Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 46 - OTTOBRE 2005




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ASPETTANDO I PARCHI


Le agenzie battono una nota del ministro dell’ambiente che annuncia per la nuova legislatura repubblicana una nuova legge sui parchi per evitare ritardi e commissariamenti. Non è la notizia più stravagante che capita di leggere in questa fase.

In cronaca locale marchigiana si legge che qualcuno suggerisce il rilancio del progetto Cip, coste italiane protette. In alcune riunioni nazionali si sente parlare dei parchi come di possibili molle per un nuovo sviluppo della penisola italiana. Forse vale la pena di riflettere meglio sullo stato delle arti, onde evitare reazioni di rigetto, o apnee da fiato sospeso aspettando Godot. Quando grandi disegni culturali e politici si misurano con la realtà c’è bisogno di molta umiltà e di molta passione da parte di chi li considera giudiziosi per dare tempo all’universo mondo di accettarne le implicazioni e di condividerne gli scopi e i percorsi. Su questa nostra rivista abbiamo non solo registrato per molti anni i progressi delle tesi che individuavano nelle aree protette un punto di forza dello sviluppo sostenibile locale, e, messo in rete e fatto sistema, nazionale o di vaste aree. Abbiamo fatto di più. In molte occasioni abbiamo approfondito i nodi, smussato i punti di frizione, governato la complessità dei processi in atto affinché i ritardi di alcuni non compromettessero i risultati di tutti. In questo lavoro lento e molto delicato se qualcuno ha svolto spesso un lavoro di supplenza questo qualcuno è stato il proprietario di questa rivista, vale a dire l’associazione delle aree protette italiane. Chi ha preso parte attiva in questo percorso ricorderà le tappe fondamentali di un lavoro che ha trovato nelle elaborazioni di Valerio Giacomini una sorta di bandiera, che sventolò per alcuni anni a Gargnano, in convegni internazionali che affrontarono con largo anticipo temi che diventarono successivamente questioni essenziali per l’attività dell’ambientalismo italiano. Assieme a quegli appuntamenti legati a Valerio Giacomini molti altri se ne svolsero, a partire dalle assemblee e dai congressi di Federparchi che non furono mai mere registrazioni della pur importante e crescente capacità dell’associazione di unire le aree protette in una capacità di analisi comune, e proseguendo con il lavoro sui progetti di sistema in area vasta, con la riproposizione costante del valore e del primato della tutela della biodiversità, sulle necessità delle aree montane, costiere e marine, e sulla opportunità di considerare i parchi laboratori di un differente sviluppo del nostro Paese. Chi negasse questa storia, avrebbe problemi seri di memoria, oppure sarebbe vissuto all’estero per molti anni. Se una critica si può fare a questa mia ricostruzione è di essere sommaria e sbrigativa, di dimenticare passaggi molto importanti e successi altrettanto importanti della cultura espressa negli anni dal mondo delle aree protette. Tuttavia a me sembra che questo flusso di lavoro culturale, che si è misurato negli anni con il lavoro di altre culture ambientaliste presenti in Italia, spesso mescolandosi con esso e interagendo, e alcune volte configgendo, come è fatale che accada, pur producendo effetti importanti, e supplendo ai ritardi di molte strutture istituzionali, pure non abbia prodotto l’effetto principale che si proponeva di raggiungere: fare in modo che la maggioranza dell’universo mondo accettasse le implicazioni del progetto che veniva proposto, condividendone scopi e percorsi a tal punto da fare adottare provvedimenti amministrativi conseguenti. Sbaglierò, ma a me pare che quel processo di condivisione crescente del progetto dei parchi negli ultimi anni abbia subito fortissimi colpi, e che esistano indicatori talmente forti dell’arresto del processo che non possono essere ignorati. Non li elencherò tutti. Mi limiterò, anche in questo caso, a dire qualcosa lasciando molto altro nello sfondo. I progetti di sistema sui quali la cultura delle aree protette ha lavorato nel decennio scorso si chiamano soprattutto “Convenzione delle Alpi”, “Appennino parco d’Europa”, “Coste italiane protette”. Esistono altri progetti importanti, altre buone pratiche unificanti. Ma quando si parlava di progetti di sistema, quando alla seconda conferenza di Torino delle aree protette si parlò di progetti di sistema i gioielli di famiglia erano quelli. Accanto ai gioielli di famiglia c’era la costante rivendicazione di carta della natura. C’era la rete ecologica. C’era la rivendicazione mai incassata di un sistema nazionale di aree protette, al quale molti (ministero dell’ambiente in testa) contrapposero il sistema delle aree protette nazionali, che non solo è altra cosa, ma è soprattutto il modo migliore per disperdere dividendolo in due tronconi il progetto unitario che avrebbe dovuto consolidarsi ed affermarsi. A questo punto dell’analisi corre l’obbligo a qualunque ricapitolatore di coprirsi le spalle dall’accusa di criminalizzare il ministero ignorando le responsabilità parallele e complementari dei Comuni, delle Province e delle Regioni. Anch’io quindi ribadirò quello che è noto a tutti: a sgangherare il sistema nazionale delle aree protette hanno provveduto con analogo sfoggio di ritardo culturale o di sostanziale identità nella visione amministrativa tutti i segmenti dello Stato nazionale, dai ministeri alle nuove roccaforti del centralismo regionale fino ad arrivare ai Comuni che non è giusto lodare sempre prescindendo dai limiti dei loro comportamenti. Basterebbe ripercorrere la storia della non istituzione dell’area protetta marina della costa del monte Conero per capire quanto sia indifendibile il pregiudizio che vede nei Comuni il momento più alto della cultura amministrativa in sede locale. Qualora le molte sagge idee che negli anni hanno intasato i convegni trovassero applicazione nei fatti forse davvero il Comune, specie se piccolo, potrebbe diventare la leva di ogni modernizzazione intelligente. Qualora finisse il tempo dei Sindaci feudatari, arroccati nei confini del loro castello, delle Province in cerca di ruolo accentratore e delle Regioni portatrici di un centralismo di seconda mano gestito da personale troppo spesso di risulta e da giunte selezionate nel mercato della politica in crisi di credibilità e di sostanza… Ma la realtà oggi è diversa. E il confronto con l’Europa si fa camminando con queste gambe. Sicché la modesta opinione di un direttore di rivista uscente è che tutto questo non può essere detto solo a titolo confidenziale, ovunque, ma che possa essere parte di un ragionamento sereno e costruttivo sulle prospettive dell’Italia dei parchi, e dell’Italia relativamente ai parchi. Non so se lo strumento che le aree protette italiane si sono date per monitorare certi problemi, OPE, l’osservatorio sulle tendenze europee, stia registrando quello che sto per scrivere. Tuttavia a me sembra che nelle politiche effettive di altri importanti stati d’Europa (la Spagna, la Francia, ad esempio) ci sia un maggiore e migliore riconoscimento del ruolo delle aree protette nei processi di sviluppo sostenibile. Sbaglierò, ma anche grazie alla esperienza fatta in Fedenatur, l’associazione europea dei parchi periurbani e metropolitani, mi pare di poter dire che in alcuni stati “trainanti” d’Europa le aree protette sono entrate a giusto titolo e con il giusto ruolo nelle politiche di sviluppo, sia nei passaggi che si effettuano senza forti investimenti di fondi pubblici (a volte si ripete che molto si può fare anche senza finanziamenti: l’argomento è pericoloso come una lama senza manico, ma non è privo di fondamento), sia nelle realizzazioni dove gli investimenti saltano fuori ogni volta che esista un robusto consenso culturale e politico. Restando sul tema dei fondi, non dovrebbe sfuggire a nessuno il bilancio dei fondi strutturali negli anni passati, e l’impostazione della programmazione di quei fondi per il periodo 2007 – 2013. Questa rivista si è occupata di quel tema in passato, e torna a occuparsene anche in questo numero in più di un articolo. Non è la questione delle questioni, naturalmente. Forse non esiste neppure la madre di tutte le questioni… Ma pur dimensionando importanza ed effetti, io non credo sia senza significato che nei nuovi documenti per la prossima programmazione dei fondi strutturali si parli di biodiversità e non si parli più di rete ecologica. Chi si domanda se si tratti di un passo avanti o di un passo indietro (e penso a Laura Pettiti, che dedica a questo interrogativo il suo articolo di pagina 125) non si pone una questione frivola nè strampalata. La definitiva emersione del tema della difesa della biodiversità non può farci che piacere. Tuttavia nella vecchia dizione “rete ecologica” era contenuta una sfida ulteriore, rispetto alla semplice tutela della biodiversità. L’idea (che in alcuni casi è diventata progetto e realizzazione) era quella di usare un unico concetto (la rete ecologica) per far dialogare la conservazione della biodiversità con tutti gli sforzi per creare una economia diversa a partire proprio da quelle risorse naturali tutelate. L’idea della “tutela attiva”, lo slogan “tutelare per valorizzare, e valorizzare per tutelare meglio” rischia di essere risucchiato indietro… Non c’è da meravigliarsi troppo sei i processi amministrativi subiscono alti e bassi, accelerazioni e rallentamenti. Che il progresso non sia lineare, e che i concetti non siano mai acquisiti per sempre è una scoperta antica. Oggi occorre avere piena coscienza delle accresciute difficoltà di interrompere il declino economico e di rilanciare l’economia nazionale utilizzando anche, come strumento aggiunto, ma consapevolmente e pienamente, il laboratorio dei parchi. A questo proposito non so se fanno bene a dichiarare di essere su questa linea gli amministratori che al momento della definizione del bilancio del loro ente si rassegnano a decurtazioni tali della spesa per le aree protette da rendere evidente una schizofrenia culturale da ricovero immediato. Non so se facciamo bene noi, che non abbiamo fondi adeguati per attuare quello che è scritto nei piani di sviluppo socio economico dei nostri parchi, a promettere meraviglie che non manterremo non avendo risorse e non avendo consenso né appoggi indispensabili a molteplici livelli. La questione è molto seria, e credo sia utile porla in questa sede come tema di riflessione collettiva. Se i livelli di condivisione culturale del progetto di sviluppo sostenibile sperimentato nei laboratori dei parchi e generalizzabile nel resto del Paese restassero nei mesi che verranno quelli che oggi è possibile toccare con mano nei ministeri come nei Comuni, nelle Regioni come nei programmi elettorali dei partiti politici, facciamo l’interesse del nostro Paese a continuare a raccontarci una favola bella, che sicuramente non si tradurrà in una spinta forte alla crescita economica e sociale? Pensiamoci bene. Nel lontano 1953 il drammaturgo, poeta e romanziere irlandese Samuel Beckett morto a Parigi diciassette anni fa, immaginò la vicenda dei due mendicanti, Vladimiro ed Estragone, che aspettano in aperta campagna Godot, dal quale sperano di ricevere risposte definitive e una sistemazione ai loro problemi. Come tutti sappiamo Godot non arrivò. Forse sarà bene avvertire tutti coloro che temono l’arrivo di nuovi parchi marini, e quanti hanno l’angoscia che gli ambientalisti sottraggano fondi pubblici essenziali per lubrificare il declino globale in corso e la distruzione della biodiversità in atto, che se questi sono i barbari che temono, non arriveranno, e se questo fosse il Godot che aspettano, non è aria che si presenti neppure lui.

di Mariano Guzzini