Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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Aviaria il virus che venne dal freddo

Influenza aviara e aree protette

Complice un’informazione spesso superficiale, gli uccelli migratori e le aree protette,che danno loro ospitalità durante i lunghi spostamenti migratori, sono sul banco degli imputati. Ma nella realtà il pericolo pandemia va ridimensionato e soprattutto nessun allarmismo sulle responsabilità dell’ambiente naturale. Anzi, le aree umide vanno difese, con convinzione, come giacimenti di biodiversità.

L’acqua bassa, calma, limpida è il sogno di molte persone. Metafora della purezza e, a sua volta, della purificazione del corpo e dello spirito, nella società contemporanea è divenuta simbolo dell’altra faccia della medaglia della vita frenetica e strutturata nella realtà industriale e post-industriale. Nell’immaginario collettivo l’acqua scaldata dal tepore dei raggi solari è un desiderio diffuso, postulato come meta agognata dopo le fatiche lavorative. Il riposo del guerriero moderno, metropolitano e ancora legato agli standard dei ritmi stagionali dell’epoca industriale occidentale. L’acqua, l’elemento base della vita, quella piccola molecola di idrogeno e ossigeno che ha conquistato il pianeta Terra e, forse, non solo questo pianeta e sistema solare. Nell’acqua, come è noto, nuotano, galleggiano, ondeggiano e si muovono molte specie di organismi. Il termine organismo è il primo concetto sul quale intendo soffermarmi, e ne seguiranno altri. Nella terminologia corrente, fin satura di concetti tecnico-scientifici complessi e dal significato oscuro ai più, è usuale parlare di organismo vivente. L’antitesi potrebbe essere l’organismo non vivente, che intenderebbe un organismo in condizione post mortem.
Un organismo è per definizione vivente, poiché non sono conosciuti casi di organismi non viventi che abbiano una connotazione definita e inequivocabile. Altresì ogni biologo e ogni osservatore/studioso dei fenomeni viventi si è interrogato sulla questione fondamentale che il pensiero umano deve affrontare, non necessariamente per dare una risposta plausibile, ma poiché non può rifuggire dall’esistenza del quesito. Cosa è la vita, o meglio, come è definibile. Come è noto a tutti, escludendo una visione teleonomica e fideistica del mondo, la vita è un insieme di fenomeni che non è possibile definire in modo univoco. In primo luogo la categorizzazione è un libero arbitrio del pensiero umano, che la utilizza per una propria organizzazione mentale di comodo. La categorizzazione pone le base del pensiero riduzionista, il quale, scomponendo l’organismo nelle sue parti, non prevede necessariamente l’analisi dell’insieme, ma piuttosto delle singole parti. Una visione più prettamente olistica, affrontando in primis l’insieme, non elude la complessità del sistema, ma anzi ne evidenzia il punto critico: l’assenza di soluzione di continuità. Il problema di fondo del pensiero scientifico è la definizione dei limiti di analisi. Poiché ogni componente esiste in se, ma anche ed esclusivamente come parte di un insieme, il passaggio da una categoria (artificiale, sensu produzione del pensiero umano) a un’altra è sovente la chiave di lettura del problema da affrontare. Come è il caso di un organismo che “convive” con un altro, o una specie che vive in simbiosi o in condizione di parassitismo con un’altra. O come un virus, che non fa nessuna di queste cose, o forse tutte. Perdipiù non è un essere vivente propriamente detto.

I virus, coabitatori del pianeta o dominatori inconsapevoli
Vi sono microrganismi diffusi e abbondanti in ogni ecosistema, e sicuramente in ogni dove l’Uomo ha posato la sua impronta. Al caldo e al freddo, nell’acqua e nell’aria, in ogni dove l’ambiente è ospite di una moltitudine di specie e di individui tanto piccoli da sfuggire alla nostra percezione sensoriale ed essere richiamati alla cronaca solo per la loro utilità o patogenicità. L’ordinamento sistematico delle forme di microrganismi conosciute è piuttosto complessa e diversificata, variando dalle alghe fotosintetiche ai batteri azotofissatori, ai Protisti e alle Monere. A questi microrganismi si aggiungono delle forme assai particolari e interessanti da punto di vista scientifico, che vanno sotto il nome di virus. Pur non essendo degli organismi (se il termine si applica a tutti i regni dei viventi, questa entità biologica sfugge alla definizione generale), i virus hanno molto in comune con i microrganismi e la capacità di esercitare molte delle funzioni strutturali caratteristiche delle forme di vita. I virus hanno un handicap -peraltro superabile- che li differenzia in prima istanza da tutti gli altri microrganismi: essi non sono in grado di riprodursi autonomamente, ma necessitano il contatto (in genere di tipo parassitario) con delle cellule ospiti che funzionano da “serbatoio di incubazione” per la genesi di nuovi virus figli dell’entità madre. Senza la penetrazione in una cellula animale o vegetale, o batterica, il virus può rimanere in latenza per tempi molto lunghi e in condizioni ambientali anche apparentemente sfavorevoli (per gli organismi), senza perdere le sue potenzialità. La riproduzione, una volta avvenuta, assume delle proporzioni geometriche o esponenziali, causando la morte delle cellule attaccate e sovente danni più o meno gravi all’intero organismo colpito. La forma di parassitismo obbligato dei virus è l’evidenza più significativa nel mondo vivente delle strette interrelazioni tra specie. Ogni individuo, di qualsiasi specie, interagisce in misura maggiore o minore con l’ambiente e con gli altri individui della medesima specie o di specie differenti. E’ possibile affermare che gli individui delle specie cosiddette superiori, ovvero che hanno raggiunto dei livelli di complessità di sistema particolarmente elevati rispetto alle altre (anche se il discrimine è di chiara derivazione antropocentrica), non possono sopravvivere senza arrecare dei danni ad altre specie, per esempio a causa dell’alimentazione onnivora o direttamente carnivora. Dunque, per estremizzazione, un organismo superiore, all’apice della catena alimentare si comporta come il più semplice degli esseri “viventi” evolutisi sul pianeta Terra. L’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo si incontrano secondo lo stesso principio delle leggi che regolano le forze nucleari. Il virus adopera una cellula (anche di un organismo superiore) come sua fonte di sopravvivenza rientrando così a pieno titolo nella categoria degli organismi.
Una discussione approfondita sul tema esula dall’obiettivo del presente lavoro.
Qui è sufficiente ricordare che i virus sono delle entità particolari, capaci/incapaci di vita autonoma a seconda dell’interpretazione evolutiva e tassonomica che si intende loro dare, ma sicuramente delle entità che hanno delle interrelazioni obbligate con molte altre specie, incluso l’Uomo. In alcuni casi, pochi per la verità, ci accorgiamo indirettamente della loro presenza intorno a noi. In questi casi il nostro organismo reagisce alla presenza attiva di un virus potenzialmente patogeno al suo interno e pone l’individuo in una condizione di sofferenza a causa dell’infezione causata dal virus penetrato all’interno e attivo nella sua fase moltiplicativa. Per il resto, la maggior parte dei virus (come dei microrganismi) con i quali entriamo in contatto quotidianamente sfugge alla nostra percezione, non generando alcuna modifica nelle nostre condizioni vitali.
La struttura dei virus è schematizzabile in un involucro proteico che racchiude alcuni filamenti di acidi nucleici (RNA o DNA). Questo materiale genetico, una volta penetrato all’interno della cellula ospite, è in grado di sostituirsi al DNA dell’ospite e di “ingannare” il sistema di duplicazione cellulare a suo vantaggio. Una volta riprodotti i costituenti base della struttura virale (fondamentalmente acidi nucleici e proteine), la cellula si disintegra lasciando fuoriuscire all’esterno i nuovi virus in grado, eventualmente, di moltiplicare l’effetto invasivo. L’infezione può essere più o meno grave, in dipendenza della quantità di virus presente nell’ambiente e della quantità in grado di entrare nell’organismo ospite, della quantità in grado di penetrare nelle singole cellule, dal grado di resistenza immunitaria nel momento dell’infezione e della struttura/condizione fisica da parte del soggetto vittima dell’infezione. La risposta all’infezione può dunque essere estremamente variabile, tanto che in alcuni casi la patologia non viene neppure percepita dall’individuo malato, proprio per il livello assai leggero dei penetrazione del virus.
Una situazione opposta è quella della malattia conclamata da infezione virale, che può dipendere dal Rhinovirus in grado di causare il raffreddore o dal virus HIV che può portare alla sindrome da immunodeficienza, nota come AIDS. Il raffreddore è un virus stagionale che si risolve con un decorso inferiore alla settimana, ma che è stato una delle principali cause di moria delle popolazioni americane soggette all’invasione dei conquistadores spagnoli e portoghesi nel XVI secolo. Queste popolazioni, non conoscendo questo virus, non disponevano delle adeguate protezioni immunitarie e ancor più che della spada perirono a migliaia per le malattie portate involontariamente e inconsciamente dagli europei. Per quanto poco discusso dalla storiografia ufficiale, la morte per infezioni virali spianò la strada all’avanzata vittoriosa dei “colonizzatori” dal Sud America fino al Messico. L’AIDS è invece una malattia virale moderna, della quale si è cercato di trovare l’origine, ma forse senza troppa convinzione per non aprire porte che è meglio che rimangano chiuse. Si tratta senza dubbio di uno dei virus più straordinari -dal punto di vista evolutivo- che siano mai stati descritti nella letteratura scientifica. Il virus HIV attacca le cellule destinate a distruggerlo. Una volta vinta la battaglia contro le difese immunitarie, l’organismo è esposto all’azione potenziale di altri virus e batteri, non necessariamente mortali in condizioni normali.

Le pandemie
La recente espansione dell’areale epidemico della forma LPAI H5N1 dell’influenza aviaria ha portato al recupero di un termine sconosciuto ai più e relegato ai libri di storia: la pandemia. La pandemia è un’epidemia (in questo caso di influenza) in grado di diffondersi rapidamente a livello planetario senza che gli individui abbiano -a livello generale- una sufficiente risposta immunitaria e senza che la medicina abbia a disposizione adeguati strumenti di cura. La storia recente dell’umanità (per quel che si conosce) ha sperimentato numerosi casi di pandemia, a partire dal presunto vaiolo del 165-180 dC, alla peste bubbonica del 541 dC (il 25% della popolazione del Mediterraneo orientale morì) e del 1348 (il 25% della popolazione europea morta), al colera che colpì Europa, Russia, Stati Uniti e Africa nell’Ottocento. Epidemie pandemiche si realizzarono in Spagna nel XV secolo e in Europa e Russia nel XVI secolo a causa del tifo; ancora nel XVI secolo il vaiolo, il morbillo, la pertosse e l’influenza portata dai colonizzatori fecero centinaia di migliaia di morti in pochi anni nelle Americhe. Fu però nel 1918 che si realizzò il più eclatante caso di pandemia derivante da un virus aviare e si trattò della cosiddetta “spagnola” che arrivò sulle coste francesi dagli USA attraverso le navi militari che portavano i soldati sul fronte europeo e si diffuse rapidamente lungo le trincee e poi alle popolazioni civili. Il numero di morti non è conosciuto, ma stimato in 25-50 milioni. A quell’epoca non era stata ancora scoperta la penicillina (descritta da Fleming nel 1928) e dunque molte infezioni batteriche collaterali aggravarono il tasso di mortalità, nonostante questo tasso fosse relativamente basso in valore assoluto (il 5%). L’influenza aviaria ricomparve nel 1957-58 (influenza asiatica) con il ceppo H2N2, spaziando dalla Cina agli Usa e causando un milione di morti. Nel 1968-69 (influenza di Hong Kong) fu il ceppo H3N2 a causare centinaia di migliaia di vittime. Molti altri agenti patogeni, poco conosciuti al grande pubblico (la febbre della Rift Valley, il virus di Marburg, il virus Ebola), hanno avuto le caratteristiche per scatenare nuove pandemie, ma così non è accaduto. Il delicato e imponderabile equilibrio tra la patogenicità del virus e la reazione dell’ospite non ha permesso che l’espansione dell’infezione assumesse dimensioni eccessive.

Il virus dell’influenza aviaria
L’influenza aviaria fu descritta scientificamente per la prima volta in Piemonte nel 1878. Da allora ha accompagnato la vita della popolazione umana con alterne vicende, ma senz’altro è stata una delle principali cause di mortalità dell’intera storia della nostra specie. All’inizio del XX secolo (1901) viene collegata la patologia a un virus che successivamente (1955) viene indicato come di “tipo A influenzale” - i tipi B e C sono tipicamente dell’influenza umana -. Nel 1923 uno studioso riesce a portare il virus in un laboratorio negli USA, dal quale fuoriesce nel 1924 per fare strage di volatili in tutta la costa orientale. Solo nel 1961, in Sudafrica, viene ufficialmente descritto il primo focolaio di influenza aviaria (del sottotipo H5N3) che ha portato a una moria di oltre 1300 uccelli acquatici, in questo caso sterne. La più significativa moria di uccelli acquatici si è avuta solo recentemente in Cina (2005), nel Lago Qinghai, dove furono trovati oltre 6000 uccelli acquatici morti per H5N1. Recentemente (1997) si ha avuto la conferma scientifica che questo virus può contagiare l’uomo.
In senso stretto in virus dell’influenza aviaria è un virus appartenente alla famiglia Orthomyxoviridae di tipo A. Questo virus di forma variabile del diametro di 0.1µm contiene un nucleocapside con 8 segmenti di RNA associati a proteine ed è in grado di codificare per dieci differenti proteine. La superficie esterna di natura lipidica presenta una serie di proteine di superfici (H-emoagglutina e N-neuroaminidasi), che servono per l’attuazione del legame con le cellule da infettare e determinano le reazioni antigeniche. Proprio la capacità delle proteine N e H di produrre delle varianti fenotipiche (ovvero delle diverse reazioni antigeniche) permette che, sulla base di 16 diverse forme di H e 9 forme di N, si possano creare moltissimi sottotipi di virus dell’influenza aviaria. Per esempio, solo i sottotipi H5 e H7 causano le forme gravi di malattia e sono ascritti alla categoria HPAI (High Pathogenic Avian Influenza); le restanti forme sono invece definite LPAI (a bassa patogenicità). Il virus tuttavia è in grado di modificarsi nel tempo. Il materiale genetico del virus (RNA) può subire delle trasformazioni (mutazioni) che causano la nascita di nuovi sottotipi o addirittura formare degli ibridi virali con interscambio di materiale genetico tra diversi virus durante la contaminazione di una cellula. La formazione di un nuovo sottotipo virale è la pre-condizione per lo sviluppo di forme pericolose, ma non necessariamente la nuova forma riesce a mantenersi del tempo. Verosimilmente la maggior parte delle nuove ricombinazioni non ha successo, ma talvolta i nuovi sottotipi possono risultare vincenti. La forma virale HPAI H5N1/Hong Kong/97 (prodotto dalla ricombinazione di H5N1+H6N1+H9N2 nelle oche) è altamente patogena per gli uccelli. Le conoscenze attuali indicano che solo i sottotipi H5, H7 e H9 (dunque 3 forme su 16H conosciuti) sono trasmissibili all’Uomo e in particolare H5N1, H7N2, H7N3, H7N7 e H9N2. L’attuale fase di rischio consiste proprio nella possibilità che una di queste forme altamente patogene possa reagire con una forma virale dell’influenza umana generando una nuova forma in grado di oltrepassare la barriera di specie e successivamente evolvere in una forma trasmissibile all’interno della specie umana. Le epidemie derivanti da infezioni di H5 e H7 sono andate crescendo a partire dal 1996, partendo dall’Australia e da Hong Kong (1997), per raggiungere l’America (2000), l’Europa settentrionale (2003), USA e Canada (2004) e finalmente l’intero continente eurasiatico nel 2005-2006. In Italia i focolai di virus si sono intensificati a partire dal 1997 sia con forme LPAI che HPAI, colpendo in misura maggiore le regioni settentrionali.
Il sottotipo virale H5N1 infettò 18 persone a Hong Kong nel 1997 e di queste 6 morirono. L’epidemia fu contenuta con l’uccisione di tutti i polli della regione. Dopo un periodo di tregua la forma virale ricompare in Vietnam e Thailandia (2004, dove morirono 23 persone) per diffondersi rapidamente nel Sud-est asiatico. Per contenere l’infezione furono uccisi circa 50 milioni di uccelli domestici e in molti Paesi migliaia di maiali. E’ bene infatti ricordare che il maiale può essere soggetto sia all’influenza umana sia a quella aviare e dunque rappresenta un potenziale anello di congiunzione tra le forme virali degli uccelli e dell’uomo. Dal 2004 il numero di uccelli domestici morti per malattia da H5N1 o uccisi per delimitare l’epidemia è dell’ordine di centinaia di milioni, ma nel 2005 il numero di decessi umani aumenta sensibilmente (63 morti in Vietnam).
L’allarme scaturisce da due fattori:
1) la mortalità seguente l’infezione è altissima (fino al 65%);
2) è possibile (anche se eccezionale) la trasmissione da uomo a uomo. In realtà in nessun caso di decesso è stato possibile accertare in via definitiva che il contagio provenisse da un altro uomo infetto. Tuttavia, il quadro generale induce al pessimismo poiché è solo grazie alle straordinarie misure di prevenzione e controllo messe in atto da molti Paesi asiatici (in primis la Cina, dove potrebbero già essersi sviluppate forme virali resistenti ai farmaci antivirali già somministrati ai polli negli anni Novanta) e di tutto il mondo che l’epidemia è al momento rallentata e dispersa lentamente quasi solo dagli uccelli acquatici migratori. I costi di questa colossale opera di contenimento sono enormi e hanno un risvolto drammatico, nell’economia distrutta di intere regioni e famiglie sotto la soglia di povertà da un lato e milioni di animali uccisi dall’altro.

Gli uccelli migratori e le zone umide
Una delle questioni più critiche che si devono affrontare relativamente alla potenziale espansione dell’areale di diffusione virus è l’importanza che gli uccelli migratori possono assumere come vettori del medesimo. Il virus dell’influenza aviaria e in particolare il ceppo H5N1 e le altre forme altamente patogene emerse recentemente all’attenzione del grande pubblico hanno un areale di origine localizzato nell’Asia Sud-orientale e in particolare nell’area compresa tra la Cina, la Thailandia, il Vietnam e l’India. Quest’area è decisamente lontana rispetto all’Europa occidentale e la possibilità che il virus compia un lungo viaggio verso ovest in tempi brevi è assai bassa. Tuttavia, nell’era dei grandi e veloci movimenti di persone e cose, il virus può essere spostato inconsapevolmente in diversi modi. Il primo modo concerne il commercio di volatili destinati all’alimentazione umana, o dei derivati destinati all’alimentazione animale. La Thailandia è (o meglio era prima dell’esplosione dell’infezione) il maggior produttore al mondo di carni avicole, e dunque il maggiore bacino di potenziale contagio tra gli animali di allevamento e i selvatici. Il contagio degli animali tenuti in allevamenti intensivi è relativamente più rapido e in grado di trasmettersi all’Uomo con un fattore di diversi ordini di grandezza superiore rispetto al contagio potenziale in Natura. Gli animali tenuti in allevamento intensivo sono sovente deboli dal punto di vista delle risposte immunitarie e in alcuni casi addirittura immunodepressi o deviati rispetto a moduli comportamentali e fisiologici a loro più congeniali. Perdipiù, le condizioni di sovraffollamento nelle quali si trovano (gli allevamenti possono raggruppare decine o centinaia di migliaia di individui) sono un fattore di rischio per la proliferazione delle infezioni e un bacino di concentrazione dell’agente patogeno. La presenza del virus in un allevamento comporta un rischio decisamente maggiore anche per gli operatori che si trovano esposti a un ambiente avicolo insalubre denso di micropolveri contenenti particelle derivanti dal piumaggio, dagli escrementi, dai mangimi e dalla stagnazione dell’aria che si realizza negli allevamenti (soprattutto se chiusi) nei paesi caldi. Nei Paesi asiatici meridionali la componente della dieta umana che si basa su volatili da allevamento è sicuramente elevata, forse la più elevata al mondo. Le condizioni collegate a una realtà rurale tradizionale vedono nell’allevamento avicolo da cortile una fonte alimentare diretta a basso costo e in molti casi anche una fonte co-generatrice di redito familiare. A questo si aggiunge che esiste una vera e propria tradizione culturale gastronomica legata al consumo di volatili di allevamento, il che rende la presenza di allevamenti su scala differente (dal livello familiare a quello industriale) una realtà diffusa sul territorio. Questa condizione socio-culturale comporta anche la presenza di mercati all’aperto e movimenti di animali sul territorio in aree ad elevatissima densità di abitanti, condizioni favorevoli per l’eventuale diffondersi di una patologia infettiva. La medesima condizione è sicuramente meno diffusa nell’Europa occidentale, che ha sensibilmente ridotto negli ultimi decenni la realtà rurale tradizionale a favore di un’industrializzazione agricola che ha potato alla progressiva diminuzione della popolazione impiegata in agricoltura o residente nel territorio agricolo e ha, viceversa, favorito l’inurbamento di milioni di persone. Nonostante questo l’allevamento familiare dell’avifauna domestica è estremamente diffuso in campagna e le condizioni igieniche sono simili a quelle di tutto il mondo. E’ difficile sostenere che in Europa vi sono maggiori condizioni igieniche, poiché i polli ruspanti razzolano liberamente nelle aie e a contatto con uomini e animali domestici e i contadini prelevano quotidianamente le uova deposte con le mani senza protezione.
Dunque, se contagio esistesse, l’esposizione sarebbe de tutto simile, anche se in proporzioni decisamente minori.
A questo si deve aggiungere, per dovere di cronaca, che -nel 2006- un allevamento intensivo francese di tacchini (dotato di tutti i più moderni standard di sicurezza) e’ stato oggetto di contagio da parte del virus dell’influenza aviaria, che invece non e’ comparso negli allevamenti rurali dell’area circostante.
Riportando il ragionamento all’area di origine della recente espansione dell’infezione, il Sud-est asiatico, abbiamo detto che l’espansione del virus può avvenire grazie al commercio degli animali allevati, ma a questo si aggiunge un secondo fattore potenziale: il contagio degli animali selvatici migratori e il trasporto del virus lungo le rotte di migrazione. E’ bene da subito anticipare che il virus dell’influenza aviaria è stato riscontrato in molte specie di uccelli appartenenti a ordini differenti, dai piccoli uccelli canori ai grandi uccelli acquatici. Per quel che è conosciuto è lecito attendersi che tutte le specie di uccelli siano soggette all’infezione da parte del virus dell’influenza aviaria, ma anche che gli uccelli selvatici siano molto più resistenti all’infezione o alla manifestazione della malattia in conseguenza dell’infezione.
Gli uccelli selvatici possono dunque essere soggetti al contagio, ma si ammalano di meno e finora non si sono resi responsabili di nessun tipo di infezione diffusa sul territorio. Ipotizzando che un individuo di una specie selvatica venga a contatto con uno o più individui domestici infetti, o con un ambiente nel quale il virus è presente (eventualmente a causa delle deiezioni di animali malati) il virus può essere trasmesso e portato dal selvatico a varie distanze dal luogo di contagio.
La probabilità di infezione di un selvatico, così come la quantificazione del rischio di contatto domestico-selvatico, non sono fattori facilmente quantificabili. Gli uccelli selvatici che più facilmente si avvicinano agli allevamenti domestici sono in genere i piccoli Passeriformi granivori (es. i passeri) che approfittano della fonte alimentare a disposizione degli uccelli allevati. Molte specie di piccoli uccelli granivori si avvicinano inoltre alle abitazioni e al contesto agricolo circostante, frequentando a vario livello le aree eventualmente contagiate. Il discorso appare più complesso per gli uccelli di maggiori dimensioni. La loro presenza negli allevamenti in genere scoraggiata dagli allevatori su scala industriale, a causa del danno diretto che possono arrecare e comunque la diffidenza dei selvatici difficilmente li porta ad avvicinarsi ai nuclei abitativi di piccole o medie dimensioni. E’ dunque verosimile che il contagio possa avvenire in situazioni nelle quali vi siano pre-condizioni favorevoli alla promiscuità (domestici-selvatici) relativamente poco disturbate dall’Uomo e dove il virus possa sopravvivere in condizioni favorevoli per tempi medi in modo da poter entrare in contatto con un individuo selvatico. Una delle possibilità più favorevoli appare la frequentazione di zone umide ad acqua bassa e calda, dove possono sovrapporsi le presenze dei selvatici e dei domestici, come è il caso delle risaie o di zone soggette ad allagamenti temporanei o esondazioni nel periodo delle piogge. Gli uccelli acquatici selvatici appaiono inoltre le specie più facilmente contagiabili dal virus. A livello generale si ritiene che tutte le forme di virus influenzali siano originate dagli uccelli, attraverso vari percorsi evolutivi che hanno portato le specie selvatiche a rappresentare il ruolo di reservoir del virus. Gli uccelli acquatici (Anseriformi, Ciconiformi, Steganopodi, Procellariformi, Caradriformi e altri ordini), in particolare, presentano tutte le forme (sottotipi) conosciute di Orthomixovirus influenzali della classe A, a differenza dei piccoli uccelli che sembrano essere piu’ resistenti o meno ricettivi all’infezione virale di questo tipo. In moltissimi individui di molte specie di uccelli acquatici il virus della forma a bassa patogenicità (LPAI) vive abitudinariamente nell’intestino dell’individuo senza causare alterazioni sensibili, portando l’animale nella condizione apparente di “portatore sano”. La maggior parte delle specie di uccelli acquatici sono migratrici e dunque in grado di trasportare il virus a distanza, disperderlo in zone umide dove sono presenti altri conspecifici, congeneri e altre specie, anche domestiche. L’infezione ha luogo principalmente in luoghi di affollamento, ove molti individui possono entrare in contatto con il virus contenuto nelle feci o nelle secrezioni oro-nasali. La trasmissione diretta da individuo a individuo (attraverso i canali respiratori e congiuntivali) non è l’unica possibile, poiché grazie all’elevata resistenza del virus in ambiente acquatico e a basse temperature, la possibilità di contagio indiretto appare tutt’altro che remota.
Le migrazioni degli uccelli acquatici sono in parte descritte e conosciute, perlomeno nelle loro connotazioni macroscopiche. I migratori tendono ad abbandonare i quartieri riproduttivi localizzati nelle fasce più fredde del pianeta per raggiungere la parte meridionale dell’emisfero temperato o portarsi fino nella fascia intertropicale. E’ intuitivo che, durante la migrazione e il periodo di svernamento ogni specie tende a ricercare ambienti simili a quelli a lei più favorevoli e che gli uccelli acquatici evidenziano una predilezione per frequentare le zone umide in ogni parte della rotta migratoria. L’estremo oriente origina due rotte migratorie principali. La prima (rotta Pacifica) porta gli uccelli verso Sud - Sud-est, fino all’Australia. La seconda (rotta del Paleartico occidentale) porta invece verso Sud-ovest, verso le regioni dell’Asia centrale e talvolta fino all’Europa. Dunque gli uccelli acquatici migratori che seguono la rotta Pacifica entrano durante la migrazione in contatto con le aree di maggiore diffusione del virus per poi fare ritorno nell’Asia centrale e settentrionale e frequentare le medesime aree dei migratori che seguono la rotta del Paleartico occidentale. Da queste aree partono individui che possono anche raggiungere l’Europa, come è confermato per alcune specie di anatidi inanellati oltre il 46° Est (Kazakhstan: Marzaiola, Alzavola, Germano reale, Moriglione) o il 58° Est (Monti Urali: Moriglione, Marzaiola, Fischione, Alzavola), e per molte specie di Passeriformi (in particolare turdidi come la Cesena).
Ciò significa che alcuni individui arrivano direttamente dalla Siberia e dall’estremo Oriente, ovvero dalle zone umide nelle quali si sovrappongono i nidificanti che sceglieranno le diverse rotte migratorie.
E’ bene pensare alla rotta di migrazione come un canale di percorrenza collettivo piuttosto che come il viaggio di un singolo individuo. Ciò che importa infatti, ai fini della nostra analisi, non è solo la destinazione e il percorso dell’individuo, ma come quest’individuo proveniente dalle zone infette possa entrare in contatto con altri individui che, a loro volta, si muovono verso l‘Europa e le aree finora meno esposte al virus ad alta patogenicità. Un individuo in migrazione sosta in diverse occasioni per alimentarsi, accumulare le riserve di grasso utili per il volo, riposarsi anche mutare il piumaggio in aree sicure e indisturbate. Le rotte di migrazione esistono anche perché lungo questi percorsi sussistono delle condizioni favorevoli per gli individui in transito.
Nello specifico, gli uccelli acquatici sostano formando aggregazioni di migliaia di individui ed è in queste situazioni che avviene la trasmissione del virus dell’influenza aviaria.
Milioni di individui in movimento lungo un corridoio e inclini (su base genetica e di apprendimento) a fermarsi nei medesimi siti di stop-over, parte dei quali infetti e altra parte dei quali in grado di raggiungere l’estremità occidentale del continente eurasiatico sono il principali fattore di rischio che viene attualmente valutato, per quanto siano pochi gli individui per i quali sia stata accertata la provenienza diretta mediante la tecnica di cattura-marcatura-ricattura; tra gli uccelli acquatici molti anatidi e in Italia soprattutto alcuni casi di Alzavola, Germano reale, Fischione, Codone e qualche altra specie di superficie. L’unico caso di un individuo di Germano reale trovato morto in Italia e la cui causa del decesso potrebbe essere l’influenza aviaria non ha riscontrato il virus ad alta patogenicità, ma una forma di H5 LPAI piuttosto comune nel bacino del Mediterraneo. E’ chiaro che i focolai europei sono al momento circoscritti e localizzati.
La valutazione del rischio di contagio nelle zone umide italiane è la maggiore sfida che i ricercatori e gli amministratori stanno affrontando in questo momento.

Valutare il rischio
Il virus dell’influenza aviaria continuerà a esistere e muoversi tra gli uccelli così come il virus dell’influenza umana lo fa tra gli uomini. Fortunatamente, gli uccelli selvatici sono molto resistenti all’infezione e solo raramente si ammalano in forma grave. Il problema centrale dunque sta nel cercare una soluzione preventiva (vaccino) e nel riconsiderare fattori chiave della società del XXI secolo: sovrappopolazione e sovraffollamento urbano, abitudini alimentari, modalità di allevamento degli animali destinati all’alimentazione umana e animale, sfruttamento e gestione delle risorse idriche e del territorio in generale. Il problema di una eventuale pandemia non sta, in realtà, in come il virus potrà modificarsi ed espandersi sui continenti, ma di quante persone incontrerà sul suo cammino e su quali barriere naturali e artificiali potrà trovare. Il problema dunque non va affrontato né con una visione catastrofista né con una visione riduzionista. Al contrario è possibile utilizzare questo case study per ridisegnare strategie globali di equilibri ecologici e socio-economici, partendo dalla condizione vantaggiosa di una popolazione mondiale che è già in larga parte protetta da sistemi sociali nazionali e sistemi preventivi (veterinari e medici) internazionali che non possono permettere il ripetersi di eventi critici come la “febbre spagnola” del secolo scorso.
Il cosiddetto salto tra specie è poco probabile, come dimostra l’eccezionalità di quanto è avvenuto nella storia degli ultimi secoli. Il quadro complessivo, se verranno mantenuti e potenziati gli attuali standard di monitoraggio, è assolutamente positivo.
Vi è tuttavia un gran lavoro da fare dal punto di vista culturale.
L’approccio allarmista e per certi versi catastrofico con il quale e’ stato posto il problema all’opinione pubblica ha ingenerato forme di diffidenza e psicosi. Il problema legato al consumo di carne avicola è del tutto secondario, poiché è possibile sfatare il rischio di potenziale contagio con un’opera semplice di conoscenza del problema e, in prospettiva, ridurre la produzione e il consumo alimentare di avifauna domestica. Il vero problema, molto grave dal punto di vista etico e culturale, sta nel rischio che crescano nuove generazioni di bambini educate al rischio della Natura, all’idea che gli uccelli acquatici e le zone umide siano bacini potenziali di rischio e si scateni, consciamente o inconsciamente, un nuovo attacco alle zone umide come avvenne nella prima parte del XX secolo.
Le bonifiche del XX secolo tutelarono l’umanità europea dal flagello della malaria, togliendo parte dell’acqua utile alle zanzare per compiere il ciclo riproduttivo e diffondere il plasmodio. Allora le bonifiche furono viste come un bene comune, ed erano i tempi del concetto di sviluppo illimitato derivante dall’illusione dell’espansione economica senza fine e delle risorse abbondanti e a buon mercato. Oggi è ancora l’acqua a nascondere il pericolo invisibile, un virus che proprio nell’acqua si trova a suo agio sopravvivendo un mese a 4°C e facendosi trasportare da uccelli acquatici (che solo eccezionalmente si ammalano) lungo tutti i continenti. Le zone umide residue sono tuttavia un consolidato patrimonio planetario di biodiversità e l’acqua stessa è un patrimonio collettivo da salvaguardare con attente opere di tutela. Gli uccelli acquatici e le zone umide non sono se non in misura marginale responsabili dell’espansione dell’areale epidemiologico del virus. Se così fosse, l’azione di milioni di migratori avrebbe già portato a conseguenze disastrose in molti continenti. La resistenza ai virus HPAI, lo scarso contatto con gli animali domestici infetti, la presenza di un virus di tipo non umano e l’effetto di diluizione dell’acqua e della distanza, sono tutti fattori che rendono attualmente il rischio di infezione nelle zone umide europee ed italiane estremamente basso o pressoché nullo. In futuro, sarà il gioco evolutivo delle mutazioni e ricombinazioni genetiche dei virus dell’influenza aviaria e umana a “decidere” se e quanto il salto di specie avrà luogo e, nel caso, se questo avrà successo. In quel tempo, e solo allora, si potrà parlare di un fattore di rischio più elevato e sarà da valutare il tipo di risposta genetica e fisiologica degli uccelli selvatici e la potenzialità delle zone umide e dei suoi abitanti come serbatoi di un virus altamente patogeno.

di Luca Biddau
ornitologo, collaboratore scientifico
Parco naturale Lago di Candia