Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 43 - OTTOBRE 2004

 




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PER SUPERARE OGNI STATO D'ASSEDIO (E DI... QUIESCENZA)

Intervista a Valeriano Trubbiani

Lo scultore Valeriano Trubbiani nasce a Macerata, nel 1937. Vive e lavora in Ancona. Dal 1958 comincia a dipanarsi il filo rosso dei suoi racconti per cicli. Dopo le "macchine belliche" aggressive compare una singolare immagine umana e, più ricorrente, un "bestiario" di animali colti in disagi esistenziali e sociali. La fitta popolazione, ora sofferente ora appagante, si esprime in disegni, sculture, installazioni e film.
Ha partecipato a tre biennali di Venezia (1966, 1972, 1976). Ha esposto in numerosi Paesi i cui musei conservano gruppi di sue opere: Stati Uniti, Olanda, Francia, Giappone. Ha collaborato alla scenografia del film "E la nave va" di Federico Fellini. È presente nel romanzo del Nobel José Saramago "Manuale di pittura e calligrafia". Il suo profilo di scultore compare ripetutamente nell'Enciclopedia Italiana Treccani. Recentemente ha esposto alla IX Biennale Internazionale di Scultura a Carrara (1998), alla XIII Quadriennale di Roma (1999), al Miyazaki Art Museum (Giappone 2000), al Seoul Art Center (Corea), al Museo di Istambul, al The Museum of Fine Arts di Gifu (Giappone, 2002), al Museo Canonica di Roma, al Teatro delle Muse di Ancona, per il quale ha ideato e realizzato un innovativo "sipario tagliafuoco" (2003) e al Palazzo della Signoria di Jesi (2004) con una mostra dedicata al "mare scolpito" che ha chiuso i battenti nell'ottobre di quest'anno.
Il mio personale rapporto con Valeriano Trubbiani risale almeno al 1970, e ai sei intensi anni nei quali condividemmo l'esperienza della rivista di cultura regionale "Marche oggi", che io dirigevo e della quale Valeriano Trubbiani era responsabile della sezione arti figurative. Fu, quella, una esperienza non effimera. Credemmo di poter costruire una sorta di "localismo cosmopolita" a partire dalla riscoperta delle nostre radici, ma senza nulla concedere alle semplificazioni tipo "piccolo è bello" e alle altre, quelle di "nostra patria è il mondo intero". Qualcosa da quella esperienza è certamente nato, mentre qualcos'altro è di sicuro morto ed elaborato.
Di certo l'antico rapporto non si è mai interrotto, e mi consente di aggirarmi tra le opere che si allineano gomito a gomito nello studio alla Baraccola come ci si muove tra vec chie conoscenze che non si sono mai persi di vista. Le domande rimbalzano su sculture che ho visto in giro per il mondo, accompagnando le avventure culturali di Valeriano. Dagli allestimenti di Volterra a quelli di Recanati, che si interrogavano su Giacomo Leopardi. Dalle mostre alla Galleria La Margherita nella romana via Giulia, a molti altri prestigiosi palcoscenici. E le risposte sembrano venire non solo dalla voce dell'artista, ma anche dalle bocche dei suoi animali incastrati in marchingegni più forti di loro stessi.

"Nei tuoi disegni hai fatto crollare giù dal colle Guasco l'anconetana cattedrale di San Ciriaco lasciando il cucuzzolo vuoto e spelacchiato. Le macerie restano a pelo dell'acqua, mentre più sotto nuota un caimano.
Io, che a volte cerco di capire dove sta affogando il mondo spinto dalla legge dell'entropia e da altre leggi vere o presunte che ci impongono di arricchirci rapidamente e selvaggiamente, avverto il bisogno di una nuova misura delle passioni e delle pulsioni. Nuove coordinate dell'idea di ricchezza. Il cielo sopra il Guasco, e lo specchio d'acqua antistante dove il sole nasce e tramonta, entro quali nuove coordinate potranno contenere un mondo senza volgarità, senza superfetazioni, riportato naturalmente alla sua naturale naturalità?"

"Assai spesso, nel corso degli anni ottanta, ho disegnato l'antica acropoli di Ancona, appunto il Colle Guasco (ove sopravvive fortunosamente malgrado gli insulti delle calamità naturali e di quelle innaturali perpetrate dall'uomo con le guerre e le sciatterie, la straordinaria cattedrale romanica di San Ciriaco) in stato di sofferente crisi e posto a dialettica frontale con il sottostante enclave del mare Adriatico, qui rifugio o porto di traghettazioni e transiti. Immaginai crolli e slittamenti, incendi e devastazioni e addirittura razzie di enormi topi (con i relativi significati impliciti) con conseguente fuga persino dei leoni stilofori che sorreggono il portico. L'immagine, soltanto parzialmente fantastica e visionaria, mi suggerì anche un pezzullo ("Lettera per lord Edward Bulwer-Lytton") pubblicato nel volume "Parola di scultore" (Jaka Book, 2003).

Quindi un confronto tra l'antico colle simbolo della pervicace resistenza della natura e il lambente e languente mare che non essendo più tale non ospita più la florida e sana popolazione ittica bensì una animaleria insolita e impropria, appunto: gli squali, i coccodrilli, e gli ippopotami. Ad un tiro di schioppo e nel 1700 l'architetto Vanvitelli costruì sul mare il Lazzaretto, cioè un ospedale per lebbrosi e per malattie infettive ed epidemiche. Mi chiedo soltanto quanto oggi, nel ricordo dell'antica salubrità del sito e perpetuando l'uso del manufatto, possa confortare terapie curative o accelerare definitivamente risoluzioni ferali. Un mondo senza volgarità è improponibile, almeno nel contingente, semplicemente perché all'antica e misericordiosa protezione della persona e dei suoi sentimenti, si è sostituito la più ottusa concupiscenza del denaro in nome del quale si compie disinvoltamente qualsiasi efferatezza, dove la vittima sacrificale prescelta è l'integrità e la conservazione ambientale.

Hai dedicato la tua ultima grande mostra di Jesi al mare. Hai scritto di desiderare, anzi, di avere "tanto desiderio" di rileggere la natura. Di sentire il dovere di affogare finti o irrilevanti problemi nell'acqua del mare. Quell'acqua é un confine, una opportunità, uno spazio mitico, un collegamento con ogni cultura adriatica. Ma il progresso senza se e senza ma ha distrutto i porti, i fiumi navigabili, le dune, le spiagge. Sono arrivati i barbari, e neppure il mare è più amico della costa. Scolpisce disastri, scortica inquietudini dove c'erano riviere, ninfe e fontanili oggi c'è erosione e degrado.

Come è possibile fronteggiare questi mostri, che non sono clamorosi (e quindi circoscritti e denunciabili) come lo fu il Fuenti, ma che sbriciolano lentamente il paesaggio, la linea di costa di un tempo, sostituendola con crepe, dissesti e voragini, senza che nessuno si agiti?

Nessuno potrà mai camminare sull'acqua. Esclusa una persona. Se il mare è sfuggente, una volta era anche immodificabile, così come ora risulta immedicabile. Il mare dorme sempre con un occhio solo e si avvita su se stesso, senza tregua, e non sa dove andare perché non può invecchiare, ma ogni tanto soffre di malinconia poiché, in preda alla nostalgia del tempo, talvolta avverte una punta di stanchezza dovendo sopportare reiterate aggressioni perpetrate dall'uomo. Mare, quindi, come ricettacolo dei perfidi malumori di un presunto progresso. Quale colpa o privilegio possiede il mare per essere condannato a diventare cloaca? Esso controlla e subisce pleniluni e procellose procelle e mira le stelle, il sole, le nuvole, il vento e la pioggia di cui si nutre. Potrebbe essere un idillio se non arrivasse poi l'improvvida mano dell'uomo che lo avvelena. Poi, paziente e giustamente intollerante, riversa tutto sulla terra stessa, sua eterna nemica o, di converso, sua ex amica. Ecco, ricucire il supporto tra l'elemento acquoreo e le orlature armoniose della terra che dovrebbe proteggerlo e custodirlo, anziché violentarlo. La terra dovrebbe sentirsi consolata dalle languide carezze del mare. Niente è più dolce e languido del tenero andirivieni musicale della calma piatta che ipnotizza. Ma niente è più terrificante di un mare arrabbiato che si ribella.

Hai dialogato con Federico Fellini per tutto il tempo di incubazione e poi di realizzazione del film "E la nave, va". Fornendo tra l'altro il modellino della corazzata e il famoso rinoceronte, che nel finale del libro e del film sarà l'unico sopravvissuto al naufragio, assieme al giornalista osservatore.

Ancora una volta si tratta di più metafore che agiscono sull'Adriatico, e che si intrecciano e si impigliano nei temi della tutela e della conservazione. Il porto dove il rinoceronte fa ritorno è quello di Ancona, il disastro e l'affondamento nascono dalla guerra e dallo scontro tra etnie e culture.

Ma non può essere un caso che nella stiva si conservi un animale carico di simboli anche letterari, e che la sola speranza di quel film sia la rimessa in campo dell'antico animale coriaceo e fuori posto. Di cosa parla questa parte di favola? E cosa ha raccontato alla tua particolare sensibilità?

Nel contesto favolistico e visionario di Fellini ecco arrivare, nel 1983, un film almeno in apparenza sereno, ma struggente e poeticissimo. Il primo film della terza fase, non certamente senile, che deluderà chi attendeva ancora rimembranze riminesi o romane. E soltanto la pigrizia mentale proibirà una corretta lettura di un "viaggio" ambientato intorno al 1914. Un viaggio per mare, che si concluderà in prossimità di una presunta isola di Erimo, al largo del mare Adriatico, tra la Croazia e Ancona, per esempio. Il viaggio del transatlantico "Gloria N." è popolato da una variegata umanità intieramente adagiata sulla musica e sull'opera lirica.

E si canta, ma le voci sono sovrapposte. E si naviga, ma sopra una grande piattaforma oscillante. E il mare non è acquoreo, ma di plastica nera. Niente è reale. Due mezzosoprano godendosi il tramonto su quel mare, esclamano: "Ah, che meraviglia! Pare finto!" Un Rinoceronte femmina malato d'amore (ma è di gommapiuma e catrame) langue in una stalla in attesa di essere sollevato dal bansigo per una doccia rigenerante. (Ogni nave porta sempre con se un Rinoceronte ... commenta beffardo il regista). Ma dove sta andando tutta quella bella gente? Semplicemente ad un funerale. Poi compare all'orizzonte una minacciosa e terrificante Corazzata Austroungarica (... deve far pensare ad una fortezza, una muraglia, la torre di Babele, un ammasso di nuvole, e deve esprimere una potenza truculenta, arrogante e ottusa ... mi dice e scrive Fellini). Ma la divertita soavità musicale del film progressivamente cambia registro e il clima diventa drammatico prima e tragico poi. Il transatlantico cola a picco e così la scialuppa dei naufraghi e persino la corazzata, esplodendo, scompare nel mare di plastica, mentre risuonano i cori del "va pensiero sulla ali dorate". Fellini stesso ammette, mostrando tutti gli effetti speciali, che tutto il film può essere una finzione, una favola, una leggenda, forse come la vita stessa. La cronaca del viaggio è raccontata dal giornalista Orlando, l'unico superstite che con il Rinoceronte attracca al porto di Ancona. L'animale è malato d'amore e parrebbe non essersi preoccupato troppo della tragedia avvenuta in alto mare, anzi sornione bruca erbetta e produce ottimo latte. Ecco, in una sublime metafora si sono proprio fronteggiati l'arroganza e il nichilismo della guerra con l'amore espresso da un ruvido animale. Il mondo zoomorfo nella sua candida e istintuale innocenza prevale sempre sulle pianificate e perfide malvagità delle persone. E le profezie: il mondo artificiale, persino la luna e il sole, il mare e le persone: di lì a pochi anni nella ex Jugoslavia esploderà tutto.

Il tuo rapporto con quello che gli ecologisti chiamano biodiversità è noto. I tuoi animali sono minacciati da macchine crudeli, da pastoie che li imprigionano, ma tu ci tieni a mettere precisi confini a quelle presunte violenze. Hai scritto che non si tratta di torture in atto ma di purgatori sospesi. Da questa evidente coscienza, e forse denuncia, della violenza che la storia e la civiltà esercitano sulla vitalità, a me pare che arrivi un suono molto familiare, un rimbombo, una enfatizzazione dei dolori delle specie (e delle culture) che sono a rischio di estinzione per colpa dell'uomo e delle sue stupide arroganze. O sbaglio?

Nel contesto febbrile vagamente teatrale (o teatrabile) degli anni settanta il meccanismo tecnologico reclama perentoriamente la comparsa di una immagine-vittima "figurativa", che sarà poi quasi sempre l'animale (quello dei boschi, dei parchi, della campagna rurale e quindi della savana). L'innocente protagonista della messa in scena. Questi è come inseguito e braccato, catturato e bloccato da ipotetici meccanismi sacrificali che tuttavia mai giustiziano, feriscono, offendono. Chissà, forse si trattò di una vaga metafora della morte o meglio della paura di perdere la vita o di converso un totalizzante reportage sul dolore cosmico che nasce parallelamente con la vita e si estingue nel colore e nella luce dei campi elisi.
In quel periodo la tematica svolta (ed esposta nella seconda delle mie tre "biennali di Venezia", appunto nel 1972, con la sala personale "lo stato d'assedio") venne interpretata anche in chiave di conservazione e protezione ecologica. Rammento di una rivista di armi e di caccia che si urtò a tal punto da esprimere una velata protesta o comunque un dissenso. In realtà era appena in fase nascente quel fitto, vario e multiforme "bestiario" che appunto dagli anni settanta prosegue ancora sino al presente, pur con le dovute svolte e nuove ed articolate immissioni, tanto da poter disporre oggi (vedi il sopra indicato esempio del mare e della fauna ittica) di affollati nuclei divisi in tematiche diverse ma con la costante presenza in ogni caso del soggetto animale di piccole, medie o monumentali dimensioni. Appunto il "bestiario": sofferente, attonito, esterrefatto, prima colluso con marchingegni offensivi di estrazione tecnologica e dopo con le città, le selve e le dimore anche monumentali dell'uomo, curiosamente abitate o difese o vigilate da silenti presenze zoomorfe a volte inquiete, a volte in letargo.
Come sentinelle e guardiani. In quanto poi alla arroganza tecnologica, sarà bene precisare: quando il suo utilizzo risulta realmente provvidenziale e rassicurante, e quindi utile, a livello antropologico, può rappresentare un necessario scatto progressivo. Di converso risulterà soltanto un oscuro ripiegamento involutivo e barbarico, antisociale e antinaturalistico. Si pensi all'oggi, alla logorroica e pressante tecnologia mediatica e comunicativa che procrea e invecchia in poche ore generando disorientamenti e qualche vertigine, e qualche problema mentale, e molti problemi economici. Se questo è progresso ... !
Un anconetano noto per qualche gesto clamoroso ma discutibile (il giovane Paolo Rosa, down, seduto alla Biennale di Venezia del 1972) e meno noto per la sua cultura e per la complessità del suo pensiero e della sua sensibilità, Gino De Dominicis, ha intitolato una delle sue opere più note "il tempo, lo sbaglio, lo spazio". Si tratta di uno
scheletro con i pattini, con uno scheletro di cane al guinzaglio. E lo sbaglio dovrebbero essere i pattini. L'irrefrenabile impulso dell'umanità a correre nello spazio per accorciare il tempo sarebbe appunto lo sbaglio. Per chi scommette sull'ecologia, lo sbaglio è andare con i pattini dove sono di rigore i piedi nudi, o le scarpe da passeggio. Non è uno sbaglio da poco. Perché si tratta di punti di partenza di civiltà differenti. O, meglio ancora, della pietra di paragone tra la civiltà e la distruzione.

L'operosità dell'artista in questione è da valutare nel contesto del fare estetico tra la fine degli anni sessanta e il decennio successivo. Appunto: la concettualità, il gesto, l'atto anche di tipo eclatante, spettacolare e alchemico in cui al pragmatismo diretto si sostituisce di fatto la parola o il progetto della parola, o la proclamazione paradossale di un intento che oggettualmente non viene, per sua natura, quasi mai posto in essere, così come espressero decenni addietro Ives Klein o Piero Manzoni. In particolare nell'opera che citi, qui fisicamente riscontrabile (dello scheletro umano con i pattini) mi pare di ravvisare una rimembranza vagamente "archeologica" spiazzante, tuttavia caricata di un assunto assai acuto, di estrazione mistico spirituale antropologica, che rappresentò d'altronde il cardine operativo dell'autore, e cioè l'ipotesi dell'immortalità.

Hai scritto che "la scultura è un sogno soffice, raccontato con materiali duri". "La scultura rimanda brividi di sentimento non per la sua mole, non per la perfet ta realizzazione tecnica, ma per il pensiero, l'idea e la morale che la pervade".
Quando il tuo pensiero si è intrecciato con quello di Giacomo Leopardi, che si è posto con molta attenzione il tema della natura, che cosa è successo nella tua scultura? E, più in generale, quando pensiero, idea e morale si misurano con le ragioni della tutela del paesaggio e dell'ambiente, accade che tutto ciò si trasformi nel tuo "sogno soffice raccontato con materiali duri", o anche disegnato?

Giacomo pascola le pecore. Giacomo colloquia con la gallina. Giacomo ascolta il canto della rana rimota alla campagna. E Giacomo e il latrare notturno dei cani, e con il passero solitario, con le lepri danzanti e ancora e ancora è tutta una vertigine di naturalità circostante e un perpetuo confrontarsi con i tintinnii di sonagli, lo stridio dei carri, i canti dei contadini, i rumori del giorno e il silenzio oleoso della notte. E quindi gli ineffabili colloqui con la luna. Anche Leopardi avrebbe apprezzato ritagliati e definiti spazi protetti e aree da conservare e custodire con pudore e prudente attenzione. Mi piace sospettare però che non avrebbe molto amato gelose ed esclusive enclavi, mummificazioni, recinti e campane di vetro, mentre verosimilmente avrebbe pensato dinamicità operative e museali, attrezzerie e realizzazioni anche di tipo creativo. Ma a questo qualcuno oggi sta pensando, se è vero, per esempio, che in Valle d'Aosta, a Montorio al Vomano, a Napoli sotto il segno del "creator Vesevo", e in altri luoghi ancora si stanno allestendo dentro o in prossimità dei parchi singolari poli museali ove ad esempio accanto alla natura diretta si pone quella reinterpretata dagli artisti, a confronto. L'arte rappresenta da sempre la più pura e innocente consolazione sociale: perché l'uomo e la sua storia migliorino e perché la persona si riappropri della sua umanità, oggi in quiescenza.

di Mariano Guzzini