Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 46 - OTTOBRE 2005




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POLITICHE DI TUTELA E DI SVILUPPO

Intervista con Fabrizio Barca e Anna Natali

Piove, governo ladro. Altrimenti sarebbe un piacere fare una sgambata da via Napoli dove ho appena finito di seguire un seminario sullo sviluppo sostenibile locale e il ministero dell’Economia e delle Finanze, dove Fabrizio Barca è capo dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione. Insomma avrei potuto farmi un tratto di via Nazionale, un campioncino di via Quattro Fontane e un tratto abbondante ma godibile della via che ai liberali ricorda la breccia di Porta Pia, via Venti Settembre, appunto, la data del buco tra il regno dei Savoia e quello del Papa Re. Il palazzo del ministero carico di soldi, di passato e di futuro l’avrei trovato presto. Segnalato dai finanzieri in divisa messi a guardia dell’ingresso dell’alveare, dall’andirivieni, dall’imponenza delle strutture edilizie. Diverso dal luogo che conosco meglio, il ministero di via Capitan Bavastro, privo di finanzieri (e anche di forestali, stranamente). Privo della patina di Storia. Fuori e dentro. Con meno “portafoglio” e meno speranze di poter aspirare ad essere riferimento di ogni genere di politiche e di progettualità. Invece piove, governo ladro. Piove seriamente, a vento. E Roma non gradisce, e con lei non gradiscono i provinciali che da Roma si aspettano ponentino e sole e cavalli domati dal medesimo sui colli imperiali. Sicchè mi tocca andare in taxi, se voglio evitare di arrivare bagnato come un pulcino all’appuntamento con Anna Natali, vicino al banco per i passi. L’idea di coinvolgere Fabrizio Barca in un ragionamento legato al saggio di Anna uscito sul numero scorso (“aree naturali e politiche di sviluppo”, sotto il segno del tema “fermare il declino”) mi era venuta partecipando ad un incontro voluto da Fabrizio (“risorse naturali e culturali come attrattori”, era il tema; il contesto era il QSN 2007 / 2013 cioè il quadro strategico nazionale per gli anni a venire). Avevo avuto l’impressione che pendessero dei fili che forse si sarebbe potuto intrecciare e collegare. E mi era parso possibile completare il giro di interviste che sto facendo da qualche anno a questa parte ponendo in realtà sempre e solo una domanda: i parchi naturali c’entrano davvero con lo sviluppo sociale e civile del Paese? Uscendo in bellezza dall’ufficio di direttore dove si insedierà Valter Giuliano. Come sempre ho fatto in ogni intervista, mi proverò a descrivere l’interlocutore. E’ alla testa del dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione del ministero dell’Economia e delle Finanze. Fa parte a pieno titolo dell’area della tecnocrazia intenzionata a riformare l’Italia mettendola nelle condizioni di affrontare e superare le sfide della modernità. Ha scritto libri chiari, dove espone le sue convinzioni. Da Donzelli è uscito quest’anno “Il ritardo italiano”. Nel 2001, in lingua inglese, ha scritto “Control of Corporate Europe” e negli anni precedenti dal Mulino, Laterza e ancora Donzelli si era occupato dei ruoli delle imprese e dell’industria nella fase attuale. Chi si occupa di innovazione, di coesione e di politiche di sviluppo lo incontra spesso, e trova molto convincenti le sue opinioni e le sue azioni. Isomma: l’uomo ha dimostrato e dimostra competenze e apertura mentale, al punto di dare l’impressione di poter essere coinvolto nei nostri sogni e nelle nostre follie. E forse anche compromesso nelle nostre avventure. Assieme ad Anna Natali ho percorso i corridoi del ministero che tiene i cordoni della borsa del denaro pubblico, ho aperto la porta dove le segretarie ci hanno fatto festa (merito di Anna, che trova sempre il modo di conquistare collaboratori e collaboratrici), e infine ci siamo seduti nello stesso tavolo dove vengono trattati temi più concreti e più immediatamente produttivi. Ho esposto i miei giocattoli ormai noti ai quattro frequentatori della rivista, gettando la solita rete. Ne è risultato un minestrone di idee che conclude bene, a mio stanco ma ancora ironico modo di vedere, la mia esperienza di intervistatore di grandi firme, e il mio ciclo di otto anni di direzione.

MARIANO GUZZINI. Quando cercavamo di materializzare questo incontro si è verificato un “evento” a suo modo abbastanza rilevante. In quel di Camerino, presso il dipartimento governato da Franco Pedrotti, si è tenuta una giornata di riflessione sul ruolo che oggi potrebbero avere i parchi naturali. La circostanza assume una sua rilevanza per alcuni motivi. Per il luogo dell’incontro: a Camerino anni fa nacque un movimento culturale che pose il tema della protezione della natura con molta chiarezza, e che fece storia. Per la consapevolezza dimostrata da tutti gli intervenuti del ruolo costantemente variabile dei parchi naturali, mai congelato in qualcosa di definitivo, ma, al contrario, sempre faticosamente contorto sotto la pressione di ritardi culturali e di drammatiche domande di supplenza alle quali è poco probabile che si possa dare risposta positiva. L’incontro di Camerino ha riunito una parte rappresentativa della cultura dei parchi, che ha preso in esame una situazione che è appunto fluida, magmatica e per molti aspetti fortemente critica. Non avrebbe senso ricostruirne qui e ora i contenuti. Tuttavia mi è sembrato utile evocarla per tenerla sullo sfondo della nostra intervista, come una sorta di “convitato di pietra”, di testimone muto… Cito dalla bozza di documento finale un concetto piuttosto semplice: “Parchi e aree protette: è necessario potenziare, anche mediante le priorità di finanziamenti pubblici, il ruolo delle aree protette come motore di sviluppo sostenibile, laboratorio di sperimentazione e di ricerca, luogo istituzionale di aggregazione sovracomunale”. Non è una riflessione sconvolgente, e nemmeno una novità. Tuttavia partirei di qui, per segnalare un ritorno di sensibilità di chi frequenta gli amministratori dei parchi nazionali e regionali per il tema dello sviluppo locale e del ruolo di laboratorio e di catalizzatore di tematiche innovative (di “buone pratiche”) degli enti di gestione. Anna Natali, nel suo saggio su “Aree naturali e politiche di sviluppo”, dando conto delle esperienze in corso nelle Regioni del sud, concludeva che è necessaria una innovazione in questo settore. Lascio a lei la parola per riprendere il tema dell’innovazione relativo alle politiche per il sud d’Italia, tentando di vedere se è possibile allargarlo a tutto il nostro Paese.

ANNA NATALI. Provo a trovare un filo di collegamento fra questo concetto ribadito a Camerino e l’articolo mio che tu citavi. La considerazione di Camerino non dice una cosa nuova. Forse quello che possiamo osservare oggi, è che muoversi in questa direzione è meno difficile di qualche anno fa, per due ragioni. La prima è che è diventato più diffuso e più accettato il concetto che i parchi nella discussione sullo sviluppo c’entrano. Dirlo all’inizio degli anni ‘90 era una cosa abbastanza curiosa; dirlo oggi non è una cosa curiosa, anzi è una cosa in sintonia con affermazioni un po’ diverse, ma che in fondo hanno lo stesso contenuto. La seconda ragione per cui lo vedo più facile, è che l’asse del potere e della responsabilità nel decidere gli interventi di sviluppo si è molto avvicinato al territorio e i parchi sono una creatura del territorio, non sono un pezzo della burocrazia centrale, sono un pezzo di Stato decentrato. Per queste due ragioni assieme, una che riguarda come è evoluto il pensiero, il modo di vedere gli spazi per fare l’intervento di sviluppo e l’altro che riguarda questa maggiore responsabilizzazione nell’utilizzo anche delle risorse finanziarie per fare sviluppo, credo che i parchi siano oggettivamente in una posizione migliore. Come si inserisce in questo procedere delle cose il mio articolo? L’articolo afferma tutte queste cose, facendo esempi, riferendosi a quello che è successo nel Mezzogiorno, c’è l’esempio della Campania che tutto sommato ha colto un’opportunità, forse, meglio di altre Regioni, ma poi si chiude con una considerazione sull’innovazione. Dice che sì, è vero, ci sono stati questi due movimenti, ma stiamo scoprendo che questi due movimenti non bastano, c’è bisogno di un terzo movimento che è forse di maggiore durata, che dovrà essere un percorso dai tempi un po’ più lunghi e che mette in discussione la maniera in cui questi enti territoriali si percepiscono, le competenze di cui pensano di avere bisogno per riuscire a rispondere in una maniera adeguata, il modo con cui riconoscono i propri utenti, i propri destinatari, come vedono i cittadini, che tipo di idea hanno del loro servizio. Tutto questo, in qualche modo deve cambiare; deve slittare e riaggiustarsi un po’. L’innovazione, per me, è il fatto che tu attribuisci identità diverse a quelli che vedevi prima e che sono sempre gli stessi, però li vedi in modo un po’ diverso, capisci che puoi fare con loro operazioni di tipo un po’ diverso.

MARIANO GUZZINI. A Fabrizio Barca chiederei di sviluppare questo ragionamento che abbiamo appena avviato. E’ possibile l’innovazione, è possibile riformare strutture dello Stato, che sono ministeri, ma alla fine anche parchi, per affrontare una economia che essa stessa ha bisogno di essere riformata?

FABRIZIO BARCA. Il punto che Anna ha sollevato — mi ha convinto molto, leggendolo — segnala che sulle aree naturali, sulle aree naturali protette si manifesta in maniera effettivamente eclatante la domanda di un ruolo nazionale, di un modo diverso di concepire la funzione del centro. Ruolo nazionale, visto non come un soggetto che ha una funzione di gestione, ma neanche di supervisione, ma neanche, spesso, di indirizzo. Ma invece un luogo che poi abbiamo denominato in queste settimane, per trovare una parola, “centro di competenza”, il quale aiuti, stia accanto, sia parte dei processi locali e si faccia carico di quel segmento della conoscenza che è necessario per i processi di sviluppo locale ma che è viceversa di natura globale. Le due traiettorie di avvicinamento che ha indicato Anna sono effettive, sono state anche, in parte, favorite da un processo che ha coinvolto la città di Roma, le sue Amministrazioni nazionali; e che però non ha toccato Roma, non l’ha impegnata, in modo sufficientemente approfondito da comprendere, da fare suo, il suo nuovo ruolo. E così si è lasciato che la politica si avvicinasse di più ai territori, però lo si è lasciato avvenire con una riserva mentale assai forte di trovarsi in uno stato di necessità. Insomma, non si è capito, non ci si è convinti che “le cose si fanno bene così o non si fanno”, ma piuttosto si premia che in questa fase è necessario assecondare processi di decentramento. Questa riserva mentale ha pesato in due modi. Primo, perché è rimasta una disponibilità, una predisposizione, a ingranare la retromarcia appena cambiasse l’umore e lo spirito. E’ il problema di questi, dei prossimi, mesi: — le difficoltà, le resistenze che incontra la politica di sviluppo territoriale o i processi di decentramento – come potrebbe essere diversamente con gli interessi costituiti che vengono messi in discussione -, vengono vissuti da alcuni come la dimostrazione dell’eccesso di avvicinamento, del processo decisionale al territorio. In secondo luogo non c’è stato un investimento innovativo a Roma di portata sufficiente. Roma ha vissuto il decentramento come una sofferenza, come una riduzione di poteri, senza avvedersi fino in fondo che quello che le si chiedeva in una situazione fortemente decentrata, era di assumersi responsabilità ancora più rilevanti, che richiedevano un livello di competenza superiore a prima. Quindi una sfida, una sfida per il rinnovamento delle persone prima di tutto. In teoria le condizioni per il rinnovamento delle persone c’erano ma non sono state spesso sfruttate. Io credo che, se così fosse avvenuto, Anna Natali non si limiterebbe a registrare una tendenza positiva ma osserverebbe risultati.

MARIANO GUZZINI. Bene, probabilmente è vero che non è più strano, tuttavia ci troviamo di fronte a un arretramento forte rispetto a quando appariva un poco più strano. All’epoca si sperava, si pensava, sembrava quasi vero che il sistema dei parchi nazionale e regionale, in tutta Italia, non solo nel sud, con interventi che immaginavamo dovessero essere misti, dello Stato centrale e anche dello Stato decentrato, potesse essere una parte importante dello sviluppo economico sostenibile e dello sviluppo locale. Oggi c’è chi ci ha messo del suo per separare i parchi nazionali dai parchi regionali, ci sono Regioni che non hanno preso per niente in considerazione i parchi, i parchi sono prevalentemente senza strutture adeguate alla predisposizione e all’attuazione dei piani di sviluppo socio economico. E’ cioè caduto, su quella ipotesi, un colpo forte, non saprei dire se centralista o solo economicista. Fatto sta che lì si è rotto qualche cosa che va ricostruito. Per cui la domanda è: è possibile, con l’inizio di riforma che si è avviata qui, in questa stanza dove ci troviamo a parlare, con altre riforme che dovrebbero avviarsi in altri ministeri e nelle Regioni, le quali non sono tutte così sensibili a questa ipotesi, ricomporre il vecchio disegno o trovarne uno nuovo addirittura più efficace? Dare cioè al sistema dei parchi nazionale, anche a lui, un ruolo di “centro di competenza” per entrare nel modo migliore in una operazione diversa da quella della sperimentazione casuale improvvisata da qualche parte da qualche Penelope che di notte sganghera e sfilaccia quello che ha tessuto di giorno? Tutti quanti diciamo “che bello, la Regione Campania ha fatto questa scelta”. Perché non la fanno tutte le Regioni, questa scelta? Perché non è il sistema dei parchi che la propone e la sperimenta? Perché non ha dei centri di competenza incardinati in più ministeri, per appoggiare questa operazione?

ANNA NATALI. A me interessa aprire una brevissima riflessione sulla battuta che tu hai fatto all’inizio, che “forse era meglio quando era peggio”, perché ormai anch’io un po’ di storia lunga ce l’ho (noi ci frequentiamo da un po’ di tempo) e la mia impressione è che, tutto sommato, in questo incontro abbastanza complicato da realizzare — quando ancora la legge quadro non era in tasca, quando ancora c’era l’obiettivo del 10% di aree protette, in quella stagione molto proiettata verso la conquista — il mondo dei parchi era fatto di conservazionisti, naturalisti, in grandissima parte; era rappresentato da persone che sapevano di natura — botanici, zoologi — persone molto interessate ad affermare l’interesse pubblico alla conservazione…

MARIANO GUZZINI. …peggio ancora: quelli erano conservazionisti centralisti... però non c’erano solo loro. Eravamo in tanti, altrimenti poi la legge quadro non sarebbe uscita dal Parlamento con quella definizione di area protetta e con quei differenti strumenti per la pianificazione, anche economica…

ANNA NATALI. Non apriamo un’altra tematica sui conservazionisti. A me è capitato, per caso, di finire in un posto in cui c’erano degli economisti interessati a gettare dei ponti verso questo mondo e a farlo in una totale indifferenza rispetto a tutti coloro che discutevano di economia dall’altra parte. Secondo me quello che è successo, da allora in avanti, è che gli economisti hanno fatto moltissima strada, per cui trovi nei documenti di strategia economica una cosa che dice che bisogna investire sulle risorse naturali, perché sono importanti non in quanto c’è l’interesse pubblico alla conservazione ma in quanto interessa al paese per il suo sviluppo economico. Una cosa che allora si diceva in tre, oggi invece è una affermazione largamente acquisita. Dall’altra parte, il mondo di coloro che tuttora fanno funzionare i parchi, non ha fatto, secondo me, la stessa marcia di avvicinamento. La mia visione è che dal punto di vista economico ci si è resi conto molto meglio di come fosse importante avere un atteggiamento come minimo di cautela ma soprattutto di attenzione alle potenzialità che potevano derivare dai parchi, dalle risorse naturali; dall’altra parte non c’è stata una analoga evoluzione. Il fatto che oggi ci siano dei contesti, come la Campania ma molti altri, in cui gli enti parco si trovano a livello territoriale locale, all’interno di potenziali coalizioni con altri enti che hanno i loro interessi da perseguire, ma in un rapporto sostanzialmente paritario, in cui bisogna capire dove vanno concentrate le risorse e per fare che cosa, lì c’è un banco di prova di capacità d’iniziativa, di capacità di proposte, capacità anche di creare consenso intorno a dei progetti che non possono essere solo di conservazione, che io vedo poco, obiettivamente. Se c’è in qualche modo disagio oggi, se percepiamo disagio, secondo me è anche perché si poteva fare un’elaborazione, ci poteva essere un’evoluzione altrettanto attenta in risposta all’attenzione dell’economia per dire “sì, adesso che mi apri la porta io mi attrezzo e mi invento servizi, ipotizzo nuovi modi per offrire le cose, mi muovo in modo molto più attivo, molto più pro-attivo su questa linea, cosa che, tutto sommato, non è avvenuta quanto forse era auspicabile.

MARIANO GUZZINI. Hai ragione. Parlavamo di queste cose con Becattini, quando si discuteva di distretti industriali, e io ero lì da presidente del parco a quelle riunioni che si facevano ad Artimino, ricordi? Dopodiché perchè quel tentativo, che adesso si sta tentando di riprodurre, qualche decennio dopo, non è passato all’epoca? Non è passato subito perché i parchi li avevano fatti anche i conservatoristi, i centralisti. Quella era la cultura prevalente dei parchi e noi eravamo in minoranza e anche visti con qualche sospetto. Eravamo visti più come un rischio che come una prospettiva, e questa questione dura anche oggi, anche se molto più attenuata. Sembriamo “sporchi”. Portatori di un ambientalismo distratto e inciucione, contaminato con il Pil e con altre diavolerie consimili. La mancanza di fondi e lo smantellamento dell’idea di sistema nazionale di parchi ha reso poi praticamente inevitabile quella scarsa agilità mentale dei protagonisti delle gestioni dei parchi nell’entrare in una materia che dovevano raggiungere dopo avere superato tutte le analisi del sangue per dimostrare di stare dalla parte della conservazione e della biodiversità. Al ministero dell’ambiente si chiama ancora “servizio conservazione della natura” il pezzo principale del ministero, e se gli vai a parlare di economia, a volte sono interessati, ma non sempre. Quindi se tu dici che non abbiamo avuto la forza di poter agire nel modo più conseguente secondo me hai ragione. Tuttavia i ritardi nostri sono stati aiutati molto dai tagli, dalle separazioni e dalle separatezze, e dai vistosi ritardi culturali. Io credo che le Regioni che marciano meno in questa fase, per questo tipo di progetto, sono ancora dietro quella cultura lì, che è superata. Oppure credono che sviluppo significhi ancora industria e manifattura e guai a parlare di sostenibilità.

FABRIZIO BARCA. Io voglio ragionare sotto il profilo delle competenze. Il salto di cui Anna parla richiede, probabilmente, una interprofessionalità che spesso è assente dal tipo di figure professionali, anche di livello, delle quali è possibile disporre. Adesso la battaglia non è più per la rete ecologica, la battaglia è per la preservazione della biodiversità. E’ più agevole elaborare la contabilità della biodiversità e segnalare gli allarmi sulla biodiversità che non calare questa tutela in un azione di sviluppo, sfruttare la tutela della biodiversità a fini di sviluppo. E’ una azione che richiede operazioni non generalizzabili, disegnate territorio per territorio. Perché la difesa generale, la tutela della biodiversità, se non hai limiti di conto e se non hai problemi di sviluppo, non dico che sia facile, ma la puoi fare con misure indipendenti dal contesto ambientale ma, che non hanno bisogno di risentire del contesto economico-sociale e politico. Quando l’operazione, invece, deve diventare un’operazione per lo sviluppo, hai bisogno di un salto. Ecco allora che quando abbiamo aperto con decisione alla preservazione delle risorse naturali sulla base di un ragionamento di tipo economico che individua un vantaggio comparato dell’Italia nel suo complesso e del Mezzogiorno in particolare, abbiamo fatto un passo che mette in linea valutazione dei vantaggi comparati e tutela dei valori. A questa apertura ha corrisposto un gradimento nel mondo ambientale, ma a esso non si è accompagnata la prospettazione, né in sede programmatica né in sede progettuale, di ipotesi adeguate che fossero tali da assolvere a questo credito. Qui ha pesato, credo, un deficit di competenze. Poi c’è la componente politica, quando, in un contesto nazionale, quindi culturalmente, linguisticamente unitario — forse anche un socialmente! — si determina una situazione in cui alcuni esperimenti, alcune operazioni pilota, pure rilevanti, non riescono a generalizzarsi, siamo anche in presenza di un fallimento della politica. La politica non è riuscita ad accogliere questo come un tema nazionale, una opportunità di perseguire obiettivi di sviluppo e, allo stesso tempo, soddisfare valori. Se io penso, da consumatore al dibattito culturale e politico di trent’anni fa, in una fase romantica come quella che avete in parte evocato; se penso al Parco nazionale d’Abruzzo, ricordo una tensione anche forte, tensione fra interessi, ma anche tensione di valori. Nel dibattito nazionale, nei fondi dei principali giornali, si discuteva delle questioni legate a riassetti dei centri minori, alla dimensione delle aree della zonizzazione e si confrontavano ragionamenti economici a giudizi di valore. E da ortagonali questi profili divenivano sinergici. Oggi ci si aspetterebbe che avvenisse lo stesso, in venti parti del territorio. E che poi qualcuno a livello nazionale — la politica, la cultura — entrasse nel confronto e ne facesse bandiera. Ce ne sarebbero i presuposti, anche analitici ... e, invece, niente. Onestamente, da amministratore pubblico per me è un enigma. Quello che è sicuro è che l’assenza di questo confronto culturale e politico è assai dannoso. E frustra, e isola, anche le migliori esperienze. E spinge molti a divenire conservatori conservazionisti.

MARIANO GUZZINI. Oppure sfrenati liberisti a prescindere. Vorrei chiudere questo aspetto con un dato. Anna ha ragione sulla sequenza storica, le cose sono andate probabilmente così, tuttavia quando la legge quadro passò alle Camere e tutti ci lamentammo molto perché era arretrata, prevedeva già allora due strumenti operativi utilizzabili: il piano di gestione del territorio e della biodiversità — che certi architetti hanno ridotto soltanto a strumento urbanistico, mentre è molto di più e di diverso — e il piano di sviluppo socio-economico. Il dovere dei parchi di fare un piano di sviluppo socio-economico, era esplicitamente indicato nella prima legge quadro. Il che significa che all’epoca era passato talmente tanto il concetto che i parchi potevano essere un motore di sviluppo diverso, che era previsto un piano dentro il quale ci fossero questi progetti da attuare. Che poi questi piani siano stati poco adottati e ancora meno attuati nei parchi, la dice lunga sui limiti della cultura, e – come dice Barca – della “politica” che è arrivata dopo. C’è stato un riflusso nel dibattito, nel lavoro degli amministratori, e forse anche nella selezione dei medesimi. La cosa andrebbe meglio esaminata per evitare affermazioni temerarie, ma io temo che invece di produrre competenze sempre più agguerrite e motivate, competenze di confine, utilissime, il mondo dei parchi si sia ripiegato su se stesso, incartandosi nell’imitazione e nel rispecchiamento di quello che prevalentemente accadeva nella pubblica amministrazione locale e nazionale.

ANNA NATALI. Secondo me il richiamo allo specifico è sempre essenziale, perché ricordo la stagione dei piani, io ho lavorato in quella stagione. In ogni regione italiana c’era una situazione, una possibilità, uno spazio per lavorare completamente diversi. Io ho speso due anni della mia vita nel Gennargentu, a non cavare un ragno dal buco. Ma non bisogna dimenticare che quello era un contesto assolutamente imparagonabile agli altri, non si può mettere insieme Dolomiti bellunesi, Gennargentu, Foreste del Casentino come se fossero la stessa cosa. Il problema delicato lì è che sì, la legge quadro apre la strada, sì, i fondi per il Mezzogiorno aprono la strada. Ci sono delle opportunità che si aprono, ma c’è un lavoro da fare, che non si può saltare. L’innovazione è questo: tu devi fare un lavoro molto più di fino, molto più profondo, che coinvolga molto di più la comunità scientifica, le professioni, quelli che fanno consulenza alla pubblica amministrazione, per riuscire a riempire queste opportunità, altrimenti sono tutti treni che passano e non si fermano. Nel caso del Gennargentu non era una cosa che tu potevi risolvere nella maniera in cui potevi risolverla altrove. C’era bisogno di un metodo di lavoro, di una professionalità e di una capacità di costruire le cose, obiettivamente molto singolare. Il tema è quindi oggettivamente complicato, perché nell’intreccio che hai luogo per luogo tra i valori, l’interesse pubblico alla conservazione, le opportunità di sviluppo, ciò che le persone riescono a percepire, le cose in cui riescono a credere e le competenze che devi mettere, hai situazioni enormemente variegate da caso a caso.

MARIANO GUZZINI. E poi ci sono due filoni lontani fra loro: il parco in alta montagna, grandissimo, pochissimo antropizzato e il parco urbano, il parco metropolitano, il parco costiero: Portofino, Milano Roma. Sono due mondi quasi opposti, con necessità economiche da tutte e due le parti, se vogliamo. Però è ancora evidente quanto sia forte la necessità di farlo intervenire nell’economia, quando un parco è dentro Milano, dentro Roma, a Portofino. Io non so cosa è mancato. Fabrizio dice la politica, e ovviamente ha ragione. Però è innegabile anche un ritardo culturale che influenza anche la politica, perché tutti quelli che parlano di parchi, tendono a pensare al parco di alta montagna con gli orsi, i lupacchiotti e un po’ di biodiversità. Che sia invece una rete molto diffusa, molto antropizzata, molto legata alla sostenibilità, alla conservazione della natura ma anche a uno sviluppo economico che potrebbe essere di tipo distrettuale, quelle cose che andavamo in cerca tanti anni fa, è un fatto che ancora non è passato neppure nella cultura accademica, nemmeno nelle università dove abbiamo studiato noi. Non è passato per un ritardo culturale locale, per gli amministratori dei parchi, per uno scarso collegamento dei vari ministeri e del ministero, in particolare che se ne doveva occupare?

FABRIZIO BARCA. La risposta a questa domanda non può che essere, per ognuno di noi, nella diagnosi. Io penso che esista un primato della politica, quindi penso che la svolta debba essere politica e politico-culturale. Con tutta la loro forza economica potenziale, con tutti i vantaggi comparati di questo mondo, le risorse di ogni singolo parco, l’attivazione economica diretta che esso può produrre, sono necessariamente limitate rispetto ad altre opzioni di investimento pubblico per lo sviluppo che sono più rapidamente percorribili, che sono più attraenti dal punto di vista dei volumi finanziari attivabili. E allora bisogna essere convinti assai di questa opzione, tanto da mantenerla per un lungo periodo. Non sono operazioni che danno risultati brevi, né coinvolgono, anche quando sono periurbane gli interessi urbani dominanti. Gli interessi urbani dominanti sono altri, le grosse decisioni sono governate da altri soggetti. Stiamo parlando, insomma, di operazioni che non hanno rendimenti economici di breve termine così forti da imporsi per conto proprio. E’ quindi un esempio classico dove c’è un ruolo importante del settore pubblico e quindi della politica. A mio parere la svolta può venire dal riconoscimento, anche politico, non soltanto tecnocratico, dell’esistenza di un vantaggio comparato, non solo di breve termine, ma connesso a benefici economici indiretti che hanno a che fare anche con flussi di turismo, con flussi di attivazione agroindustriale, con flussi di attivazione distributiva e di prodotti collaterali, con filiere di ricerca e dell’innovazione. Un vantaggio connesso, anche, a una visione dell’identità nazionale. L’esperienza di Anna nel Pollino — che io ho visto da vicino, perché avevo, in quel periodo, tempo per farlo — mi segnala che il problema non è spesso quello dell’assenza delle risorse umane, ma la difficoltà a inserire esperienze, pur significative, all’interno di un contesto esterno più vasto, in quel caso di flussi turistici che hanno altre destinazioni. Il salto non lo può fare da sola la classe dirigente locale, ma la classe dirigente regionale e nazionale, la quale dica “esiste questa priorità, cogliamola”; e che dia così sponda alla classe dirigente locale. Se questo salto avviene, se questo torna ad essere un tema che sta sulle pagine dei giornali, se ci sta come ambiente e non ci sta soltanto come freno alla costruzione di infrastrutture, allora tu puoi cominciare a innovare, perché andare a lavorare in questo comparto diventa attraente per le avanguardie innovative, imprenditoriali, culturali, perché torna a essere divertente cimentarsi con questi problemi, e allora hai più facilità a sostituire le persone, sia nei Ministeri, sia nelle Regioni, sia nelle strutture dedicate, sia all’interno dei parchi. Però, all’inizio della catena ci deve stare un ritorno di queste come priorità non dei documenti di programmazione, dell’azione politica.

MARIANO GUZZINI. Io sono venuto qui, perché ho piena consapevolezza che qui si è cominciato a riformare qualche cosa di sostanziale. A partire da queste stanze di questo storico palazzo. Secondo te, Fabrizio, è possibile riformare ancora un po’ e avere riforme anche in altri ministeri perché questa crisi della politica possa essere riassorbita anche con l’aiuto della tecnocrazia? Diciamo in un intreccio virtuoso tra i doveri dei buoi e quelli del carro, o anche con momentanei e temporanei rovesciamenti di ruoli…

FABRIZIO BARCA. Secondo me è indispensabile, nel senso che il disegno, in astratto, che era stato fatto alla fine degli anni ‘90 — non mi riferisco al disegno costituzionale ma al disegno di riforma amministrativa — era corretto. Questo disegno prevedeva un riconoscimento anticipatore, rispetto ad altri paesi, dell’esistenza di competenze condivise tra livelli di governo. Quindi, per la prima volta, in un paese che aveva sempre oscillato nei disegni amministrativi e burocratici, riconosceva la sovrapposizione di molte competenze e giocava la partita del centro in termini della sua capacità di darsi una configurazione nuova, di essere lui il centro di innovazione, di propulsione e, qualche volta, di indirizzo. Era, avrebbe dovuto essere, una riforma dei rapporti fra amministratori pubblici centrali e politica, una riforma dell’assetto interno dell’amministrazione, la possibilità di avere maggiore mobilità del lavoro a livelli dirigenziali, di rinnovare la dirigenza pubblica. Il disegno era assolutamente corretto. Esso è largamente inattuato. Se la politica si convince che il disegno era corretto e che il problema è di dargli attuazione, allora esso potrà avere attuazione. Attuarlo vuol dire dare una missione a ogni capo di gabinetto di ogni ministero in questa città, poiché l’attuazione della riforma è la priorità principale organizzativa interna dei ministeri. Esistono gli strumenti, le norme perché questo rinnovamento avvenga. Ma Oggi il rinnovamento è avvenuto per il 10%. Fino a che le cose resteranno così, Roma non potrà candidarsi allo svolgimento di una funzione nuova di forte punto di riferimento tecnico. La mia personale esperienza, da ultimo l’esperienza vissuta con la scrittura del documento strategico preliminare nazionale (DSPN), mi dice che il metodo è quello che ci siamo inventati, insieme alle Regioni, insieme ad alcune isole centrali dove il rinnovamento c’è stato, e che si può realizzare senza cambiare una sola altra norma; purché vi sia la volontà politica di farlo.

L’intervista è finita. Ringrazio Fabrizio Barca e Anna Natali. Saluto le segretarie festanti. Fuori, in via Venti Settembre ha smesso di piovere. Vado allegro di buon passo per via Quattro Fontane, scendendo per via Rasella verso via del Tritone. Quanti segnali. Quanta Storia che tira per la giacca… Ho l’impressione che ci siamo detti cose utili. Che chi ci leggerà potrà farsi una idea di come sono messe oggi le cose. E soprattutto spero che il sole che sta tornando a riscaldare Roma sia di buon auspicio.

di Mariano Guzzini