellite per documentare gli straordinari e preoccupanti cambiamenti ambientali della superficie del pianeta negli ultimi trent’anni.
Quanto è inoppugnabilmente documentato dai satelliti è ulteriormente confermato da tutte le ricerche degli scienziati che si occupano dei cambiamenti globali. Gli studiosi delle scienze del sistema Terra - Earth System Science - che studiano le dinamiche dei sistemi naturali, anche del passato, nonchè la dimensione e gli effetti dell’intervento della nostra specie sui sistemi naturali, hanno sinora raggiunto conclusioni molto chiare e condivise che sono state riassunte, a beneficio dell’intera opinione pubblica internazionale, nella cosiddetta Dichiarazione di Amsterdam del 2001.
Tale dichiarazione è stata siglata a conclusione della grande conferenza internazionale Challenges of a Changing Earth, tenutasi ad Amsterdam nel luglio 2001, e ha visto i quattro più grandi programmi di ricerca internazionali che operano in questo ambito, l’International Geosphere and Biosphere Programme (IGBP), l’International Human Dimensions Programme on Global Environmental Change (IHDP), il World Climate Research Programme (WCRP) e l’International Programme on Biodiversity (Diversitas), condividere le seguenti affermazioni:
“Le attività umane stanno influenzando l’ambiente del pianeta in molti modi che vanno ben oltre l’immissione in atmosfera di gas a effetto serra e i conseguenti cambiamenti climatici. I cambiamenti indotti dalle attività antropiche nel suolo, negli oceani, nell’atmosfera, nel ciclo idrologico e nei cicli biogeochimici dei principali elementi, oltre ai cambiamenti della biodiversità, sono oggi chiaramente identificabili rispetto alla variabilità naturale. Le attività antropiche sono perciò a tutti gli effetti comparabili, per intensità e scala spaziale di azione, alle grandi forze della natura. Molti di questi processi stanno aumentando di importanza e i cambiamenti globali sono già una realtà del tempo presente. […] I cambiamenti indotti dalle attività antropiche sono causa di molteplici effetti che si manifestano nel Sistema Terra in modo molto complesso.
Questi effetti interagiscono tra di loro e con altri cambiamenti a scala locale e regionale con andamenti multidimensionali difficili da interpretare ed ancor più da predire.
Per questo gli eventi inattesi abbondano.
La dinamica planetaria è caratterizzata da soglie critiche e cambiamenti inattesi.
Le attività antropiche possono, anche in modo non intenzionale, attivare questi cambiamenti con conseguenze dannose per l’ambiente planetario e le specie viventi.
Il Sistema Terra ha operato in stati diversi nel corso dell’ultimo mezzo milione di anni, a volte con transizioni improvvise (con tempi dell’ordine di un decennio o anche meno) all’interno di uno stesso stato.
Le attività antropiche hanno la capacità potenziale di fare transitare il Sistema Terra verso stati che possono dimostrarsi irreversibili e non adatti a supportare la vita umana e quella delle altre specie viventi.
La probabilità di un cambiamento inatteso nel funzionamento dell’ambiente terrestre non è ancora stata quantificata ma è tutt’altro che trascurabile. […] Per quanto riguarda alcuni importanti parametri ambientali il Sistema Terra si trova oggi ben al di là delle soglie prevedibili di variabilità naturale, per lo meno rispetto all’ultimo mezzo milione di anni. […] Il pianeta sta in questo momento operando in uno stato senza precedenti confrontabili. […] Il ritmo sempre più accelerato dei cambiamenti imposti dalle attività antropiche all’ambiente planetario non è oggi più sostenibile.
Il modo corrente di gestione del Sistema Terra non è più un’ opzione percorribile e deve essere al più presto sostituito con strategie di sviluppo sostenibile che possano preservare l’ambiente e, allo stesso tempo, perseguire obiettivi di sviluppo sociale ed economico”.
Tutte queste conclusioni, riassunte nella Dichiarazione di Amsterdam, sono ampiamente trattate nell’ultimo volume pubblicato dall’ IGBP e presentato presso la Royal Swedish Academy of Sciences nel gennaio 2004 (Steffen et al., 2004). Sono stati fatti ormai progressi veramente straordinari dalla prima conferenza internazionale che, nel 1955, vide grandi scienziati e studiosi di scienze sociali interrogarsi, a Princeton, sul tema “Man’s Role in Changing the Face of the Earth” (Il ruolo della specie umana nella modificazione della faccia della Terra).
Le relazioni e le discussioni presentate in quella sede furono pubblicate in un compendio di 1.200 pagine (Thomas, 1956) che documentano il primo panel interdisciplinare di scienziati che si sono interrogati sui problemi ambientali provocati dallo sviluppo umano.
Ormai la questione centrale che si devono porre tutti, in particolare i governanti dei paesi di tutto il mondo, è come riuscire a vivere sulla nostra Terra in maniera dignitosa ed equa per tutti gli esseri umani, senza distruggere irrimediabilmente i sistemi naturali da cui traiamo le risorse per vivere e senza oltrepassare la capacità di questi stessi sistemi di sopportare gli scarti ed i rifiuti provenienti dalle nostre attività produttive.
Questa priorità dovrebbe godere della massima attenzione e della massima focalizzazione da parte dei governi di tutto il mondo, certamente in maniera superiore a quanto avviene oggi e certamente con un investimento di capitale umano superiore a quello che ancora oggi viene destinato ad altri ambiti, quali ad esempio quello della sicurezza e degli armamenti.
Inoltre la politica dovrebbe far tesoro dei notevolissimi avanzamenti, sia teorici che pratici, che le innovative analisi integrate di numerose discipline, da quelle storiche a quelle sociali, da quelle economiche a quelle ecologiche, da quelle delle analisi dei sistemi a quelle delle scienze del cambiamento globale ci stanno fornendo; cosa, purtroppo, che oggi non ha luogo se non in proporzioni insignificanti.
Oggi quindi alla priorità dell’azione politica si pone l’obiettivo primario di:
- comprendere bene l’insieme di relazioni che la nostra specie ha con tutto il resto dei sistemi viventi e dei sistemi non viventi sul nostro pianeta, anche in una prospettiva preistorica e storica;
- comprendere bene gli effetti del nostro intervento sui sistemi naturali, nel tempo e nello spazio;
- comprendere bene le strade che possono essere intraprese per modificare la situazione attuale che l’intera comunità scientifica internazionale ritiene essere molto critica (secondo alcuni addirittura oltre la soglia della reversibilità).
La sottolineatura della gravità degli effetti provocati dall’intervento della nostra specie, benchè essa stessa parte integrante della natura, sui sistemi naturali è ormai patrimonio comune della comunità scientifica internazionale. Tutti i più importanti studiosi sono d’accordo sul fatto che stiamo realizzando un grande e continuo esperimento nei confronti della natura di cui non siamo in grado di conoscere le conseguenze.
Il WWF dal 1999 ha avviato la pubblicazione di un rapporto dal titolo “Living Planet Report”, in collaborazione con il World Conservation Monitoring Centre dell’UNEP ed altre istituzioni scientifiche.
Nel settembre 2004 sarà pubblicato il nuovo rapporto. Nell’ultimo reso noto, quello del 2002, applicando il metodo dell’impronta ecologica (Wackernagel e Rees, 1996) a tutti i paesi del mondo, il rapporto fa presente che l’impronta ecologica mondiale umana è cresciuta dell’80% tra il 1961 ed il 1999, di un livello del 20% superiore alle capacità produttive dei sistemi naturali che sono presi in considerazione nel calcolo dell’impronta ecologica stessa (WWF, 2002, Wackernagel et al., 2002). Il messaggio centrale del rapporto è che il consumo di risorse naturali può eccedere la capacità produttiva dei sistemi naturali del pianeta intaccando il capitale naturale del Terra, ma ciò non può essere sostenuto indefinitamente.

Cosa significa sostenibilità dello sviluppo
Oggi abbiamo una sorta di parola d’ordine che, al solo utilizzarla, sembra poter fornire la soluzione ai tanti e gravi problemi esistenti nel rapporto tra i sistemi naturali e la nostra specie: si tratta dello “sviluppo sostenibile”.
È un’espressione ormai abbondantemente abusata in ogni contesto, soprattutto di tipo politico ed economico.
Mantenere nella vaghezza i pur difficilissimi “contorni” ed i significati concreti di cosa possa voler dire attuare la sostenibilità nei nostri processi di sviluppo significa procedere ad un’azione ingiustificata scientificamente e scorretta dal punto di vista sociale, economico e politico. Infatti gli avanzamenti teorici ed operativi di tante discipline, alcune delle quali specificatamente dedicate ad approfondire la sostenibilità (come avviene per l’economia ecologica, Ecological Economics), non consentono più di essere troppo generici e vaghi nel trattare di questi problemi.
Diventa pertanto indispensabile avviare un un’operazione profonda, documentata e critica, di vera e propria alfabetizzazione del concetto di sostenibilità dello sviluppo, con la chiara consapevolezza di tutti i limiti, le incertezze e la complessità esistenti su questa tematica.
Oggi gli avanzamenti concettuali ed operativi sin qui acquisiti sulla sostenibilità a livello dei migliori centri di ricerca interdisciplinari internazionali, si riferiscono inevitabilmente all’analisi dei sistemi complessi e cioè ai sistemi aperti dal punto di vista termodinamico, caratterizzati dalla presenza di feedback. Questi avanzamenti hanno portato all’individuazione di quella che oggi viene definita Sustainability Science, la scienza della sostenibilità (vedasi Kates et al, 2001).
Nel 2002 sono venute a mancare due figure straordinarie nelle scienze ambientali, i fratelli Eugene ed Howard Odum che, nella loro lunga carriera accademica ci hanno fornito approfondimenti scientifici, analisi e chiavi di lettura del mondo di grandissimo valore per l’avanzamento della nostra conoscenza sulla complessa realtà che ci circonda.
I fratelli Odum sono stati grandi protagonisti delle scienze ecologiche, hanno brillantemente analizzato le realtà ambientali come sistemi e sono stati veri pionieri di molti concetti ed approcci che oggi sono diventati centrali nella Sustainability Science.
Infatti da molte intuizioni dei fratelli Odum e di altri, si è andato formando il concetto di sistema complesso adattativo che deve molto a studiosi quali John Holland e Stuart Kauffman (che si sono poi riuniti nel ben noto Istituto di Santa Fè nel New Mexico che studia proprio i sistemi adattativi complessi - vedasi, tra gli altri, Gell-Mann, 1996 e Waldrop, 1995). I sistemi adattativi complessi sono sistemi in grado di acquisire informazioni sull’ambiente che li circonda e sulle proprie interazioni con l’ambiente stesso.
La teoria dei sistemi adattativi complessi propone una visione del mondo estremamente dinamica, flessibile, adattativa. Per comprendere appieno le sfide con le quali l’umanità deve confrontarsi sono necessarie nuove visioni, concetti e strumenti relativi all’analisi dei sistemi complessi e le loro implicazioni per la sostenibilità che si stanno sviluppando negli ultimi decenni e che stanno sempre più influenzando le scienze naturali e quelle umane, sociali ed economiche.
La teoria e la prassi dell’analisi dei sistemi adattativi complessi stanno fornendo strumenti fondamentali per la comprensione dei cambiamenti globali, dell’analisi storica, dell’analisi dell’intervento umano, degli assessment delle aree a rischio, dei legami tra sistemi ecologici, sociali ed economici per concretizzare politiche innovative per il futuro (vedasi, ad esempio, Gunderson ed Holling, 2001 e Berkes, Colding e Folke, 2002). Queste analisi sono anche alla base della nascita e del fecondo lavoro della Resilience Alliance, un consorzio di istituti e gruppi scientifici di ricerca autorevoli, focalizzati sulla sostenibilita’ che ha anche predisposto un interessante documento per il Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile del 2002 (vedasi Folke et al., 2002).
Valutare ed analizzare la sostenibilità nel contesto dei sistemi adattativi complessi richiede quindi nuovi modi di pensare. Le visioni precedenti di una natura ed una società come sistemi vicini all’equilibrio sono stati rimpiazzati da visioni dinamiche che enfatizzano le complesse relazioni non lineari, i continui mutamenti, e che si confronta con le discontinuità e le incertezze di shock sinergici. Pertanto una sfida fondamentale, in questo contesto, è quella di costruire conoscenza, capacità di apprendimento ed adattamento nelle istituzioni e nelle strutture che devono gestire localmente, regionalmente, nazionalmente, globalmente gli ecosistemi per cercare di mantenere la resilienza dei sistemi naturali ed umani e di abbassare al minimo la vulnerabilità di questi sistemi.
La Sustainability Science ha prodotto approfondite analisi sull’utilizzo di nuovi indicatori per misurare la ricchezza, il benessere e la sostenibilità complessiva dei sistemi naturali e di quelli umani (la letteratura su questo fronte è veramente sterminata).
Il concetto ecologico di resilienza che è stato pionieristicamente introdotto dall’ecologo Crawford Holling sin dai primi anni Settanta (vedasi Holling, 1973), definisce la capacità dei sistemi naturali di assorbire gli shock mantenendo le proprie funzioni ed è misurata dal grado di disturbo che un sistema naturale può assorbire prima che il sistema stesso cambi la sua struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. Gli ecosistemi, ricorda Holling, hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente.
La vulnerabilità ha luogo quando un sistema ecologico o sociale perde le sue capacità di resilienza divenendo vulnerabile al mutamento che precedentemente poteva essere assorbito.
In un sistema resiliente il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità ed innovazione.
In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti.
Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti.
Nella gestione dei sistemi viventi e della loro complessa interazione con i sistemi sociali ed economici, diventano sempre più interessanti i principi ispiratori dell’ Adaptive Management, anch’esso ispirato da opere pionieristiche di Crawford Holling e Carl Walters negli anni Settanta (alle quali si sono aggiunte numerose riflessioni in altri campi disciplinari).
L’Adaptive Management può essere definito un processo sistemico destinato continuamente a migliorare le proprie capacità gestionali, politiche e pratiche, adattandosi ed apprendendo continuamente dagli output dei propri programmi operativi (vedasi Holling, 1978 ed Oglethorpe, 2003).
È basato sugli avanzamenti delle scienze ecologiche, delle analisi dei sistemi adattativi complessi, delle scienze dell’apprendimento nonchè della moderna epistemologia.
Come si può vedere da queste brevi note, molto parziali e certamente generiche, gli avanzamenti concettuali ed operativi della sostenibilità sono estremamente notevoli e possono fornire importanti stimoli a chiunque operi nel concreto per mettere in pratica la sostenibilità.
È fondamentale essere informati su questi avanzamenti e cercare concretamente di praticarli.
In questo modo si potranno senz’altro ottenere risultati migliori per costruire il nostro futuro.

Biodiversità ed aree protette nel nuovo millennio
Il lavoro “visionario” dei moderni biologi della conservazione sta cercando di invertire l’attuale tendenza distruttiva, facendo capire la straordinaria importanza che riveste il tessuto vitale per la nostra stessa sopravvivenza e fornendo strumenti operativi per cambiare rotta.
Con l’ingresso nel nuovo millennio e l’ avvio del nuovo secolo la comunità internazionale ha cercato di raccogliere queste sfide individuando dei traguardi comuni da raggiungere entro dei tempi dati, per sforzarsi di migliorare complessivamente la situazione di disuguaglianza sociale e di deterioramento ambientale presente sul nostro pianeta.
Non a caso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2000 ha individuato ed approvato dei Millennium Goals: si tratta di 8 obiettivi che riguardano vari temi come l’eliminazione della povertà e l’applicazione di concrete politiche di sostenibilità del nostro sviluppo.
Nel 2002 nel Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg i governi di tutto il mondo hanno approvato un Piano di Azione in cui si legano chiaramente obiettivi di sostenibilità ambientale a quelli economici e sociali. Si è chiaramente esplicitato che, entro il 2010, bisognerà significativamente invertire il tasso di distruzione della biodiversità sul nostro pianeta.
È questo un impegno importantissimo che ci obbliga a rivedere le politiche internazionali e nazionali sulla tutela della biodiversità, anche alla luce dei migliori avanzamenti delle scienze della conservazione (biologia della conservazione, ecologia del paesaggio, scienza della sostenibilità, ecc.) e degli ormai ineludibili ed indispensabili incroci con le discipline urbanistiche e di pianificazione territoriale e le conseguenti esplicitazioni normative. L’obiettivo del 2010 è fortemente richiamato dal VI piano di azione ambientale dell’Unione Europea e formalizzato in sede europea, da parte del Consiglio Europeo, con un forte rafforzamento del target di Johannesburg: per l’Unione Europea non si tratta solo “di ridurre significativamente” ma “di fermare” il tasso di perdita progressiva della biodiversità sul nostro pianeta. Si è quindi avviato un vero e proprio Count-down per il 2010.
La Convenzione sulla Biodiversità, entrata in vigore nel 1993, è divenuta strumento centrale per fornire i passi concreti necessari a rendere operativo il target di Johannesburg.
Nella 7° ed ultima Conferenza delle Parti della Convenzione (Kuala Lampur, 2004) sono state approvate una nuova risoluzione sull’Ecosystem Approach, l’approccio ecosistemico transdisciplinare di intervento operativo per la difesa della biodiversità che tiene debitamente conto dell’equità sociale su cui torneremo dopo e la risoluzione sul Programma di lavoro per le aree protette, che riprende i contenuti del piano di azione prodotto dalla V Conferenza mondiale sulle aree protette di Durban del 2003.
La politica delle aree protette resta un elemento fondamentale per la tutela della biodiversità ma tale politica va adattata alla luce delle più avanzate conoscenze scientifiche che ci inducono a ragionare su ambiti di tutela vasti ed interconnessi che tengono fortemente in conto i temi chiave legati alla biodiversità, quali i fenomeni negativi di frammentazione degli habitat e la necessità di operare ricreando connettività ecosistemica e tessendo reti ecologiche.
In particolare durante il decennio degli anni Novanta si sono sviluppate nuove idee e nuovi framework teorici per la conservazione della biodiversità. Questi approcci si presentano sotto varie terminologie ma condividono un set di elementi comuni quali:
- l’adozione di ampie scale di intervento, necessarie per assicurare la vitalità a lungo termine degli ecosistemi ed il mantenimento dei processi ecologici ed evolutivi che creano e sostengono la biodiversità.
Lo scopo della conservazione si è quindi sempre più spostato dai progetti tradizionali, di piccole dimensioni, a quelli ad ambito di paesaggio e di ecoregione;
- la formulazione di obiettivi più ambiziosi che spesso richiedono un commitment ed uno sforzo più ampio di conservazione;
- un approccio proattivo, non solo reattivo, legato alla difesa delle ultime aree naturali, ma capace di lavorare su di una coraggiosa visione per il futuro;
- il coinvolgimento del maggior numero possibile di stakeholders nel lavoro di conservazione e la ricerca di un ampio consenso sugli obiettivi di conservazione.
Negli ultimi quindici anni gli studiosi ci hanno fornito interessantissime informazioni, dati e chiavi di lettura del grande valore ecologico, sociale ed economico delle funzioni esercitate dai sistemi naturali che, normalmente, nessuna economia, sia essa capitalista, socialista, fascista o comunista, ha mai concretamente considerato. Si è andati anche oltre: numerosi ecologi ed economisti che si occupano della recente e affascinante disciplina dell’ecologia economica, hanno provato persino ad individuare una valutazione economica di quelli che sono stati definiti “servizi degli ecosistemi”, aprendo un’affascinante dibattito culturale e scientifico che sta producendo avanzamenti di grande interesse.
Il valore che i nostri sistemi politici ed economici devono attribuire alle funzioni ed ai servizi degli ecosistemi sta diventando quindi sempre più un obiettivo fondamentale per il nostro futuro. La valutazione di un team di famosi scienziati pubblicata su “Science” nel 2002, prima del Summit di Johannesburg (vedasi Balmford et al., 2002) ci ricorda che un network effettivo di aree protette, terrestri e marine, costerebbe circa 45 miliardi di dollari annui, mentre i beni ed i servizi da esso erogati per l’umanità presentano una valutazione economica che fluttua tra i 4.400 ed i 5.200 miliardi di dollari annui.
Da quando il segretario generale delle Nazioni Unite il 5 giugno 2001, in occasione della giornata mondiale dell’ambiente, ha lanciato il progetto del Millennium Ecosystem Assessment, centinaia di scienziati di fama internazionale stanno alacremente lavorando per produrre, nel 2005, un rapporto che ci fornisca un riassunto dello stato di conoscenze sin qui acquisite sui sistemi naturali del nostro pianeta, sulla loro evoluzione e sulla loro dinamica, nonchè un’analisi di come potranno evolversi nel futuro, tenendo conto della prevista sempre maggiore interazione e pressione umana, ed una serie di risposte concrete ed operative da dare, per avviare i nostri modelli sociali ed economici su sentieri di sostenibilità dei sistemi naturali. È già stato pubblicato un primo rapporto dell’Assessment nel 2003 (Millennium Ecosystems Assessment, 2003). Avremo quindi tutti e soprattutto i politici ed i decisori, per la prima volta, a disposizione un rapporto sullo stato di salute degli ecosistemi planetari che consentono la nostra stessa esistenza, con delle indicazioni operative di come cambiare rotta.
È di tutta evidenza che uno dei meccanismi più utili per ottenere questo obiettivo è quello di realizzare un significativo sistema di aree protette, possibilmente connesse fra di loro per creare un vero e proprio network ecologico che permette alla natura di mantenere le sue potenzialità evolutive.
Il V Congresso Mondiale delle aree protette tenutosi a Durban nel 2003 ha quindi indicato un piano di azione per far sì che tutti i governi del mondo si diano da fare per ottemperare l’obiettivo del 2010 che si è poi tradotto, come abbiamo già ricordato, in un programma di lavoro nella già citata ultima Conferenza delle Parti della Convenzione mondiale sulla Biodiversità.
Entro il 2010 quindi bisogna raggiungere l’obiettivo di stabilire e gestire efficacemente un sistema nazionale e regionale, comprensivo ed ecologicamente rappresentativo, di aree protette (per le aree protette marine il target è dilatato al 2012).
L’ultima Lista delle Nazioni Unite delle aree protette del mondo, presentata proprio al Congresso di Durban, ci indica un numero di 102.102 aree protette che, globalmente, coprono più di 18.8 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre, pari al 12.65% (un’area grande quanto la Cina, l’Asia del Sud e l’Asia del sudest). Le aree marine protette coprono soltanto una superficie di 1.64 milioni di chilometri quadrati (l’area marina protetta più estesa è la Grande barriera corallina australiana con una superficie di 345.400 chilometri quadrati) (vedasi Chape et al., 2003).
Indubbiamente dal primo congresso mondiale sulle aree protette tenutosi a Seattle nel 1962, è stata fatta una lunga strada nell’incrementare la superficie mondiale di aree protette (allora erano 9.241 aree protette e coprivano 2.4 milioni di kmq. di superficie) anche se non abbiamo, purtroppo, una diretta ed automatica equivalenza area protetta = gestione efficace ed efficiente. Sappiamo bene che non basta dichiarare un’area come protetta per poterla ritenere, tout court, fuori pericolo. Guerre, bracconaggio, specie aliene introdotte, deforestazione, miniere, infrastrutture, cambiamenti climatici da noi indotti, ecc. minano quotidianamente tantissime aree protette in tutto il mondo e spesso ne compromettono il loro futuro.
La rappresentatività ecologica delle aree protette, vale a dire il fatto che esse siano presenti in maniera significativa, in tutti gli ambienti del nostro pianeta dimostra ancora diverse lacune, quali, ad esempio la scarsa rappresentatività dei sistemi lacustri e delle praterie temperate.
Da vari anni la biologia della conservazione pone la sua attenzione sulla gestione proattiva di vasti ambiti di territorio dove avviare processi di connettività ecologica e di concretizzazione di reti ecologiche.
Il WWF, già dalla fine degli anni Ottanta, ha avviato un lavoro puntuale e concreto sull’individuazione delle cosidette ecoregioni prioritarie del pianeta (sono 238 tra quelle terrestri, di acqua dolce e marine) dopo aver mappato le ecoregioni di tutto il mondo, sottoponendole ad un “setaccio” di due set di indicatori (il Biological Distinctiveness Index ed il Conservation Status Index) per individuare, appunto, quelle prioritarie. Viene definita Ecoregione, un’unità terrestre e/o marina relativamente estesa che contiene un insieme distinto di comunità naturali e condivide la maggior parte delle specie, delle dinamiche e delle condizioni ecologiche.
Per le ecoregioni prioritarie il WWF si muove, da facilitatore, per mobilitare i diversi stakeholders (pubblici, privati e della società civile) e pianificare le iniziative da intraprendere. Moltissimi esempi concreti di approccio ecoregionale stanno consolidandosi in varie parti del mondo (vedasi Bennett, 2004). In Italia si sta lavorando sull’ecoregione alpina e quella mediterranea e, da noi, l’approccio ecoregionale può e deve costituire un complemento all’importante esperienza italiana della pianificazione dei sistemi di area vasta (quali APE, Alpi, ITACA e CIP). Per aprire un ampio e costruttivo confronto su questi temi a livello sia teorico che operativo, il WWF, la Provincia di Roma, l’Unione Province d’Italia con la collaborazione della Società Italiana di Ecologia, dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e dell’Associazione Analisti Ambientali, ha organizzato un fruttuoso Convegno nazionale dal titolo “Ecoregioni e reti ecologiche: la pianificazione incontra la conservazione”, tenutosi a Roma, alla fine del maggio 2004, al quale hanno dato il loro contributo i migliori studiosi italiani che si occupano di queste problematiche. Il Convegno si è concluso con una mozione finale che fa il punto sul tema, individuando una serie di esigenze molto significative (gli Atti saranno presto pubblicati).
Il Convegno fa presente che il quadro di profonda complessità che emerge dalla relazione, dal conflitto e dall’interferenza che le iniziative di sviluppo insediativo producono verso le strutture ecosistemiche pretende l’elaborazione di metodi innovativi di conoscenza e di progetto che possono utilizzare solamente in parte le strumentazioni tradizionali già a disposizione degli operatori tecnico-scientifici dei settori specialistici.
L’introduzione e l’affermazione del concetto di rete ecologica, nelle dimensioni e nelle accezioni pur allargate a cui la cultura scientifica contemporanea si riferisce, ha bisogno di una netta virata nei canoni di conduzione dei processi di pianificazione e di progetto del territorio, nonché di allestimento e di accesso alle informazioni. L’utilizzazione di strumenti ad alto contenuto tecnologico, con uso avanzato di scenari e di modelli, di simulazione di effetti e di alternative di prospettiva, di controllo adattativo nel tempo dei risultati è di sostanziale importanza per attivare e gestire i criteri complessi del rapporto tra la sfera insediativa e quella naturale.
Sempre nell’ambito della Convenzione sulla Biodiversità, come abbiamo già ricordato, sono stati fatti ulteriori passi in avanti per trovare metodologie concrete da seguire per la tutela e gestione della biodiversità che vanno anche nella direzione di quanto indicato dal Convegno ricordato.
Tra queste è necessario citare l’Ecosystem Approach approvato con la decisione V/6 dalla 5° Conferenza delle Parti della Convenzione tenutasi a maggio del 2000 che è seguito, tra l’altro, anche nei processi ecoregionali del WWF. L’Ecosystem Approach è definito come una strategia per la gestione della terra, dell’acqua e delle risorse viventi che promuova la conservazione e l’uso sostenibile in un modo equo.
Viene incontro alla soddisfazione dei tre principali obiettivi della Convenzione sulla Biodiversità cioè la conservazione, l’uso sostenibile ed il beneficio equo da condividere nell’utilizzo delle risorse genetiche, mette al centro della gestione della biodiversità il ruolo degli esseri umani, estende la gestione della biodiversità oltre i confini delle aree protette delle quali riconosce un ruolo vitale nel soddisfare gli obiettivi della Convenzione stessa e si apre ad un approccio ampio rispetto agli interessi settoriali.
L’Ecosystem Approach viene articolato in 12 principi, tra i quali ricordo, ad esempio, il principio 2 che afferma che la gestione dovrebbe essere decentrata al livello più basso appropriato, il principio 5 che afferma che la conservazione della struttura e delle funzioni degli ecosistemi, per il mantenimento dei servizi forniti dagli ecosistemi, dovrebbe essere un target prioritario dell’Ecosystem Approach, il principio 9 che afferma che la gestione deve riconoscere che il cambiamento è inevitabile etc.
L’Ecosystem Approach, attuato in diversi paesi del mondo, è stato sottoposto ad attenta valutazione ed i suoi principi sono stati rivisti della decisione VII/11 della 7° conferenza delle parti della Convenzione tenutasi proprio nel febbraio 2004 a Kuala Lampur (vedasi il sito web della Convenzione http://www.biodiv.org e le tante analisi e ricerche svolte sul tema (ad esempio Smith e Maltby, 2003).
C’è tantissimo da fare per consentire alla natura di mantenere vive le sue opzioni evolutive e le sue dinamiche ecologiche che sono anche alla base della nostra sopravvivenza e dell’alleviamento della povertà per centinaia di milioni di esseri umani sulla Terra. La nostra specie deve capire che solo vivendo in simbiosi con la natura si assicura il proprio futuro.

di Gianfranco Bologna