Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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BIODIVERSITA' TRA SCIENZA E MITO

Come ogni anno, il prossimo 24 maggio si celebrerà la Giornata Europea dei Parchi. L’ha voluta la Federazione Europea a ricordo del giorno in cui, nel 1909, nacque, in Svezia, il primo parco europeo. Quest’anno il tema è “I parchi europei per la Biodiversità”.
Abbiamo chiesto a uno dei massimi esperti europei di fare il punto su questo termine, di cui spesso si finisce per abusare. Le riflessioni dopo il seminario di Perugia dell’Accademia dei Lincei.

L’attualità
Il 17 marzo 2006 si sono riuniti a Perugia studiosi di varie materie (Botanica, Ecologia, Fisiologia Vegetale, Zoologia), provenienti da diversi paesi europei, per discutere di biodiversità. Ci si può chiedere se questo fosse davvero necessario, visto che oggi la biodiversità è spesso argomento di articoli di giornali, entra nei programmi televisivi e radiofonici, in relazioni tecniche e programmi politici. Biodiversità è indubbiamente una parola di grande successo: la diversità è un concetto immediatamente comprensibile, il prefisso bio le conferisce un significato scientifico, ed anche aggiunge un effetto accattivante, come nei nomi di tanti prodotti “bio”, che si suppone siano sani e genuini. Quando però si cerca di approfondire il significato di questa parola, compaiono evidenti contraddizioni e ci si trova subito in difficoltà. Vediamo qualche esempio.

Biodiversità in termini convenzionali
Nella recente checklist della flora d’Italia (Conti et al., 2005) sono elencate 6711 specie, che rispetto alle 5770 elencate nella mia Flora del 1982 (di cui solo 5599 con numerazione progressiva) rappresentano un aumento del 16%: un ottimo exploit in poco più di vent’anni, che sembra smentire ogni preoccupazione riguardo alla conservazione della biodiversità nel nostro territorio. Però questo dato si confronta con quello di Thomas et al., nell’autorevolissima Nature (gennaio 2004), che prospetta su scala mondiale la perdita del 15-37% (media: 24%) delle specie entro il 2050, per il solo effetto del cambio climatico.
Italia in contro-tendenza rispetto allo scenario globale, oppure un grossolano errore nell’una o nell’altra stima?
Probabilmente né l’una né l’altra cosa: per quanto sembri paradossale, è possibile che abbiano ragione tutti due, e la contraddizione derivi dal fatto che nei due studi il termine biodiversità viene usato su scale differenti e con significato differente. Questo esempio ci fa comprendere quanto oggi sia necessario chiarire cosa si intende come biodiversità.
In un senso più generale, sembra che il numero di specie presenti su ampi territori non sia un indicatore adatto per valutare la biodiversità: infatti, la specie è una unità astratta, che può venire definita in maniera diversa dagli studiosi, e la superficie del nostro paese è così ampia, che una specie può risultare distrutta in centinaia di casi, ma si deve considerare presente, fino a quando almeno una popolazione ha potuto conservarsi.
Negli ultimi anni sono apparsi numerosi lavori con accurati inventari della flora e fauna di aree protette, e ricercatori volonterosi sono stati in grado di arricchire notevolmente gli elenchi delle specie presenti: questo risultato è interpretato come un aumento di biodiversità. Ad es., per l’area protetta di Castelporziano presso Roma, prima del 1990 erano note 943 specie, mentre una successiva ricerca ha permesso di identificare altre 27 specie portando il totale a 970.
E’ veramente possibile concludere da questo che sia aumentata la biodiversità ?
La risposta non è semplice, infatti, bisogna tener presente che il numero delle specie può aumentare per vari motivi: maggiore accuratezza delle ricerche, nuovi criteri tassonomici (che permettono di interpretare sottospecie e varietà come specie distinte), comparsa di specie aliene, ed anche perché risulta relativamente agevole accertare la presenza di una specie prima non conosciuta per la zona, mentre è molto più difficile accorgersi se nello stesso tempo una specie già nota sia scomparsa. Può anche succedere che alcune popolazioni di un organismo, precedentemente considerato come specie unitaria (vegetale o animale), vengano invece distribuiti tra due o più specie del tutto nuove, ed in questo caso aumenta il numero delle specie ma la biodiversità nell’area considerata rimane eguale, perché le popolazioni divergenti erano già sul posto, prima di essere riconosciute come specie distinta.
Pochi giorni fa (17 marzo 2006) si è svolto a Perugia il convegno internazionale “Diversitas e biodiversità: alla ricerca delle origini di un mito del XXI secolo” con lo scopo di comprendere meglio, cosa si intende come biodiversità. Questo è tanto più necessario, perché molte trattazioni riportano definizioni ambigue o incomplete, oppure considerano la biodiversità come un argomento noto, che non richiede ulteriori commenti. Da qui deriva la tendenza ad esprimere la biodiversità come numero degli elementi presenti nella flora o fauna: nella maniera più banale, se in un ambiente ci sono molte specie, se ne deduce che si abbia elevata biodiversità. Ma questo non è vero. Il numero degli elementi può meglio essere indicato come “densità specifica”, e non ci dice nulla su quanto e come questi elementi siano tra loro diversi. Sarebbe come se si volesse dare una stima del valore di un palazzo come bene culturale in base al numero di mattoni utilizzati per la costruzione. La biodiversità deriva da una condizione di ordine che si può riconoscere tra i componenti della flora o fauna: essa risulta dallo studio delle relazioni tra di essi, e calcolarne il numero rappresenta soltanto una prima approssimazione.

Un po’ di storia
Il convegno di Perugia è stato motivato dalla scoperta che il termine “diversità” è entrato nel linguaggio scientifico già all’inizio del sec. XVII. Il 2003, quarto centenario della fondazione dell’Accademia dei Lincei, ha stimolato lo studio ed il riesame dell’opera dei primi Accademici, tra i quali Galileo Galilei. Negli scritti del fondatore, il principe Federico Cesi di Acquasparta (in Umbria) è stata trovata una pagina interamente dedicata ad illustrare il concetto di biodiversità. Si tratta di un testo in latino tardo-rinascimentale, intitolato “Plantarum inter se diversitas”, un distillato di frasi spesso sibilline, di difficile interpretazione, che però rappresenta una stupefacente anticipazione di quanto oggi si intende come biodiversità. Esso è incluso in un’opera che nella dedica porta la data 1651, ma certamente anteriore. Infatti, cenni riferibili a quest’opera si trovano in lettere del 1617 e 1622, e risulta che Cesi ne aveva corretto la bozza nel 1628, due anni prima della sua prematura scomparsa (1630). Sono gli anni nei quali si sviluppò l’attività scientifica dei primi Lincei, all’inizio del secolo XVII.
In questo periodo, a Roma, Firenze, Padova, Pisa si ha l’epifania del pensiero scientifico, che oggi è divenuto la base culturale del mondo globalizzato. Di questa vicenda si ricorda soprattutto la figura di Galileo per il suo contributo alla nascita della Fisica, ed anche per la persecuzione di cui è stato vittima, ma è interessante notare che contemporaneamente Cesi era arrivato ad intuire alcuni concetti fondamentali della Biologia moderna, come appunto la biodiversità. La Svolta Galileiana è un periodo di profondo rivolgimento: Galileo discute i “massimi sistemi”, un’espressione che da quella volta è entrata nel linguaggio comune, ed anche Cesi è alla ricerca di una forma di “sophia”, cioè saggezza, sapienza. Galileo nel 1624 costruisce il primo microscopio, e lo dona a Cesi: esso permette la scoperta di caratteristiche del tutto nuove dei viventi, come le spore, il polline, gli organi fiorali e -nelle api- l’occhio composto degli insetti. I protagonisti di questa prima rivoluzione scientifica sembrano perfettamente consci di sviluppare idee forti, e del tutto nuove, anche se non possono immaginare il contributo che queste idee avranno nel cambiare la nostra visione del mondo. Di questo patrimonio, che nei primi decenni del sec. XVII veniva precisandosi, soltanto le scoperte di Galileo avranno un effetto profondo e duraturo, mentre le conoscenze raccolte da Cesi resteranno ignorate per quattro secoli, però le sue esperienze saranno ripetute più tardi ad opera di altri ed anche la Biologia potrà svilupparsi come scienza: un secolo e mezzo più tardi, con l’Illuminismo, si arriverà alla prima sintesi. La famiglia dei Cesi apparteneva alla nobiltà vaticana, e Federico risulta essere stato uomo pio ed osservante (come del resto anche Galileo); è abbastanza paradossale che proprio loro, attraverso la fondazione della prima Accademia, abbiano dato un contributo così importante alla nascita del pensiero scientifico, che porterà la Chiesa Romana a perdere la posizione di primato culturale e potere temporale e di cui aveva goduto per oltre un millennio. L’interesse ad approfondire l’origine del concetto di biodiversità, nasce dal collegamento con questo grande avvenimento, e questo ci potrà aiutare a capire meglio il mondo nel quale viviamo, nel quale è sempre più necessario convincersi che la diversità, basata sulla comprensione reciproca, è un valore per tutti.
Anche nella formulazione di Cesi, il numero degli oggetti considerati è irrilevante, e la maggiore importanza è attribuita alle relazioni tra strutture e funzioni dei viventi. La diversità viene riferita soprattutto allo sviluppo in altezza delle piante, che può essere nullo o quasi in quelle striscianti, ma progressivamente aumenta nelle erbe, cespugli e soprattutto negli alberi, tra i quali sono citati il pino, abete e faggio. Oggi questo si può interpretare in base alla teoria delle forme biologiche. Nel manoscritto di Cesi il discorso continua con un approfondimento riguardante la nutrizione delle piante e l’analisi delle modalità riproduttive: con questo si entra nel discorso sulle specie, che oggi sono l’argomento centrale per la definizione della biodiversità. Le piante sono interpretate come un insieme ordinato, regolato dalle leggi della natura. Con la nostra esperienza scientifica attuale, si può aggiungere che, per valutare la diversità, si tratta anzitutto di scegliere il criterio, che ci permette di individuare l’ordine (se esiste) che viene definito dall’insieme degli organismi considerati.
Questo argomento viene qui ripreso, con una nuova consapevolezza, partendo dalla definizione completa ed accurata, pubblicata l’anno scorso dalla Royal Society: «Diversità Biologica significa la variabilità tra gli organismi viventi di qualsiasi origine, includendo, tra l’altro, ecosistemi terrestri, marini e delle acque interne, ed i complessi ecologici di cui essi sono parte. Questo include la diversità entro le specie, tra specie ed ecosistemi. In un senso più generale, la biodiversità trasmette la ricchezza biologica del pianeta Terra. E’ il risultato di un processo, lungo e complesso, di evoluzione della vita, ed include tutti i prodotti di questa storia, molti dei quali sono scomparsi già da molto tempo».
Le parole più significative in questa definizione, sono: “variabilità”, cioè le differenze, ed “evoluzione”, cioè il criterio che dà un senso alle differenze.
Per quanto riguarda l’evoluzione, si può aggiungere che si tratta di un indicatore essenziale ma non unico, perché se ne possono immaginare anche altri, come si vedrà in seguito.

Un nuovo approccio
Date queste premesse, è stato sviluppato il tentativo per arrivare alla valutazione quantitativa della biodiversità, utilizzando i risultati dell’ampia ricerca analitica da noi eseguita sulla flora e vegetazione delle Dolomiti, attualmente in pubblicazione. Sono stati applicati metodi statistici riguardanti sia la variabilità che alcuni aspetti dell’evoluzione.
Per quanto riguarda la misura delle differenze, sono stati sperimentati molti indici proposti da Autori precedenti, ma in generale senza successo. Invece, è risultata utile l’applicazione del metodo del chiquadrato (c2), di ampio uso per problemi di ogni tipo: esso ha permesso di distinguere chiaramente gli esempi di vegetazione discontinua (es. ghiaioni) dai prati stabili e dalla vegetazione boschiva. Si tratta di un aspetto strutturale sicuramente importante, che sembra corrispondere al primo elemento della definizione sopra citata: la “variabilità”, cioè le differenze; esso tuttavia sembra poco correlato con quello che viene considerato il significato generale della biodiversità. Potrebbe essere considerato un fattore di questa. che si può indicare come “diversità strutturale”.
Per quanto riguarda l’evoluzione il problema è più difficile, in quanto una misura diretta finora è impossibile. E’ stata pertanto utilizzata l’informazione derivante dalla distribuzione geografica delle specie (tipi corologici o corotipi), che, benché sia un indicatore indiretto, è la conseguenza di dati di fatto indiscutibili (orogenesi, glaciazioni, tettonica a zolle, trasgressioni marine ecc.). Inoltre, si tratta di dati oggi ben conosciuti e disponibili per tutte le specie considerate. I dati riguardanti le Dolomiti sono stati elaborati sulla base dei corotipi; sono stati eseguiti numerosi tentativi, ma qui si riferisce soltanto su quello che sembra dare il risultato più interessante. Si tratta di quantificare l’identità di un sistema (flora o comunità vegetale) dal punto di vista evolutivo; questo avviene attraverso la misura del contributo fornito dalle specie proprie della zona studiata, rispetto al totale delle specie presenti. In prima approssimazione si tratterebbe delle sole endemiche, ma in questo modo si ottengono dati poco significativi, perché in generale si tratta di specie rare, quindi la loro presenza è spesso soggetta a variazioni casuali. Pertanto, alle endemiche sono state aggiunte le specie derivate dal processo di speciazione legato all’orogenesi terziaria e quelle arrivate sulle Alpi durante le glaciazioni quaternarie. Per ogni ecosistema considerato è stata calcolata la frequenza di due gruppi di specie, il primo costituito dai gruppi sopra indicati, che sono propri della flora alpina, il secondo da quelle che costituiscono lo stock generale della flora eurasiatica. Il rapporto tra i due gruppi fornisce una misura del ruolo svolto dall’evoluzione nel caratterizzare il popolamento di ogni singolo ecosistema.
Il risultato appare molto interessante: i valori elevati si hanno per le associazioni dei ghiaioni, popolamenti pionieri, vallette nivali e vegetazione rupestre. Si tratta precisamente dei luoghi che maggiormente interessano un naturalista che studia l’ambiente alpino, sia come flora che come fauna e cioè quelli nei quali vivono le specie più adattate a questo ambiente. Questo tuttavia è un metodo che va calibrato caso per caso: infatti, i gruppi da prendere in considerazione saranno differenti, se anziché sulle Alpi ci si trova ad es. nella zona mediterranea. Con questo calcolo indiretto è possibile mettere in evidenza la diversità come effetto dei processi evolutivi. Questa può essere considerata una misura di “diversità evolutiva”.
A questo punto sono stati introdotti nel calcolo i dati ottenuti mediante l’applicazione di bioindicatori per i principali fattori ecologici (luce, calore, acqua, acidità del suolo, nutrienti ecc.). Nel caso dei nutrienti, il risultato pone in assoluta evidenza tre gruppi: boschi di latifoglie, soprattutto faggete, boschi di conifere e cespugli di salici subalpini. Si tratta della vegetazione che ha il massimo come biomassa e come produzione di materia organica. In questo modo si definisce un terzo fattore della biodiversità in ambiente alpino: la “diversità funzionale”.
Si apre ora la possibilità di mettere in relazione tra loro i diversi fattori della diversità che sono il risultato di queste elaborazioni: diversità strutturale, evolutiva e funzionale. Sulla base dei tre fattori è possibile distinguere chiaramente le caratteristiche dei vari ambienti. La diversità funzionale caratterizza la vegetazione dei boschi e dei cespugli, con i grandi gruppi delle latifoglie ed aghifoglie. La diversità evolutiva caratterizza la vegetazione alpina sulle dolomie. Tra i rimanenti ambienti, va ancora segnalato quello dei pascoli alpini su silice, per l’elevato valore di diversità strutturale. In linea generale, ogni ambiente presenta valori elevati soltanto per un fattore: sembra quasi che non sia possibile avere contemporaneamente valori elevati in più di un fattore di diversità. Si tratta di uno studio preliminare: è possibile che l’analisi dei dati possa essere spinta ad un livello ulteriore e che questo permetta di mettere in evidenza altri fattori finora non rilevati.
Si arriva così ad una prima conclusione: sembra di poter dimostrare, che una misura della diversità è possibile, ma soltanto per i singoli fattori, che poi vanno correlati per arrivare ad un giudizio d’assieme. La diversità è funzione della complessità del sistema, e non può venire ridotta ad aspetti semplici, che mostrano comportamento lineare. Negli anni ’70 era molto citato il titolo di un lavoro di uno zoologo americano (Hurlbert), che aveva definito la biodiversità un “non-concetto” (no-concept). Tutto sommato, si può ora riconoscere che in un certo senso aveva ragione: la biodiversità non è un concetto, ma piuttosto è una categoria, che si ottiene attraverso i contributi di vari concetti.

La dimensione locale (declino)
Si è già affermato in precedenza che le valutazioni complessive del numero di specie su ampi territori danno risultati poco significativi per la stima della biodiversità. La cosa invece cambia aspetto quando i paragoni possono essere effettuati alla dimensione locale. L’inventario della flora su aree prefissate, oggi largamente praticato anche in Italia, fornisce una miriade di dati riguardanti la densità specifica: vediamo alcuni esempi. Nella pianura veneta presso Portogruaro esiste la piccola riserva di Cessalto con il Bosco Olmé, per la quale, da nostri dati (inediti), risulta la densità specifica di 357 specie su 35 km2, mentre in 8 aree circostanti, completamente utilizzate per l’agricoltura, la densità media scende a 153 specie. Nella pianura friulana presso Muzzana esistono alcuni relitti di selve planiziari, organizzati a riserve naturali: qui viene misurata la densità media di 620 specie su superfici di 140 km2, mentre in 5 aree agricole circostanti si hanno in media 307 specie (Poldini, 1996). In entrambi i casi, le attività umane hanno ridotto il patrimonio naturale di oltre il 50 %. Risultati analoghi sono stati ottenuti in ecosistemi differenti, come la Campagna Romana e l’Appennino Centrale. In questi casi sono stati esaminati un singolo biotopo oppure pochi biotopi contigui, ed anche il semplice conteggio delle specie (densità specifica) diviene significativo; le differenze tuttavia diventerebbero più cospicue se anche qui venisse calcolato un indice analogo a quello ottenuto per le Dolomiti. Questi dati rilevati a livello locale permettono di giungere ad alcune conclusioni (da Pignatti, 2002) riguardo al problema posto all’inizio, e cioè se l’allarme per il declino della biodiversità sia o meno giustificato:

  1. La trasformazione dell’ambiente da uno stato semi-naturale allo sfruttamento agricolo intensivo oppure all’urbanizzazione comporta la scomparsa di una componente cospicua della flora, valutabile attorno al 50 % delle specie.
  2. La flora residua viene profondamente modificata nella sua composizione, essenzialmente per l’immissione di un forte contingente di specie multizonali, spesso di origine esotica, che possono raggiungere il 10-25 % del totale. Dunque la perdita di specie della flora indigena è certamente superiore al 50 %, ma viene parzialmente mascherata dall’ingresso di specie estranee.
  3. Queste modificazioni sono causate non tanto da interventi che portano alla diretta distruzione di specie, ma soprattutto dalla immissione di sostanze estranee, soprattutto fertilizzanti e biocidi, che avviene alla scala dell’intero sistema.
  4. Le conseguenze di questa situazione sono scarsamente rilevabili alla scala geografica (cioè nel caso nostro sui totali relativi al Italia nel suo complesso), esse invece divengono macroscopiche su scala locale. Tuttavia in ultima analisi il Sistema-Italia risulta dalla somma di un gran numero di sistemi locali, dunque il peggioramento a scala locale non può non portare ad un degrado anche su scala generale.

La valutazione della biodiversità alla scala locale apre un capitolo molto interessante e ben differente dalle statistiche su flore e faune comprendenti migliaia di specie. Infatti, per attribuire una specie alla flora di un certo territorio, basta documentare che almeno un individuo di questa sia stato osservato, anche in epoche passate. Nei rilievi a scala locale invece, la presenza di una specie viene valutata in base a conteggi degli individui che costituiscono le popolazioni: essa dunque cessa di essere soltanto un fatto statistico. Per essere certi che una specie sia nella condizione di conservarsi, invece, è necessario che ne esista una popolazione sufficientemente numerosa per garantirne la variabilità genetica: numerosi individui (dalle centinaia alle migliaia), in grado di ibridarsi e riprodursi. Solo in questo modo si può esser certi che essa effettivamente faccia parte del patrimonio biologico. In base ai grandi numeri (migliaia di specie su vasti territori) la biodiversità appare una categoria astratta; se esaminata alla scala locale, la biodiversità invece si può considerare un modo di valutare il patrimonio naturale, cioè una realtà molto concreta.
In conclusione, tra le due visioni, presentate all’inizio, quella di Nature (la più catastrofica) sembra la più vicina alla realtà. Le cause per la decadenza di flora e fauna alla scala locale continuano ad agire anche a livello generale, soprattutto l’eutrofizzazione (come accumulo di composti d’azoto e fosforo nell’ecosistema), e quindi si deve prevedere un ulteriore aggravarsi della situazione.

Tra mito e categoria del pensiero
Fin qui si è dato un breve sunto degli argomenti trattati durante il convegno di Perugia; tuttavia questa è solo un parte del materiale raccolto, perché già da un anno è attivo il Forum telematico nel quale sono affluiti altri documenti finora inediti.
Nei prossimi mesi si prevede che questo materiale sarà accessibile nel sito dell’Accademia dei Lincei. Un aspetto, che viene trattato in diversi contributi, è il passaggio della biodiversità dalla cultura scientifica al mito.
Succede infatti che la biodiversità inizialmente interessava soltanto un piccolo gruppo di biologi, ma è ora divenuta un problema trattato nelle conferenze internazionali, nelle discussioni politiche ed a livello dei media. Viene genericamente considerata come una qualità positiva, oppure addirittura un bene, da studiare e conservare. Tuttavia, quando si cerca di andare più a fondo, si nota che è difficile spiegare questo atteggiamento positivo: infatti la biodiversità non porta vantaggi diretti all’uomo (se non in misura molto limitata). Quindi l’attenzione per la biodiversità non parte da interessi concreti, ma da un’esigenza etica, nel campo particolare che oggi è indicato come bioetica. E’ un argomento sviluppato solo in tempi recenti, soprattutto sull’uomo, attorno ai problemi della medicina, ed in relazione agli eventi che accompagnano nascita e morte. Dall’uomo, l’atteggiamento bioetico si estende agli animali più vicini a noi; però molti che sono impegnati nella protezione degli animali, sono anche pronti a cibarsene attraverso l’alimentazione carnea. Quando poi si considera l’ambiente, affiorano ulteriori contraddizioni. Tutti sono disposti a tutelare l’ambiente, però i nostri modi di vita provocano una continua distruzione di biodiversità, come si è visto nelle pagine precedenti. Anche le possibilità aperte dalla genomica investono direttamente la biodiversità: infatti è oggi possibile costruire organismi nuovi, che non sono il risultato di evoluzione, ma progettati e realizzati dall’uomo. Questi potranno modificare in maniera sostanziale le relazioni ecosistemiche che mantengono la biodiversità. Siamo dunque di fronte ad interventi che con motivazioni diverse sottopongono la biodiversità all’arbitrio dell’uomo. Per questi motivi, progressivamente si perde la possibilità di un approccio razionale nel rapporto con la biodiversità, dal ragionamento scientifico si passa al mito, che si ricollega con linguaggio moderno al Paradiso Terrestre ed all’Eden favoloso. La biodiversità così viene sempre più intesa come il legame verso un primitivo stato di equilibrio nella natura, ormai perduto, o forse nemmeno mai esistito.

La nuova consapevolezza
Il mito della biodiversità è una reale esigenza della società attuale, e viene alimentato soprattutto attraverso documentari televisivi sulla vita degli animali e sui grandi parchi nazionali esotici, film di successo, volumi illustrati, turismo intercontinentale. Spesso si stabiliscono sinergie tra queste diverse attività (ed altre ancora), in modo che l’una serva di stimolo all’altra: il sistema si sviluppa con dinamica autocatalitica, trainato da un flusso di danaro sempre crescente. Questo spesso può non piacere, però, tutto sommato, risulta meno dannoso di libri e programmi dedicati a violenza, criminalità e peggio. Tuttavia, contemporaneamente si sta sviluppando anche una nuova consapevolezza verso la biodiversità nella dimensione locale: libri divulgativi, spesso di ottimo livello, per la conoscenza di flora, fauna, fossili, paesaggi, conferenze, articoli di giornale, escursioni guidate, circoli naturalistici, anche come emanazione di società nazionali quali LIPU (Lega italiana per gli uccelli), Pro Natura, SBI (Società botanica italiana), UZI (Unione zoologica italiana) ed internazionali (WWF). I Musei di Storia Naturale in questo svolgono un ruolo importante, ma purtroppo soltanto nel Centro-Nord, mentre nell’Italia mediterranea sono quasi assenti; anche molte aree protette hanno sviluppato programmi di divulgazione naturalistica e ricerche sul territorio.
Se cerchiamo di spiegare il perché di questa tendenza a rifugiarci nel mito della biodiversità, ci rendiamo conto che anch’essa è una conseguenza della globalizzazione, legata al fatto che il modello dello stato nazionale, originato in Europa all’inizio dell’evo moderno, si sta avviando ad un declino forse definitivo. La globalizzazione ha portato ad una profonda trasformazione sociale, con l’acquisizione di nuovi diritti, ma tale da provocare anche una perdita di identità per chi è nato e cresciuto con le sicurezze derivanti dall’appartenenza allo stato nazionale. Intensi flussi migratori dai paesi africani, asiatici e sudamericani, mercato globale e delocalizzazione delle industrie, hanno diffuso l’insicurezza per i fatti della vita quotidiana e per il posto di lavoro. Va qui ricordato che la creazione di miti era stata una componente importante, nella formazione degli stati nazionali, per cementare popolazioni che avevano poche tradizioni in comune ed erano state aggregate con la forza. Questi miti diventano uno strumento essenziale per dare unità ai sudditi e creare barriere rispetto agli estranei: i Nibelunghi e Barbarossa in Germania, il Cid Campeador in Spagna, Carlomagno, la Tavola Rotonda. Con il tramontare dello stato-nazione, anche questi miti, già oggi largamente superati, sono destinati a tramontare. Una conseguenza imprevista della globalizzazione è invece il sorgere, per reazione, di un nuovo localismo: alla crisi della nazione viene sostituito il legame con la terra natia, il territorio, in francese “pays”, in tedesco “Heimat”. Un territorio nel quale ci si possa riconoscere, nel quale ci si senta protetti, rispetto alle imprevedibili sfide globali.
Questo legame viene a stabilirsi soprattutto con le testimonianze storiche, i monumenti, l’assetto urbanistico tradizionale ed il paesaggio. Però, chi è aperto verso la cultura naturalistica ha la capacità di leggere le caratteristiche specifiche dell’ambiente naturale, come flora e fauna, sia in una visione istantanea (la presenza di un albero) che nella successione temporale (una particolare fioritura, l’osservazione di un’animale selvatico). La combinazione di specie animali e vegetali a volte fissa una condizione del tutto peculiare nel continuo spazio-temporale, che vale come firma del territorio. Si rivelano così alla percezione di un osservatore esercitato, singoli “angoli magici”, nei quali è possibile ritrovare la propria identità. Attraverso la biodiversità si stabilisce il collegamento con il territorio nel quale si è nati e cresciuti, e che deve vivere perché si possa continuare a viverci: noi, e chi verrà dopo di noi.

Opere citate

Conti F. et al., 2005,
An annotated checklist of the italian vascular flora,
Palombi, Roma, 420 pp.

Pignatti S., 1982,
Flora d’Italia, 3 voll. Edagricole,
Bologna.

Pignatti S., 2002,
Il declino della biodiversità nella dimensione territoriale,
Biologia Ambientale 16, 3: 1-8.

Poldini L., 1991,
Atlante corologico delle piante vascolari nel Friuli-Venezia Giulia, inventario floristico regionale,
Reg. Aut. Friuli-Venezia Giulia, Udine, 899 pp.

Royal Society, 2005,
A user’s guide to biodiversity indicators. EASAC (European Academies Science Advisory Council) policy report 04, The Royal Society, London, 41 pp.

Thomas C.D. et al. 2004,
Extinction risk by climate change,
Nature, 427: 145-148.

di Sandro Pignatti