Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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Recensioni

Le Alpi
Una regione unica al centro dell’Europa

Werner Bätzing
Bollati e Boringhieri, Torino 2005
496 pp., 70,00 euro


All’inizio fu “L’ambiente alpino: trasformazione, distruzione, conservazione. Una ricerca ecologico-geografica” (Melograno, 1987), la prima ricerca pubblicata in Italia (l’edizione tedesca è del 1984) da questo studioso tedesco (Kassel, 1949) che ha studiato teologia evangelica e filosofia a Heidelberg, geografia a Berlino ed è dal 1995 professore di Geografia all’Università di Erlangen-Norimberga in Baviera.
Da allora la sua passione e il suo lavoro di studioso non hanno mai abbandonato l’arco alpino facendone uno dei massimi esperti internazionali. Nel 2003, riscritto al 90%, esce l’edizione tedesca che aggiorna la precedente fatica, ed è questo il volume che presentiamo dopo la sua traduzione in italiano dovuta a Carlo Gubetti. Si tratta di un’opera corposa che va di diritto a fianco dei grandi testi sulle Alpi, i Blanchard, i Guichonnet…
L’edizione italiana è curata da Fabrizio Bartaletti professore di geografia all’Università di Genova ed è arricchita da foto e alcuni brevi testi che rendono l’opera adatta alla cultura e alla mentalità dei lettori italiani.
Il libro sta uscendo anche in francese a cura del professor Henry Rougier docente di geografia all’Università di Lione. Per la prima volta dunque un libro monografico sulle Alpi uscirà nelle tre grandi lingue della catena montuosa più importante d’Europa:. «Spero e mi auguro che questo fatto possa aiutare a migliorare la conoscenza di tutto l’arco alpino e aiuti a intensificare le relazioni culturali e politiche tra le regioni alpine con lo scopo di rinforzare lo sviluppo durevole e comune e di indebolire la concorrenza tra le parti nazionali» dichiara l’Autore. Ma è in preparazione anche l’edizione inglese che sarà curata da Donald Friend, professore di geografia all’Università del Minnesota; il punto di vista dei paesi anglosassoni storicamente tra i primi frequentatori e studiosi delle Alpi sarà importante, per un dibattito sul futuro di questa bioregione che dovrà essere europeo. Bätzing porta il suo contributo fatto di venticinque anni di ricerca e di conoscenza, ma anche di affetto, di amore per un territorio dalla storia lunga e complessa e dall’avvenire incerto. Il volume ripercorre diligentemente la prima e non manca di fare proposte per il secondo, in bilico tra la tradizione e l’innovazione, tra lo sfruttamento dissennato delle risorse o il loro impiego parsimonioso ed equilibrato. Inutile dire che l’autore suggerisce la seconda via schierandosi a favore di un’etica del lavoro in linea con il passato contadino delle terre alte che si contrappone alla logica della società dei servizi. La montagna non può ridursi a essere solo lo spazio del divertimento, una vasta area per il tempo libero degli agglomerati metropolitani. Né la sua ricca e sedimentata cultura può vedersi fare il verso dal processo di folklorizzazione della tradizione, reinventata come divertimento a uso turistico. Perché tutto ciò non accada è necessario scongiurare il rischio dell’isolamento dai processi di globalizzazione, evitare l’inesorabile declino se ci si rassegnasse a farne una delle zone svantaggiate dell’Europa. E’ però prioritario, secondo l’Autore, partire da una ridefinizione del territorio alpino, che consenta di attivare adeguate politiche di investimento per settori economici fondamentali come la nuova agricoltura e il turismo sostenibile. Bätzing fa la sua proposta, che deriva da anni di studi, e propone una ripartizione delle Alpi tra gli otto Stati che ne sono interessati per una superficie complessiva di 192.753 chilometri quadrati. Le Alpi possono svolgere un ruolo chiave se sapranno proporsi come il laboratorio avanzato della sperimentazione, ineludibile, dello sviluppo sostenibile. Il futuro delle Alpi va cercato proprio nella sostenibilità, senza insistere in una prospettiva di pura tutela -a inseguire una wilderness che nel vecchio Continente ha lasciato da secoli il passo a un paesaggio fortemente antropizzato- e senza rassegnarsi alle mire di chi vorrebbe farne un semplice parco divertimenti.
Le due tesi contrapposte della “modernizzazione forzata” e del “rifiuto della modernità” devono lasciare spazio a una terza via, quella del “doppio uso equilibrato”. questa l’idea guida di Bätzing: «le Alpi possono realizzare uno sviluppo sostenibile solo non isolandosi dal resto d’Europa e non riducendosi a bacino d’influenza delle singole metropoli, ma restando, o tornando a essere, uno spazio abitativo ed economico relativamente autonomo e multifunzionale, con una propria responsabilità». Dunque dalla “classica” protezione della natura e dal conservazionismo di stretta osservanza occorre passare all’idea di sostenibilità come motore del futuro.
L’Autore sottolinea che questo è stato, fondamentalmente, il passo che hanno fatto le aree protette regionali e che serve come riferimento per poter far convivere le attività umane con il rispetto dell’ambiente e del paesaggio. Dunque quel 16% di territorio affidato ai parchi assume una responsabilità non indifferente nel disegnare il futuro, a patto che il cambiamento di paradigma che essi rappresentano possa affermarsi su tutto l’arco alpino. Può aiutare questa affermazione è necessario che lo spazio alpino si proponga in Europa, sul piano politico, come complesso unitario, una macroregione che deve rappresentare un caso “normale” e non “particolare” all’interno dell’Unione Europea; uno spazio autonomo in cui sostenere con forza l’obiettivo della coesione sociale. E’ ciò che è accaduto con l’Alpine Space, lo spazio di cooperazione europea di Interreg III B, che necessita però di una revisione territoriale che lo riporti all’interno dei limiti territoriali della Convenzione delle Alpi. Ed è proprio quest’ultima, l’altro strumento straordinario a disposizione dell’arco alpino per farlo diventare un antesignano dello sviluppo sostenibile in Europa. Purché gli si sappia restituire slancio e vigore.

Lo specchio del diavolo
La storia dell’economia dal Paradiso terrestre all’inferno della finanza

Giorgio Ruffolo
Einaudi, Torino 2006
pp. VIII-136, 9,00 euro


E’ in forma di ballata, questo testo di economia che inizia dal Paradiso terrestre e da Adamo ed Eva per portarci poi, con estro e divertimento, attraverso una scrittura ironica e vivace, ai rapporti -tema attualissimo- tra economia e politica. E’ questo infatti l’ultimo dei tre nuclei principali attraverso i quali si sviluppa questa specie di storia universale dell’economia, che nei primi due ci informa sullo sfruttamento delle risorse naturali e la loro trasformazione in merce, e sull’invenzione della moneta. L’uomo scacciato da Dio dal Paradiso terrestre, scopre infatti la tecnica, poi il progresso e lo sviluppo portano alla carta moneta e alle grandi turbolenze monetarie che hanno investito in misura e modalità diverse ogni periodo storico, infine ecco i vorticosi rapporti tra soldi e politica e la guerra ingaggiata dal capitalismo che sfida il potere politico. «Un affresco tracciato con formidabile spirito polemico dei meccanismi economici -e più recentemente finanziari- che guidano di fatto buona parte delle nostre scelte e del nostro vivere collettivo», ha commentato Ronconi. Grazie a questa accoppiata straordinaria, capita così che, anche a teatro -ed è piuttosto inconsueto- si sentano i moniti di Nicholas Georgescu Roentgen circa lo sfruttamento delle limitate risorse naturali e si abbia occasione di riflettere sui limiti della crescita e sulle prospettive della decrescita. L’assunto da cui l’autore è partito era rispondere alle domande.«A cosa serve l’economia? E’ al servizio degli uomini o viceversa?». Presentando il saggio, scritto su commissione di Luca Ronconi -che ne ha tratto il soggetto per uno dei cinque eventi teatrali allestiti a Torino in occasione delle Olimpiadi Invernali 2006 nell’ambito di “Progetto Domani”- Giorgio Ruffolo, economista, già Ministro dell’ambiente ha dichiarato: «L’economia a qualche cosa serve e non soltanto per spiegare come le cose vanno, ma come le cose dovrebbero andare... L’economia politica deve poter spiegare quale è il modo in cui le cose possono maggiormente servire per aumentare il benessere, certamente la ricchezza, ma la felicità, la felicità che è inscritta non nei libri di economia, ma addirittura in una delle più grandi costituzioni politiche della storia, la costituzione americana: happiness, la felicità del popolo. Gli economisti dovrebbero essere coscienti che la ricchezza serve alla felicità, che l’economia serve all’uomo e non è l’uomo a servire l’economia...». A voi scoprire le altre risposte possibili.

Parchi, a che punto siamo?
Un’analisi senza omissis della crescita del sistema italiano delle aree protette

Renzo Moschini
Presentazione di Matteo Fusilli
EDT, Pisa 2006
128 pp., 12,00 euro


L’ultima fatica editoriale di Renzo Moschini fa il punto sull’esperienza italiana delle aree protette a quindici anni dall’approvazione della legge n.394 e non poteva giungere in un momento più opportuno. Alla vigilia della nuova legislatura nazionale il suo contributo serve ad aggiornare tutti noi, ma prima di tutto chi si assume le responsabilità di governo, su una politica che non manca di manifestare ritardi, inadempienze, alcune situazioni sgradevoli e, in alcuni casi, l’assenza di una adeguata cultura che permetta una gestione puntuale ed efficiente del territorio attraverso politiche di ecosostenibilità. Un insieme di concause che vengono indicate come responsabili di una situazione generale che ha impedito al sistema delle aree protette di sviluppare sino in fondo le loro potenzialità.
L’obiettivo del libro, indicato dall’Autore stesso, è quello di «fornire qualche spunto per un confronto politico, istituzionale e culturale», che impegni il mondo dei parchi, le Regioni, gli Enti locali e, in particolare, il Parlamento e il Governo, sulle numerose questioni ancora aperte e di cui viene fatto un preciso indice a cominciare dalla “leale collaborazione”, tema caro a Moschini perché si tratta «molto più di un galateo istituzionale», in quanto «la sussidiarietà, ossia il previsto affidamento di tutta una serie di funzioni ai livelli inferiori, a partire dal Comune, è il palese riconoscimento di questo nuovo protagonismo istituzionale che parte dal basso e non si affida più ad un potere centrale e burocratico che fa il bello e cattivo tempo». L’argomento ha una rilevanza fondamentale nel sancire la riuscita o meno della politica di tutela della biodiversità che si attua attraverso le aree protette e si richiama a quel concetto di “territorializzazione” delle politiche ambientali scaturito, come necessità, dal vertice di Rio. Vale anche per i parchi: «le scelte, le decisioni di un parco debbono essere prese con il consenso, il sostegno, la condivisione delle comunità che si esprimono principalmente, anche se non esclusivamente, attraverso la loro rappresentanza elettiva». Eppure non è ancora scontato, anche se gli sviluppi recenti delle politiche nazionali hanno visto, ben più che in passato, applicato questo precetto, grazie anche all’esperienza innovativa delle politiche regionali. Non a caso Renzo Moschini riserva un’attenzione particolare all’esperienza delle aree protette regionali che hanno impresso un segno di modernità alla politica dei parchi prima ancora della legge quadro nazionale del 1991.
E’ grazie a quelle iniziative che oggi la realtà italiana dei parchi presenta cifre e percentuali alle quali le aree protette regionali contribuiscono in modo del tutto paritario rispetto a quelle nazionali ed evidenziamo i risultati importanti conseguiti nella gestione, tutela, partecipazione delle comunità locali, valorizzazione e promozione delle qualità territoriali.
Proprio quei risultati e quelle esperienze hanno reso evidente il protagonismo delle comunità locali che è diventato uno degli elementi fondativi dell’esperienza di gestione delle nostre aree protette.
Si potrebbe dire che la lezione di Valerio Giacomini è stata, finalmente, ascoltata.
Non solo, ma questo indirizzo è stato successivamente sancito dalle constatazioni del National Park Service statunitense il cui documento del 2001 “Ripensare i Parchi nazionali per il 21° secolo” afferma che la nuova frontiera deve essere quella di «coinvolgere le autorità locali, seminare l’etica dei parchi, lavorare con i cittadini, dialogare col Paese» e, più recentemente, dalle conclusioni di Durban dell’IUCN in cui si afferma la necessità di un” «nuovo modello e di un nuovo approccio alle aree protette«» e di «un impegno deciso per il coinvolgimento delle comunità locali e delle popolazioni autoctone nella creazione, istituzione e gestione delle aree protette”, di “una gestione delle aree protette che consente alle popolazioni autoctone e alle comunità locali di condividerne i benefici».
Dunque si tutela efficacemente il territorio più con la condivisione e la compartecipazione che non solo con perimetri, decreti e misure di salvaguardia stabilite per legge; solo contribuendo a quei percorsi si raggiunge la consapevolezza che la protezione del patrimonio naturalistico e culturale rappresenta il bene più prezioso, anche a fini di sviluppo, per quei territori di pregio che hanno meritato l’istituzione dell’area protetta. Perché ciò accada è però necessario sovvertire la radicata convinzione secondo cui la gestione territoriale è più virtuosa se esercitata lontano dai cittadini e dalle loro espressioni democratiche. C’è stato un momento storico in cui ciò era verosimile e se si fossero attesi i tempi della maturazione e della consapevolezza non avremmo più avuto territori da proteggere; ma per fortuna la cultura della necessità di un corretto rapporto con l’ambiente si è consolidata quasi dappertutto e se è vero che ancora occorre combattere contro interessi forti che dal territorio vorrebbero solo trarre profitti immediati, è altrettanto vero che oggi si dispone di strumenti adeguati per impedire la rapina perpetrata in passato.
Soprattutto è oggi importante avviare processi di partecipazione che offrano ruoli di protagonismo ai cittadini che sul territorio vivono e lavorano; i parchi possono e debbono farlo conquistando consensi sempre più ampi.
Il lavoro di Moschini sottolinea un’altra esigenza: la necessità di una più stretta relazione tra politiche regionali e nazionali, oggi ancora separate e non nel solco di quella leale collaborazione che viene invece loro richiesta.
Il raccordo e l’accordo sono necessari più che mai se si vuole confidare nel ruolo delle aree protette per il rilancio del Paese e per il suo futuro.
Lavorare in rete, fare sistema, è importante anche in questo settore; lo è a livello internazionale, deve esserlo, ancora di più a livello italiano dove urge dare concretezza ai progetti di sistema già individuati con l’art. 2 della L. 426/’98, per l’Arco alpino, le isole le aree marine, cui andrebbero aggiunti il Bacino del Po e le Coste italiane.
«Si va sempre più delineando e precisando il superamento dei temi ambientali quali aspetti settoriali e tali, perciò, da ricomprendere l’insieme delle politiche e degli interventi anche economico-sociali», afferma l’Autore e «nel dibattito internazionale e soprattutto europeo su temi decisivi quali la biodiversità e il paesaggio, assunti come punti di riferimento essenziali per il complesso delle politiche comunitarie e nazionali… si è affermata una supremazia dell’ambiente alla quale devono -per così- dire sottostare tutte le altre scelte, comprese quelle economiche».
Dunque l’apertura all’Europa, tema fortemente sentito da Renzo Moschini che ha voluto far nascere Ope, l’Osservatorio sui parchi europei dopo aver constatato che «leggi, direttive, regolamenti, programmi e progetti comunitari riguardanti l’ambiente e i suoi settori più rilevanti quasi mai facevano e fanno riferimento esplicito e diretto ai parchi».
Eppure le aree protette dei 25 stati membri sono circa 27.000 -per una superficie di 64 milioni di ettari, pari al 16,2 per cento dell’intero territorio dei Paesi dell’Unione- e di queste più di 600 sono parchi ai quali è affidata la gestione di vasti territori, caratterizzati da straordinarie risorse naturalistiche, paesaggistiche, storiche, culturali ed economiche
La prospettiva europea è dunque quanto mai necessaria per «rilanciare una Europa capace di interpretare e di farsi carico non solo di ragioni meramente economiche e di mercato, ma anche di valori comuni che appartengono alla storia, alla cultura, alle migliori tradizioni del Continente.Tra questi valori fondamentali e fondativi è innegabile che la conservazione della natura, del paesaggio, delle tradizioni culturali, occupino un posto niente affatto marginale o secondario».
L’obiettivo è che l’Europa dei parchi possa, al più presto, operare in modo coordinato, con programmi unitari, anche di carattere internazionale; ciò significherebbe moltiplicare in modo esponenziale la propria efficacia divenendo uno strumento formidabile per l’applicazione di serie ed efficaci politiche di gestione durevole del territorio.

Battaglie senza eroi
I beni culturali tra istituzioni e profitto

Salvatore Settis
Electa, Milano 2005
410 pp.,18,00 euro


L’Autore presenta la raccolta organizzata dei suoi articoli e interventi sull’attualità dei beni culturali dal 2002 ad oggi. Si tratta del naturale seguito di quel “Italia S.p.A.” pubblicato nel 2002 da Einaudi.
Al centro dell’attenzione e della denuncia dello studioso ed editorialista, il nostro patrimonio storico e artistico, ancora una volta sul baratro della voragine speculativa e destinato a perdere il suo valore primario: essere simbolo della nostra storia, della nostra cultura e base del nostro futuro.
Ecco allora questa testimonianza di impegno civile, oseremmo dire civico, in cui personaggi come Settis sono ancora troppo isolati. Una battaglia condotta con le armi delle idee, fortemente sostenute dalla competenza scientifica, e dell’opinione da rendere pubblica e da condividere attraverso gli organi di informazione, sulla stampa, in libreria e, ci si augura, nelle coscienze degli italiani a protezione di quello che da quotidiano e accessibile corre il rischio di diventare privato, esclusivo, sottratto a tutti noi.
«L’essenziale di quanto è avvenuto -spiega Settis nel testo originale inserito in premessa- si può raccogliere in tre filoni principali: la redazione e l’approvazione di un nuovo Codice dei Beni culturali e paesaggistici, i numerosi tentativi (alcuni andati a segno) di smantellare la tutela mediante provvedimenti sparsi e desultori, e infine la gravissima crisi della pubblica amministrazione del settore». Ce n’è abbastanza per preoccuparsi seriamente e per scorrere con attenzione, semmai ci fossero sfuggiti, gli appelli e le denuncie dell’Autore in questi ultimi anni.
Il volume si articola in tre parti principali e i documenti sono presentati in sequenza cronologica, corredati di brevi testi introduttivi che ne mettono a fuoco il contesto.
Nella prima, Il patrimonio culturale in Italia: cronistoria 2002-2005 vengono raccontate, in maniera critica le novità introdotte nel mondo dei beni culturali: la creazione della Patrimonio S.p.A. (giugno 2002) e la pubblicazione delle numerose liste di immobili in vendita; la legge quadro per la tutela della qualità architettonica (luglio 2003) e la legge sul condono edilizio (novembre 2003); la riforma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e le ipotesi di trasformare i già isolati poli museali in Fondazioni. Contemporaneamente, viene seguito l’iter percorso dal Codice Urbani (dalle prime stesure alla definitiva approvazione il 16 gennaio 2004), evidenziando come, in tutta la sua fase di elaborazione, il medesimo Stato che lo stava licenziando abbia continuato a promulgare leggi in chiaro conflitto con il Codice stesso (basti citare, simbolicamente, il tentativo da parte del Consiglio dei Ministri, di introdurre la norma del “silenzio-assenso”, poi rientrato). E dopo la sua entrata in vigore, gli attacchi per smantellarlo: tra tutti, la proposta di una norma tesa a “condonare” ogni commercio illecito di opere d’arte (“archeocondono”). La seconda parte, Passato e futuro affronta temi di interesse storico: riflessioni sul futuro delle forme di gestione del patrimonio e sulla formazione di coloro che tra qualche anno saranno chiamati a tutelarlo, con l’obiettivo di conservare una forte identità culturale del Paese, come si è cercato di fare finora, nonostante sottili ma pungenti e comunque sempre concessi attacchi “dall’interno”. Nella terza parte, una corposa appendice a cura di Denise La Monica presenta, in sequenza cronologica, i principali documenti normativi cui il volume fa riferimento. Dalla lettura del volume esce rafforzata la convinzione che sia necessaria una svolta radicale nella gestione del nostro straordinario patrimonio culturale. A cominciare dalla necessità di avviare una reale politica di investimenti per uscire da una logica che ha sinora elargito briciole ed elemosine del bilancio statale a un settore vitale per il Paese. Investire sulla cultura e sulla ricerca è investire sul nostro futuro. Il degrado istituzionale rispetto alle politiche per il patrimonio viene purtroppo da lontano ed è responsabilità di più di un Governo. Il risultato è un progressivo offuscamento della invidiabile civiltà giuridica che poneva il nostro Paese ai vertici internazionali in questo settore.
Oggi a destra come a sinistra vi è una sostanziale condivisione della prospettiva salvifica che assegna il futuro al museo-azienda e al museo-fondazione. Un futuro che l’Autore ritiene null’altro che un mito impraticabile così come idolo pericoloso è quello della devoluzione regionalistica con la spartizione tra “tutela”, in capo allo Stato e “valorizzazione” attribuita agli enti locali. Ma ancor più nefasto è l’idolo del profitto, con la fantasiosa prospettiva di improbabili profitti, cui rischiano di venir sacrificate le istituzioni, a cominciare da quelle centrali e periferiche dello Stato che spesso sono state le uniche ad opporsi a progetti di valorizzazione tesi sono a compiere devastazioni.
«Non è da un coerente, consapevole progetto di nessuna parte politica che possiamo aspettarci la soluzione della gravissima crisi in cui versa la nostra amministrazione della tutela» avverte Salvatore Settis, che richiama a una presa di coscienza civile il più vasta e diffusa possibile.
Una chiamata in causa per ognuno di noi, affinché nessuno possa sottrarsi alle sue responsabilità di cittadino, invocando il fatto di non conoscere.
Questo volume aiuta ad avere consapevolezza delle gravità della situazione. Forse siamo ancora in tempo per rimediare. Speriamo che l’appello non rimanga inascoltato.

Italia da salvare
Scritti civili e battaglie ambientali

Giorgio Bassani
a cura di Cristiano Spila
Einaudi, Torino 2005
XX-256 pp., 14,00 euro


L’indimenticato autore delle”Cinque storie ferraresi” de “Il giardino dei Finzi Contini”, “Gli occhiali d’oro”, “L’Airone”…, viene opportunamente ricordato, a sei anni dalla scomparsa, con questo volume che raccoglie in maniera organica, per la prima volta, tutti gli scritti che testimoniano del suo battagliero impegno civile in difesa del patrimonio artistico e naturale italiano.
Una convinzione che nasceva dal profondo della sua sensibilità e che lo portò a essere uno dei padri fondatori di Italia Nostra di cui resse la presidenza dal 1965 al 1980.
«Coloro che si sono assunti il compito, senza dubbio indispensabile, e in sé meritorio, di trasormare rapidamente l’Italia, vecchio paese agricolo, in un paese industriale, ci hanno avuti sempre, è intuibile, come fumo negli occhi. Hanno fretta, loro; e, dal loro punto di vista, non hanno torto di averla. Eccoli perciò, quando non possono mandarci direttamente al diavolo, e trattarci da quei rompiscatole che, ahimè non possiamo non essere, eccoli assumere l’espressione rattristata della’amico che consiglia l’amico per il suo bene…»
Negli articoli emerge questa sorta di tolleranza-commiserazione che accoglie chi si batte per il bene collettivo, contrastando lo scempio del paesaggio, il sacrificio dell’ambiente sull’altare delle politiche dell’asfalto e del cemento reclamate come unica strada verso la modernizzazione del Paese. Siamo negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, ma la realtà dell’oggi non è poi così diversa. Salvo che al capitalismo teso, com’è nella sua natura, alla massimizzazione dei profitti -indifferente a scapito di chi e di che cosa ciò avvenga- si è ora sostituito, sempre più spesso, l’intervento pubblico, lo Stato imprenditore -vedi i programmi delle grandi opere pubbliche- non certo più attento a mantenere quelle radici culturali e ambientali che sono il valore aggiunto della nostra pensiola, di quello che fu il Bel Paese.
Ecco che l’Italia continua così ad essere saccheggiata, predata da quei “vandali in casa” messi all’indice da Antonio Cederna, che oggi comprendono anche enti locali e partiti, tutti inchinati di fronte al Dio mercato e pronti ad immolare alla sue logiche anche i territori più belli e preziosi della penisola. Ecco che allora diventa importante, oggi come allora, non lasciar cadere la guardia e continuare in quelle battaglie che furono di Bassani, della sua e delle altre associazioni ambientaliste.
Grazie a questo impegno le valli di Comacchio, la Maremma, Migliarino San Rossore, l’Appia antica, la Foresta di Capocotta, le isole Eolie, sono stati sottratti allo stupro della speculazione edilizia e agli squarci del tursimo di rapina e oggi sono aree protette a indicare strade innovative per un futuro costruito su un’economia e una occupazione ecosostenibili e durevoli.
Grazie a quella determinazione i centri storici di Venezia, Matera, Taranto, non sono stati fatti a pezzi.
Ma i seguaci della retorica del “piccone risanatore” non sono sconfitti e sono ancora pronti a colpire, convinti che l’economia si muove solo in questa maniera e solo così si creano i posti di lavoro.
Per questo è bene che questo volume- arricchito dalla prefazione di Giorgio Ruffolo e da un intervento di Paola Bassani- venga letto, riletto e diffuso, come esempio di ciò che è giusto fare per difendere questa Italia che vale la pena salvare.

L’Italia rovinata dagli italiani
Scritti sull’ambiente, la città, il paesaggio 1946-70

Leonardo Borgese
Rizzoli, Milano 2005
342 pp., 19,00 euro


Appartenne a una razza forte del giornalismo italiano, quello per intenderci dei Mario Fazio, degli Antonio Cederna -e, coincidenza, sposò Maria Sofia, sorella di Camilla e Antonio- ed aveva alle spalle un genitore, il papà Giuseppe Antonio, che fu uno dei più grandi critici militanti della prima metà del Novecento
Dunque le battaglie più avanzate a difesa del nostro patrimonio artistico e culturale sono passate da quella famiglia, capace di far risuonare sulle pagine dei principali giornali il grido forte e spesso disperato a difesa della bellezza, accompagnato da un allarmato e profetico monito contro le devastazioni del nostro patrimonio artistico e naturale: «L’Italia è un grande museo da salvare a qualsiasi costo».
Al grido «A furore rusticorum libera nos, Domine!», Leonardo Borgese fu protagonista per decenni della scena culturale milanese e nazionale combattendo una vera e propria crociata per salvare le ricchezze artistiche, architettoniche e paesaggistiche dell’Italia dalle mode dei suoi architetti, dall’utilitarismo dei suoi abitanti e dalla miopia della sua classe dirigente.
In questo volume sono raccolti gli articoli comparsi sul “Corriere della Sera”, vere e proprie campagne giornalistiche contro il proseguimento degli sventramenti del ventennio, contro gli interventi mediocri o volgari della ricostruzione post-bellica, contro le prime grandi speculazioni, figlie del boom economico, al quale non corrispondeva una ugualmente intensa crescita culturale, contro l’abbattimento degli alberi per far posto a sempre più case, sempre più strade, sempre più automobili.
Con instancabile vis polemica, Borgese chiama in causa il governo, le Soprintendenze, il Genio civile, le amministrazioni locali; invoca uomini di cultura al ministero della Pubblica Istruzione, vantaggi fiscali per i possessori di opere d’arte ed edifici di valore artistico-architettonico.
E’ amaro dover constatare che, al di là del valore storico di questa testimonianza d’amore per la nostra penisola, essa mantiene purtroppo intatta tutta la sua attualità.
E sono pochi, oggi come allora, coloro che hanno il coraggio di denunciare pubblicamente gli scempi, che mantengono in loro la forza dell’indignazione di fronte all’indifferenza, spesso lo scherno, che accompagnano la difesa della bellezza.
Il Presidente Ciampi ha di recente richiamato gli italiani a difendere l’ambiente «dall’aggressione degli egoismi, dalla speculazione, dall’abbandono». Quanti lo hanno ascoltato?
Dove si nasconde l’Italia colta e civile, che pure esiste, e che di fronte a ciò che continua ad accadere, si rifugia in un assordante silenzio?
Bella e intensa la prefazione di Vittorio Emiliani, giornalista, scrittore, già direttore del “Messaggero” e oggi consigliere della Rai, una delle poche figure, cui prima facevamo cenno, da anni impegnate nella tutela del patrimonio artistico e ambientale italiano.