Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 43 - OTTOBRE 2004

 




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SUI QUARANTA ANNI DEL WILDERNESS ACT

Una legge per una filosofia della conservazione.
La situazione italiana tra abusi e possibili leggi.

Era il 3 settembre 1964: il presidente Lyndon B. Johnson firmò il "Wilderness Act". Un provvedimento nato a otto anni dalla sua presentazione da parte del senatore Hubert H. Humphrey. Furono necessarie ben 66 stesure prima che il testo finale fosse approvato dal Senato degli Stati Uniti nell'aprile del 1963, e successivamente dalla Camera dei rappresentanti, che lo licenziò il 30 luglio 1964. In realtà l'esigenza di salvaguardare le aree selvagge e incontaminate del paese era stata segnalata fin dal 1956, a opera di Howard Zahniser, direttore esecutivo dell'Associazione per la Wilderness. Il "Wilderness Act" del 1964 ha istituzionalizzato un concetto, che descrive la wilderness come "una zona dove la terra e la relativa comunità vivente non sono ostacolate dalla presenza dell'uomo; in cui l'uomo stesso è un ospite che non rimane, ma se ne va subito". Ecco alcune delle condizioni fondamentali e fondanti, secondo il "Wilderness Act", per definire un'area wilderness: deve essere plasmata esclusivamente dalle forze naturali, con eventuali interventi umani minimi; deve offrire grandi possibilità di solitudine e di ricreazione; la sua dimensione deve essere tale da garantirne l'autonoma conservazione senza bisogno di interventi esterni; deve contenere elementi di rilevante interesse scientifico, educativo, scenico o storico. E ancora: non ci debbono essere né strade o strutture costruite dalla mano dell'uomo; non possono essere introdotti veicoli e altre attrezzature meccaniche, né accampamenti o altre strutture permanenti; la fauna selvatica non deve conoscere interferenze e i suoi habitat mantenuti nello stato primitivo; le dimensioni minime, salvo determinate eccezioni, debbono essere almeno di 5.000 acri. Con l'atto originario, gli Stati Uniti hanno definito come territori di protezione riferiti a questa particolare tipologia, per un totale di 9,1 milione acri. Con la nuova legge ci si propose di conservare quei territori "non ostacolati dall'uomo" che dovevano essere tutelati "per l'uso ed il godimento della gente americana, che nello stesso modo in lascerà incontaminati per l'uso e il godimento futuri nella loro qualità selvaggia". Nel 1976, la legge federale sulla politica e amministrazione del territorio ha disposto che nei 623 milione di acri, pari a circa il 26 per cento degli Stati Uniti, sotto tutela federale, vi fosse l'obbligo da parte dei gestori, di selezionare aree wilderness da aggiungere al sistema nazionale. Da segnalare che, se individuate al di fuori delle aree protette da parchi naturali, nelle aree wilderness resta possibile praticare la caccia. La qual cosa per alcuni suona come evidente contraddizione vista l'interferenza di morte che la presenza dell'uomo, in quel caso comporta; per altri va invece considerata come predazione della specie uomo sulle altre specie animali. Ma come si giunse al "Wilderness Act"? Si trattò del risultato di un pensiero e di una filosofia praticati da alcuni carismatici padri del conservazionismo americano. "In wilderness is the salvation of the world", la salvezza del mondo sta nella natura selvaggia, affermò Henry Thoreau, autore del famoso "Walden o la vita nei boschi", scritto in una capanna di Walden Pound in cui si ritirò nel 1845. "Quando voglio ritemprarmi cerco il bosco più scuro e la palude più impenetrabile e più estesa... io entro nella palude come in un luogo sacro...": in quest'altro suo concetto si comprende il significato profondo della ricerca della wilderness che prevede un senso di appartenenza primordiale a una natura solitaria senza traccia di altri esseri umani. Si tratta di dare risposta a un bisogno di ritorno alle origini totalizzante, che consenta di spogliarsi di tutto ciò che è il quotidiano, dimenticando la civiltà. In Italia tutto ciò è possibile? Nelle dimensioni e nella concezione originaria del "Wilderness Act" certamente no. Il nostro è un paese fortemente antropizzato in cui, semmai, si possono scoprire aree wilderness di limitata estensione. Lo ha fatto ad esempio l'Associazione Italiana per la Wilderness che vanta un sistema di 31 aree, che coprono complessivamente una superficie di 26.243,9 ettari e sono distribuite in 6 Regioni e 12 Province. L'idea di wilderness è, infatti, approdata in Italia nel 1985, grazie soprattutto a Franco Zunino, già guardiaparco al Gran Paradiso e tecnico naturalista al Parco nazionale d'Abruzzo, studioso dell'orso bruno marsicano, recentemente candidato al Parlamento europeo per il "Partito della bellezza". L'Associazione Italiana per la Wilderness da lui fondata, e di cui è oggi segretario, non manca di una vena polemica nei confronti della politica delle nostra aree protette, accusata di una deriva poco conservazionista. "Esiste un vuoto culturale in materia di ambientalismo in Italia, sulla importanza della Wilderness, legata alle profonde emozioni che la natura selvaggia suscita in noi - afferma l'attuale presidente, Germano Tomei - L'ambientalismo italiano sta andando invece verso un consumismo commerciale delle aree protette che, nate come luoghi di sviluppo da conservare per sempre, vengono invece utilizzate per promuovere il turismo e consumare risorse gestionali pubbliche. Noi proponiamo di contro di non usare più le Aree protette selvagge per fini consumistici o ricreativi di massa, o come miraggio di posti di lavoro, ma di amarle e di viverle per ciò che rappresentano. Si torni quindi al primitivo scopo per cui vennero create, e cioè per salvare gli ultimi luoghi incontaminati della terra e far continuare ad esistere, con le diversità biogenetiche, anche le diversità emotive degli uomini che le frequentano. Si privilegi pertanto il non fare, piuttosto che il promuovere sviluppi. Amare e tutelare la wilderness anche per rispettare noi stessi e visitare in essa i luoghi dell'anima che ci ricreano". Lo stesso Zunino alimenta la polemica. "In Italia l'uso del termine "wilderness" può considerarsi quasi sempre un totale travisamento del significato più vero in esso racchiuso. Lo si è spesso ridotto a una mera espressione geografica, a volte per semplice ignoranza, in altri casi per vera e propria comodità "politica", da parte di quegli ambientalisti e giornalisti che amano infarcirne i propri articoli, discorsi ed anche manifesti e depliant, per puro vezzo stilistico o come semplice slogan. Usato più spesso come sinonimo di "natura selvaggia" - quando non di semplice luogo naturale definito magari "wilderness" solo in quanto abitato da grandi predatori! - anziché per indicare quel significato conservazionistico che il termine possiede e per il quale se ne è diffuso l'uso nel mondo. Oggi, per molte riviste di natura, è "wilderness" il Parco d'Abruzzo o la Majella, il Pollino o la Val Grande, ecc., tutti territori che pur racchiudendo luoghi che possiedono "valori di wilderness", nessuna autorità ha mai provveduto a designarli come tali in forma ufficiale, impegnandosi a preservarli e, soprattutto, a gestirli coerentemente contro un uso turistico-ricreativo di massa come implicherebbe l'utilizzo di tale termine. Decidere di designare un territorio selvaggio italiano quale "wilderness", difatti, non significa solamente dare una definizione geografica al suo stato di integrità paesaggistica (non ambientale, in quanto in questo senso sarebbe implicita una sua "verginità", cosa che non è per nessun luogo nel nostro Paese), bensì, soprattutto, essersi impegnati a preservarlo "per sempre" nel modo più assoluto ed a gestirlo per un uso razionale ed equilibrato: il che implica una politica in antitesi col connubio ambiente/parchi/turismo/economia/posti di lavoro così come è sempre più praticato nel nostro Paese". Ecco perché, secondo Zunino, quando leggiamo di zone in stato di wilderness, inteso nel senso di natura selvaggia, di fatto, veniamo disinformati, diseducati...; in questi casi sarebbe più appropriata la definizione italiana, appunto, di "natura selvaggia", lasciando da parte l'impiego del termine "wilderness" che finisce con l'essere soltanto mistificazione. "Il caso più emblematico di abuso - sottolinea Zuninoviene dal Parco Nazionale della Val Grande, dove si disinforma il pubblico su questo significato, addirittura per finalità ad esso contrarie! Le autorità del Parco Nazionale continuano ad utilizzare con ostinazione il termine "wilderness" come slogan turistico per "vendere" la loro "merce Parco", ben guardandosi dal designare al suo interno quell'immensa area wilderness che fin da prima che il Parco Nazionale nascesse venne richiesta, anche in sede internazionale, e che, sola, giustificherebbe l'uso di questo termine. Designare questa area wilderness a lungo proposta non significherebbe semplicemente riconoscere alla Val Grande il suo aspetto di integrità paesaggistica, bensì impegnarsi "per sempre" affinché neppure un metro quadro di quella fetta del suo territorio venga mai più modificato dall'uomo e con un uso turistico permesso solo in forma compatibile (ovverosia a numero limitato e contingentato): probabilmente proprio quello che le autorità del Parco Nazionale non vogliono, perché la designazione significherebbe per loro una perdita di potere gestionale sulla stessa area designata come wilderness. Non si tratta solo di una storia italiana. È accaduto e ancora avviene negli Stati Uniti d'America, dove tra i maggiori oppositori alle aree wilderness nei Parchi Nazionali, sono stati (e sono tuttora!) proprio i dirigenti degli stessi Parchi stessi Un altro caso, anch'esso eclatante, arriva addirittura dal WWF che, pur proprietario dei suoli dell'Oasi e Riserva Naturale del Monte Arcosu (acquistata allo scopo di preservare una delle più belle "zone selvagge" della Sardegna e di dare protezione al Cervo sardo) con la motivazione di doverla sorvegliare, di combattere il bracconaggio, di fare servizi antincendio ed educazione ambientale, ha realizzato nuove opere e riaperto piste abbandonate; aveva addirittura progettato di realizzare una strada che avrebbe spaccato in due una zona selvaggia oggi ininterrotta! Ciò proprio perché, pur avendo acquistato quella zona a scopo di conservazione, l'organo proprietario e gestore non si è però mai formalmente impegnato a preservarla "per sempre" nello stato in cui l'aveva trovata. Designare un'area wilderness significa invece proprio fare di principio una scelta rinunciataria di sviluppo. Ovvio che un tale impegno lo possa e lo debba prendere solo l'organismo proprietario dei suoli, o che abbia la gestione diretta degli stessi. È proprio questo impegno a far sì che le aree wilderness si differenzino dalle altre aree protette, di cui non sono un surrogato, bensì un loro completamento e arricchimento". L'Associazione Italiana per la Wilderness ha elaborato una proposta di legge regionale che dia un riconoscimento alle Aree wilderness esistenti e che faciliti ulteriori loro designazioni. Il testo segue la falsariga proprio del "Wilderness Act" americano, per cui, mentre le Regioni possono direttamente designare aree wilderness sui suoli demaniali di loro pertinenza, esse si limitano a dare un riconoscimento a quelle decise dai Comuni o da privati, conferendo però loro una possibilità di accesso a fondi pubblici compensativi per le rinunce fatte dai soggetti proprietari all'uso e allo sfruttamento dei territori, per cui è stato invece adottato un provvedimento di protezione con finalità sociali e culturali. L'Associazione sta operando perché il testo sia presentato ad alcuni Consigli Regionali, per il Lazio, ad esempio, la proposta di legge è attualmente all'esame della Commissione Ambiente del Consiglio Regionale.

di Valter Giuliano