Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 46 - OTTOBRE 2005




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SE CI ACCORDASSIMO SUL PUNTO D’ARRIVO...

Dopo la rete ecologica, adesso la via sembra essere la biodiversità: ma per arrivare dove?

Negli ultimi due numeri della rivista ho trovato numerosi e convincenti riferimenti all’importanza di concepire le aree protette come nodi di particolare rilievo e di non ordinaria importanza all’interno della rete ecologica nazionale. L’articolo a cura dei colleghi, Daniel Franco e Andrea Ferraretto, descrive in modo efficace il lavoro di assistenza tecnica che stiamo conducendo nell’ambito della task force per i fondi strutturali. La relazione di Walter Zago elenca i problemi ancora apertissimi. Anna Natali sottolinea il forte legame tra le politiche di sviluppo e le aree naturali, mentre l’intervista di Mariano Guzzini a Carlo Trigilia conferma una crescita complessiva della consapevolezza di quel legame anche in ambienti un tempo diffidenti o poco permeabili. Walter Zago, nel fare il punto sulle politiche, avanza a questo proposito una critica generale sia nei confronti delle amministrazioni centrali che di quelle regionali e degli enti locali. Zago denuncia “l’assenza di politiche concertate e il ritardo ultradecennale nella elaborazione di strumenti generali quali il piano nazionale del mare e delle coste, la carta della natura, il piano nazionale della biodiversità”, ma anche i ritardi delle Regioni ad adeguare le legislazioni regionali al fine di determinare i nuovi traguardi delle reti ecologiche e dell’integrazione con la rete Natura 2000. Zago chiede anche, a nome di Federparchi, a tutte le Regioni di “sostenere la proposta dell’introduzione di un programma nazionale pluriennale per la rete ecologica nazionale da concertarsi nelle sedi istituzionali con il compito principale di integrare le attività di tutte le aree protette nel quadro delle politiche nazionali e dei grandi progetti territoriali”. Chiede altresì a tutte le Regioni italiane che “assumano come obbiettivo proprio la definizione degli strumenti nazionali tecnico scientifici di riferimento previsti dalle leggi: il piano nazionale della biodiversità, la carta della natura, e il piano nazionale del mare e delle coste” tenendo presente, a tutti i livelli del processo decisionale, che “la partecipazione diretta delle Regioni e dei parchi regionali è condizione essenziale per l’elaborazione efficace di questi strumenti”.

Il nuovo riferimento è alla biodiversità

E’ dunque curioso che proprio nel momento in cui la cultura delle aree protette esercita una forte pressione unitaria in direzione della individuazione di un ruolo maggiormente definito dei parchi e delle Regioni nella costruzione della rete ecologica nazionale si verifica la circostanza che nei nuovi documenti per la prossima programmazione dei fondi strutturali 2007 – 2013 il riferimento chiave non sia più alla rete ecologica ma sia invece alla biodiversità. Niente di male, si dirà. Anzi, in molti saremmo istintivamente portati a ritenere che si sia fatto un grande, enorme passo avanti. Guardando ad un passato anche recente, infatti, non sarebbe difficile rendersi conto che il concetto stesso di tutela della biodiversità non era rintracciabile in documenti di programmazione economica che, nei casi migliori, facevano riferimento genericamente all’ambiente. Ora sta accadendo che di tutela della biodiversità non si parli solo nei recepimenti nazionali delle norme comunitarie o nei decreti del ministero dell’Ambiente, ma anche in atti ufficiali che indirizzeranno e condizioneranno la spesa di rilevanti risorse pubbliche, e se ne parla non come una nota a pié di pagina o come citazione politicamente corretta ma pure marginale, bensì come settore di investimento, quasi al pari delle politiche di mobilità o delle infrastrutture per lo sviluppo locale. Insomma finalmente e una buona volta in Italia parliamo la stessa lingua dell’Europa di Goteborg e del sesto piano di azione per l’Ambiente. Il lavoro oscuro e trasversale di molti di noi, finalmente emerge dalla zona grigia e finalmente si parla apertamente di biodiversità. Tuttavia, fermarsi a capire se questo passaggio di terminologia nasconde qualcos’altro di significativo, mi sembra una suggestione interessante. Essendo ogni azione collegata ad altre, e l’intero processo amministrativo, culturale e politico in ampio e sostanziale sommovimento, vale la pena azzardare una riflessione, con il solo scopo di soffermarci, accantonare per un poco i facili entusiasmi e concederci perfino il beneficio di qualche dubbio. In quest’ottica, potremmo ad esempio domandarci se la passata dizione contenuta nella vecchia programmazione dei fondi strutturali “rete ecologica” non contenesse una sfida più alta, cioè il desiderio (l’utopia?) di poter usare un unico concetto per contenere non soltanto obiettivi e traguardi relativi alla conservazione della biodiversità ma anche gli sforzi per dare vita e sostanza ad una nuova e differente economia a partire proprio dal lavoro di tutela delle risorse naturali. Come ricorda bene Anna Natali nel suo saggio già citato, evidenziando luci ed ombre dei risultati ottenuti, quella fu la sfida della programmazione 2000 – 2006 almeno nelle regioni dell’Obiettivo 1, che più delle altre potevano giocarsi la preziosa carta di rendere il patrimonio di biodiversità del quale sono ricche una caratteristica qualificante e competitiva del proprio sviluppo. Si proponevano come laboratori, reti, luoghi di sperimentazione, garanti della qualità degli interventi, mediatori con i territori e le nuove comunità interessate al diverso sviluppo, e alla sostenibilità della crescita. In quest’ottica la cultura delle aree protette entrava in una strategia di sistema, di pianificazione di area vasta, costruendo con gli altri soggetti territoriali una vera rete, di progetti, di interventi, di infrastrutture materiali e immateriali. Sempre sul piano del beneficio del dubbio a me pare che ci si possa domandare se la più netta individuazione dell’obbiettivo della biodiversità nella prossima programmazione dei fondi strutturali non rischi di perdersi per strada un piccolo passo in più già acquisito nella passata esperienza 2000-2006, ovvero quel difficile tentativo di coniugare tutela e sviluppo, ovviamente sostenibile, all’interno dei documenti di programmazione. Con il rischio di riportare non tanto la discussione quanto l’allocazione di queste risorse, (che ricordiamo sono addizionali alle risorse ordinarie destinate, quelle sì, all’attuazione delle specifiche politiche nazionali e regionali di settore), concentrata su temi che rimangono circoscritti, rifuggono la contaminazione e la sperimentazione, un poco diffidenti per ogni declinazione immaginabile del termine sviluppo o anche soltanto crescita.

Luci e ombre di Rete Ecologica

Certo la sfida con la quale ci siamo misurati, di trasformare la rete ecologica in un settore di investimento che chiedeva e otteneva dal quadro comunitario di sostegno prima e dai programmi operativi regionali poi un ventaglio di iniziative per l’imprenditoria verde, per sistemi sempre più accurati di certificazione ambientale per le imprese operanti nelle aree naturali protette, ospitalità rurale di qualità e molto altro ancora, spalancava spazi mai esplorati e metteva alla prova ogni settore e ogni competenza. Non si trattava più di speranze nel chiuso di seminari tra esperti, ma di deliberazioni, di concertazioni, di donne e uomini che davvero ricavavano il loro reddito principale o unico da quel processo in atto. Non ho elementi di sintesi né titolo per azzardare tesi conclusive sugli esiti di quei percorsi che del resto in molti casi sono ancora in atto, o in fase di avviamento o di piena attuazione. Il dubbio che mi sorge spontaneo è che la sfida di provare a coniugare la redazione di carta della natura e di tutti i piani rivendicati da Federparchi e citati da ultimo da Walter Zago con i piani di gestione dei siti Natura 2000 e con le nuove modalità di attuazione, il progetto “rete ecologica” probabilmente l’ha pagata tutta e a caro prezzo, sia in termini di mancati risultati che in diminuzione di visibilità e chiarezza di intenti. E’ infatti possibile che sul territorio alcuni interventi non abbiano trovato la giusta dimensione e il giusto radicamento, che strategie poco incisive siano state soffocate da procedimenti di integrazione complessi, che soggetti pubblici e privati, a volte siano stati motori di innovazione, e in altri casi ostacoli, o freno. Si tratta peraltro del prezzo che è indispensabile pagare alla sperimentazione di un percorso nuovo. La cosa peggiore sarebbe disperdere il patrimonio di quelle esperienze faticosamente avviate, dopo aver individuato i percorsi di attuazione, dopo aver formato i responsabili, e dopo aver avviato, forse, un timido salto culturale. Occorre invece, nella sempre auspicata prospettiva di vedere i problemi in ottica costruttiva, recuperare e rilanciare l’intero percorso, eventualmente capendo cosa è mancato, aggiungendo, se del caso, soggetti, uffici, enti, assessorati, associazioni e via elencando. Il peggiore degli atteggiamenti sarebbe quello di chi cercasse colpevoli piuttosto che ulteriori alleati e nuove strade.

Si può fare ancora molto

E’ infatti indispensabile rimotivare o motivare per la prima volta ampi settori della pubblica amministrazione nazionale, regionale e locale sulla realizzazione dei progetti di sistema voluti dalla rete dei parchi e da molti altri, proposti spesso in sede ministeriale, e non completamente recepiti localmente, oppure, viceversa, proposti localmente e non sempre appoggiati ai piani superiori. Come scrive Anna Natali esiste a tutti i livelli un forte problema di innovazione. Su questo terreno sarebbe possibile operare confronti, e condivisioni, e tavoli di confronto e di collaborazione. Avendo ben presente che a nessuno si può seriamente chiedere di agire in assenza di consenso diffuso, e di un vero e proprio “conforto” culturale oltre che, naturalmente, politico con la maiuscola. Esistono oggi ritardi della Politica che scardinano processi, o almeno li rallentano e a volte li congelano e li dirottano. Esistono ritardi culturali e anche ricadute pesanti di mancate riforme dei meccanismi amministrativi nei ministeri, nelle regioni e nelle strutture provinciali e comunali. E questi ritardi rischiano di condizionare troppo. Dunque occorre favorire i processi di innovazione e in questo vedo un ruolo del mondo delle aree protette, di quella parte che già funziona, che accumula buone pratiche, che crea davvero una cultura nuova che può e deve contagiare positivamente la cultura in senso stretto e la cultura delle tecnocrazie. L’impressione che ho spesso è quella che questi due mondi, le aree protette e le tecnocrazie di vario grado, si parlino ancora troppo poco . Le verifiche sui molti passi avanti compiuti possono essere fatte. Si possono fare caso per caso, settore per settore, ministero per ministero, oppure possono essere un unico tema di valutazione, un unico motore che potrebbe orientare e selezionare gli impegni di spesa. Anche qui, senza inventare nulla o scoprire l’acqua calda. Esistono strutture pubbliche, ministeriali, già oggi in grado di misurare i risultati degli interventi pubblici con indicatori anticipatori capaci di fornire risultati attendibili con pochi mesi di ritardo rispetto al periodo di riferimento: penso alla banca dei Conti Pubblici Territoriali (CPT) attualmente attiva presso l’Unità di valutazione degli interventi pubblici del ministero dell’Economia e delle Finanze. Esistono temi che potrebbero fornire contemporaneamente informazioni sul recente passato e progetti per interventi immediati. Mi limito ad un solo esempio: i piani per gli interventi organici di sviluppo socio economico nei parchi regionali e nazionali. Si potrebbe con un lavoro non difficile rilevare chi li ha approvati e chi no, che cosa hanno prodotto in indicazioni di lavoro, se quelle indicazioni sono state applicate e che risultati hanno prodotto, se quei risultati si sono ripetuti nel tempo, se i parchi si sono messi in rete o si sono collegati in reti più vaste per sviluppare quelle politiche di sviluppo. Un inizio di lavoro simile, anche se meno dettagliato, è stato avviato per le regioni dell’Obiettivo 1 nell’ambito di un Gruppo di Lavoro promosso dalla Rete delle Autorità Ambientali e della Programmazione, e le considerazioni che si possono fare su questa mole di dati è un utile esercizio per guardare al futuro con cognizione di causa e focalizzare gli sforzi dove serve. Non so se avere oggi come riferimento la biodiversità nel lavoro di programmazione dei fondi strutturali piuttosto che la rete ecologica sia un passo avanti oppure un passo indietro. E in fondo non credo che sia possibile dare al quesito una risposta secca, valida per ogni segmento della realtà nazionale. Quello che so è che ogni strada presuppone una meta. E che è la meta piuttosto che la strada sulla quale occorre avere certezze condivise.

Un paio di scenari contrapposti

Se la meta finale fosse il consolidamento e il miglioramento di quanto è stato messo in campo fino ad oggi per dare corpo alle teorie di sviluppo sostenibile e di tutela attiva, se questa meta finale fosse vista come un risultato che dovrà essere ottenuto utilizzando molto la cultura delle aree protette e la capacità dei parchi e delle riserve terrestri e marine di essere laboratori di nuovo sviluppo sociale ed economico, e se questo risultato potesse essere perseguito in leale e costante collaborazione di ogni livello delle autonomie locali, delle Regioni e dello Stato centrale, utilizzando quanto verrà messo a disposizione dalle sempre meno generose tasche europee, alla fine potremmo anche scoprire – sorprendendoci positivamente – che l’obbiettivo della tutela della biodiversità è un passo avanti importante. Se viceversa le cose non andassero così, se nessuno si collegasse e cooperasse davvero, se continuasse la gara alle autosufficienze e agli egoismi territoriali o di corporazioni, o di direzioni generali, o di assessorati, allora il trend sarebbe molto negativo e nessuno potrebbe onestamente vantarsi di alcunché. In conclusione, non possiamo accontentarci di fare il conto alla rovescia dei pochi anni che ci separano dal 2010 per salvare il salvabile della biodiversità. A me pare possibile disegnare scenari più elaborati, e forse più ambiziosi, di reti interagenti e aggreganti (di livelli istituzionali, di enti, di categorie, di valori sociali ed economici) nel quadro di un solido e riconosciuto bilancio di contabilità ambientale per dare senso e sostanza all’idea di uno sviluppo diverso e possibile, del quale a volte si parla, e non solo nelle piazze.

di Laura Pettiti
Task force fondi strutturali Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio