Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 46 - OTTOBRE 2005




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ECOMUSEI E PARCHI, UNIONE VINCENTE

Quando il territorio e la sua storia umana e ambientale diventano fattori di sviluppo

Territorio, paesaggio, comunità, identità: sono parole che sempre di più sentiamo permeare il dibattito sul futuro del nostro paese, invocate come elementi da valorizzare e come risorse che possono essere giocate al tavolo di uno sviluppo ecosostenibile foriero di economie innovative e di nuova occupazione. Sempre di più si va affermando l’importanza strategica di alcuni settori -ritenuti prematuramente superflui o per lo meno marginali, negli anni delle “magnifiche sorti e progressive”, dell’industrializzazione- nel rilancio dell’economia e delle opportunità occupazionali del territorio. Non è affatto casuale, allora, che identità, storia, memoria, cultura, siano indicate come componenti significative in quello che viene chiamato “brand” territoriale. Si tratta di uno strumento efficace nelle politiche di sviluppo che hanno indotto, o costretto, la competizione tra terrirtori, in quest’epoca di globalizzazione. Richard Sennett colloca, tra le conseguenze involontarie della globalizzazione, di «avere valorizzato il valore dei luoghi» e innescato il desiderio di comunità che ne consegue. Ma il legame comunità-località non è più un tratto necessario o destinale. Ha scritto Geertz: «che il mondo in ogni sua località stia diventando sempre più simile a un bazar kuwaitiano che a un club per gentiluomini inglese… appare rovinosamente chiaro… la maggior parte di noi incontra oggi serie difficoltà nel determinare con esattezza il centro di questo immenso assemblaggio di differenze sovrapposte». Siamo ormai proiettati verso una “folla solitaria” nella quale ogni singolo individuo globalizzazto apparentemente è in relazione con il mondo, in realtà è sempre meno in contatto sociale con la sua comunità e ha perso o rischia di perdere i punti fissi di orientamento, con i valori storici e culturali che vi si connettevano. L’insicurezza alimenta nostalgie dell’Heimat, dell’identità con il territorio, inteso come spazio e luogo ma anche tempo, affetti, sentimenti. Sembrano queste le residuali ancore di salvezza nel mare di un’identità in frantumi. Un atteggiamento che non è esente da pericoli e che rischia di alimentare tribali pretese al primato dei nativi sugli arrivati, degli autoctoni sui migranti. Quando ci occupiamo di culture del territorio non possiamo comunque prescindere da un lavoro sulla “comunità affettiva”, perché nessuna azione di valorizzazione è efficace se non si esercita e si riconosce all’interno di una comunità che sappia essere “comunità di sentimento”, non di sola ragione, non di meri interessi. Se oggi vogliamo mettere in valore il territorio, introdurre l’elemento paesaggio come prezioso bene culturale, dobbiamo ricomporre questa dimensione comunitaria dei saperi territoriali che formano la cultura. Il cosiddetto “brand” territoriale può funzionare solo se sappiamo mettere in valore ciò che sul territorio rappresenta un valore, che è cosa diversa dal conferire valore a qualcosa per trarne maggiore utilità. La valorizzazione del nostro patrimonio culturale non può essere affidata solo a una comunicazione pubblicitaria ridotta a fattore puramente tecnico che promuove “griffe” e marchi territoriali cercando di influenzare i consumatori piuttosto che gli elettori, ma deve essere comunicazione pienamente compresa nella dimensione culturale che presuppone informazione e conoscenza ma anche relazione, capacità di mettere in campo soggettività e reciprocità tra persone e gruppi sociali. Assistiamo, oggi, a un ritrovato orgoglio delle radici. Ad esso affidiamo prospettive capaci di elaborare strategie di futuro sostenibile autodeterminato da ogni comunità che, responsabilmente, sceglie il suo destino. Un progetto cui concorrono soggetti diversi. Il connubio parco-ecomuseo, è certamente uno di quelli che ha avuto più fortuna.

Uno strumento efficace: l’ecomuseo

Vocabolo inventato da Hugue de Varine Bohan, l’ecomuseo sintetizza un’idea nata nel 1966, per coniugare una concezione e una visione globale della storia, con l’attenzione crescente nei confronti del territorio. Erano, non a caso, gli anni in cui in Francia -tardivamente rispetto all’Europa- prendeva avvio la politica delle aree protette regionali. Ma la Francia seppe fare tesoro dell’esperienza degli altri Paesi e delle difficoltà di far accettare la politica delle aree protette. In qualche maniera possiamo dire che si fece carico di quella necessità di “territorializzazione delle politiche ambientali” che sarebbe, dopo la Conferenza mondiale di Rio de Janeiro, diventato patrimonio teorico condiviso. Gli ecomusei divennero lo strumento per dare da un lato risposta all’esigenza di concepire i musei da un punto di vista ecologico -vale a dire inseriti all’interno dello sviluppo della vita culturale ed economica di un’area a parco- dall’altra di coinvolgere anche emotivamente le popolazioni delle aree protette nel disegno di costruzione di un diverso modello di sviluppo attento alla natura ma anche all’uomo. Fu nell’incontro di Lurs che Hugues de Varine, Serge Antoine, Jean Blanc, George Henry Riviére inventarono il concetto di ecomuseo, per dare una prospettiva all’evoluzione concettuale del museo del territorio consolidatosi nella tradizione del nord ed est Europa. Le prime realizzazioni furono messe a punto nell’isola di Ouessant, al largo delle coste bretoni, nella Grande Lande di Guascogna e a Le Creusot, cuore minerario della Borgogna. Fu George Henry Riviére a elaborare la versione definitiva del concetto di ecomuseo, verso il 1980, e André Desvallées la tradusse in una carta che tentò di sintetizzarne i concetti. Si trattò della modernizzazione del concetto di museo del territorio, che si integrò, molto bene con la nascente politica delle aree naturali protette. E che, anche in Italia, maturava, per dare risposta alla necessità di integrazione tra tutela delle componenti strettamente naturalistiche con quelle più generalmente ambientali cui concorrono aspetti sociali e culturali . Basti, su tutti, il riferimento al Museo Storico Naturalistico della Valmalenco che risale al 1970 e che, in qualche maniera, riprendeva gli stessi riferimenti di base della concezione ecomuseale. Nel 1984 la Regione Basilicata promuoveva un Convegno internazionale di studio per l’istituzione dell’Ecomuseo del Pollino area interessata anche da un progetto di parco nazionale; nello stesso anno prendeva consistenza il progetto svizzero, in Canton Ticino, dell’Ecomuseo della Valle di Muggio. In seguito l’ecomuseo ha fatto incontri importanti, con altre esperienze che spesso sono nate dalla stessa esigenza di dare rappresentazione e rappresentanza al territorio e alle sue qualità. Durante il suo cammino ha incontrato, i musèe de societè, il museo diffuso, le mappe culturali, lo statuto dei luoghi, per citare solo le evoluzioni più recenti, mentre la finestra sull’Europa ha consentito raffronti con analoghi significativi casi, da quelli dei musei “del villaggio” e “all’aperto” dei paesi balcanici e scandinavi, alle iniziative per il “cultural heritage” dell’area anglosassone, piuttosto che agli “heimatmuseen” germanici o le recentissime declinazioni in ambito africano. In questa avventura l’ecomuseo non ha mancato di incrociare possibili sinergie con la politica dei parchi e delle aree protette, piuttosto che con il sistema dei musei tradizionali nati per la valorizzazione del patrimonio demoetnoantropologico. A questo proposito, va sottolineato come l’esperienza ecomuseale abbia dato un contributo importante al passaggio dal concetto di “bene culturale” a quello di “patrimonio”; dall’esaltazione del valore materiale e patrimoniale degli oggetti -intesi nella loro unicità o singolarità e selezionati per il loro valore artistico- alla messa in valore, nel museo, di materiali diversi, anche di per sé umili e di scarso valore, ma significativi per la loro capacità di parlare, di raccontare la storia, o le storie, di una comunità. Una evoluzione dal “museo collezione” al “museo narrazione” che nel nostro paese è ancora ai primi passi; timida e debole, nel momento in cui il concetto di “museo collezione” è fortemente radicato, non meno di quello di “bene culturale”, e la politica nazionale appare ancora pesantemente incatenata al principio della tutela, motivo dominante che rischia di affermarsi come una sorta di tabù intoccabile, a volte affiancato da un concetto di valorizzazione, che stenta a definirsi e rischia di produrre balbettii inefficaci quando, non addirittura, esperienze che non possono essere condivise. E’ evidente che la comparsa, in questo scenario, degli ecomusei come strumento di valorizzazione della cultura materiale, ha rappresentato uno stimolo forte alla modernizzazione della museologia, rilanciando, allo stesso tempo, l’attenzione nei confronti di uno straordinario patrimonio demoetnoantropologico salvato dall’iniziativa privata di singoli o associazioni, in numerose collezioni e raccolte diffuse sul territorio, spesso al di fuori di politiche pubbliche. Gli oggetti e i segni della cultura materiale hanno significato l’esigenza prima e il risultato poi, di fissare specifiche emozioni che hanno contribuito a definire precisi sentimenti di appartenenza, un senso comune in cui riconoscersi. Ed è proprio questo obiettivo, di specchiarsi per riconoscersi e dallo specchio proiettarsi nel futuro, il motore primario dell’affermarsi, anche in Italia, dell’ecomuseo. L’ecomuseo è il luogo, ma anche lo spazio mentale, è la piazza, l’agorà della comunità che non rinuncia a interrogarsi, che stimola lo spirito critico, accentua le diversità per riconoscerne la ricchezza e per farne sintesi condivisa. Oggi la risposta da ricercare per prima è senza dubbio quella che punta a riconciliare lo strappo dell’uomo e delle sue attività con l’ambiente di vita, il territorio, il paesaggio, la natura violata nelle sue fondamentali regole vitali, dalle quali nemmeno la specie umana può prescindere. L’ecomuseo è oggi lo strumento probabilmente più efficace per dare concretezza a un bisogno che è nel nostro immaginario ferito dalla labilità di un sistema di valori e di punti di riferimento. Può essere una risposta per riconciliarci con una storia generazionale interrotta nel suo naturale evolversi, dalla irruzione prepotente dell’epoca industriale, la stessa che in poco più di un secolo ha comportato un aumento esponenziale dell’entropia, divorando più energia di quanta sia stata consumata nel resto della storia dell’umanità. E’ anche in questo che sta la vicinanza, se non l’incrocio dei destini, tra ecomusei e aree protette, come strumenti che vanno insieme nello sforzo di inventare, progettare e praticare esempi di sostenibilità del modello di sviluppo. Inutile dire che è proprio a questo proposito che viene il richiamo al prefisso “eco”, come “oikos”, che si riferisce ai numerosi intrecci e relative relazioni, tra uomo e ambiente, habitat e territorio di vita, nicchie ecologiche della specie uomo confrontate con la sua storia. Il rinvio al concetto di territorializzazione delle politiche ambientali annunciato in maniera sistematica, per la prima volta, nell’ambito della Conferenza mondiale sull’ambiente di Rio de Janeiro ’92, è immediato. Così come è evidente il riferimento alle suggestioni del bioregionalismo, l’ipotesi di futuro sostenibile elaborata e messa a punto da Kirkpatrick Sale. Ma forse, basterebbe la consapevolezza dell’appartenenza della specie umana a equilibri universali, che le impongono non soltanto urgenti misure per fare rientrare la comunità all’interno delle regole naturali, ma anche l’etica del dovere, verso di sé e verso le generazioni che verranno. Nuova presa di coscienza e nuovi bisogni si coniugano per dare origine all’esperienza ecomuseale, che non è soltanto una nuova proposta di museologia del territorio, bensì qualcosa di radicalmente diverso e innovativo nel rapporto tra società e cultura e nell’apporto che quest’ultima può dare alle speranze di futuro. Negli anni più recenti questa cultura locale, fatta di tradizione ma anche di capacità di cogliere il presente e di rispondere con intelligenza creativa alle difficoltà del momento, distillando dal suo passato nuovi motivi, in sintonia con l’innovazione, per declinarne il futuro, vive un momento di rilancio. Certo perché tutto questo accada -ed è accaduto, e sta accadendo- né gli ecomusei, né le aree protette, da soli, bastano. Ma la loro progettazione e poi realizzazione, che non prevedono mai una conclusione, ma un continuo rinnovarsi, sono momento di assunzione di consapevolezza fondamentale. In questo percorso di “autoanalisi” prima e di “autocoscienza” poi -indispensabile per non guardare alla cultura metropolitana in condizione di subalternità, ma in piena condizione di pariteticità- l’ecomuseo diviene strumento prima di riflessione, poi quasi terapeutico, capace di sviluppare azioni di rilancio e di animazione autenticamente generate dal territorio, che altrimenti rischia di diventare capace solo di invocarle, aspettandone l’arrivo dall’esterno, con tutte le conseguenze, spesso devastanti, che gli interventi esogeni hanno spesso portato in molte comunità. Noi sappiamo che anche l’ecomuseo può svolgere un ruolo importante nel convincere le persone ad “abitare”, a vivere veramente un territorio e non solo a occuparlo per svolgervi funzioni economiche o peggio ancora per sfruttarlo. Perché lo possa fare è necessario sviluppare al meglio idee che rispondano ai desideri, ai bisogni, alle visioni di futuro. E queste idee vanno accompagnate dallo sviluppo di efficaci strumenti organizzativi. I semi per costruire il futuro sono probabilmente archiviati nel territorio, nelle culture e nei saperi delle società locali. Gli ecomusei possono aiutarci a rintracciarli. Seminarli e garantirne la germinabilità e la crescita, sarà compito e responsabilità che non spetta solo a parchi ed ecomusei, ma da condividere con l’intera società, anche perché il loro ruolo non si limita soltanto alla presa di coscienza dell’importanza della cultura locale e alla sua condivisione e messa in valore ma, in particolare, si traduce anche nel disegnare prospettive di futuro basate sulla sostenibilità sociale e ambientale. L’ecomuseo può candidarsi a essere strumento efficace di stimolo e di sperimentazione per mettere a punto nuove linee lungo le quali muoversi, purchè ci si intenda.

Alcune questioni fondamentali

Prima di tutto la riaffermazione dell’insostituibile ruolo della comunità come unico soggetto che decide di far nascere l’ecomuseo, per soddisfare l’esigenza di raccontare il suo passato, la sua storia, la sua memoria, senza forzature artificiali né tanto meno per inseguire la facile, ma pericolosa, illusione di cavalcare l’attenzione alla cultura del territorio come possibile occasione di sviluppo. L’ecomuseo non può diventare il succedaneo delle agenzie di sviluppo, o di quelle turistiche, anche se può aiutare un territorio ad aumentare la sua attrattività nei confronti di una richiesta di “heritage tourism” in progressivo aumento e che dunque può essere occasione di sviluppo innovativo e di nuova occupazione. L’ecomuseo, infatti, accoglie e ospita volentieri il pubblico, manifestando così la sua volontà di relazionarsi. Ma non è fatto per i visitatori, è prima di tutto fatto per se stessi.
Altrimenti diviene, riduttivamente, una risposta a leggi di mercato, tradisce le ragioni della sua creazione ed è destinato, senza l’alimentazione dell’autentica partecipazione, ad avere un corto respiro. Solo nel primo caso può sviluppare quella funzione educativa che ne rappresenta l’essenza alta di strumento per la trasmissione dei valori su cui la comunità si fonda e che trae linfa dalle generazioni passate per proiettarsi nel futuro, consapevole e orgogliosa della propria identità. Ma questa funzione non si ferma alla memoria, sa costruire una nuova consapevolezza territoriale non solo cognitiva, ma degli affetti, delle emozioni, e non cerca solo conferme, ma sa cogliere i cambiamenti, gli spaesamenti, l’inatteso e l’imprevisto per dare loro risposte innovative utili all’evoluzione della società. Per svolgere questa missione ha più bisogno della partecipazione attiva della comunità che di “conservatori”, anche se un gruppo tecnico scientifico può senza dubbio organizzarne e indirizzarne meglio le potenzialità, i progetti, i sogni. Ma è proprio la comunità -che per definizione rappresenta «una pluralità di persone unite da relazioni e vincoli comuni, in modo da costruire un organismo unico»- il soggetto principe del progetto ecomuseale. Allora l’ecomuseo può rappresentare davvero una risposta al bisogno di “senso del territorio” per affermare identità, diversità, specificità che si sono costituite in una trama culturale che unisce i vari elementi (natura, cultura, tradizione, storia, architettura, religione, lingua, enogastronomia) di un luogo. Perché ciò accada vi deve tuttavia essere la garanzia dell’autenticità, ad evitare da un lato il pericolo della chiusura localistica, dall’altro quello della creazione opportunistica di tradizioni e identità inventate. Se le tipologie non possono essere ricondotte a un modello unico che snaturerebbe le diversità del territorio -che si vogliono invece, per contro, proprio evidenziare- è indubitabile che occorrano alcuni punti fermi di riferimento. Stabilito il soggetto, la comunità, occorre mettere a fuoco l’obiettivo: valorizzare le diversità delle nostre società, rurale e metropolitana, evidenziandone le caratteristiche, le ricchezze, le trasformazioni che ce le hanno consegnate come le possiamo oggi percepire. Gli strumenti perché questo risultato possa essere raggiunto vanno ricercati non solo attraverso testimonianze, oggetti e segni “storici” o storicizzati, ma anche in “presa diretta”, entrando nelle officine, nei laboratori artigianali che trasmettono tecniche, tecnologie, modi e saperi di fare che vivono se sono insegnati, praticati e non solo consegnati alle registrazioni su supporti tecnologici che rischiano di divenire pietre tombali. Ed anche entrando nel paesaggio, come archivio di culture susseguitesi storicamente, per imparare a leggerlo per comprenderne segni, lessico, morfologia, sintassi, per riscoprire una grammatica dei luoghi che ci rivela inaspettati punti di interesse e di conoscenza. L’ecomuseo rappresenta un investimento di intelligenze, una banca dati di progettualità, che non può inseguire il contingente. Ha bisogno di tempi lunghi, di lavoro paziente, soprattutto di fiducia e di speranza nel futuro. Ma può dare risultati appaganti, che sanno unire le diverse componenti del nostro habitat, raccontandone la storia e il divenire in maniera sorprendente e, soprattutto, utilizzando, al meglio, i saperi orali e i saperi di fare. In fondo, sta poi proprio in questo insieme, la sostanza vera della cultura.

di Walter Giuliano