Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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Paesaggio - Comunità locali e Governo del territorio

Andare oltre interventi di tutela delle eccellenze, per promuovere politiche di gestione delle dinamiche che producono il paesaggio, in una stretta connessione con le comunità che amministrano il territorio.

Una branca del mondo dell’ambientalismo ci invita, da tempo, a guardare con attenzione oltre le eccellenze e le emergenze, sostenendo azioni e programmi per la preservazione e il miglioramento della qualità dell’intero territorio nazionale, ben sapendo che è questa l’unica via per una gestione intelligente della risorsa paesaggio.
La questione paesistico-ambientale non è riducibile alla lotta per la conservazione di alcune componenti naturali e/o culturali isolate (siano esse straordinarie bellezze o ecosistemi di vitale importanza), fermo restando che la via della tutela puntuale è servita, negli ultimi decenni, per preservare quel patrimonio di cui ora possiamo godere.
I nuovi obiettivi della tutela attiva guardano alla gestione e quindi al controllo delle dinamiche che producono il paesaggio, da valutare nei rapporti con i grandi cambiamenti in corso dei diversi scenari territoriali.
Ripartire dalle città e dalle comunità locali
Gli spazi della contemporaneità, caratterizzati dai “paesaggi della dispersione” (o della “città diffusa”) si presentano come una “marmellata” di ambiti urbani, industriali, commerciali, turistico-residenziali, amalgamati e/o giustapposti con residui spazi della ruralità, brani di elevata naturalità, antichi tessuti e insediamenti sparsi. Essi sono diffusi un po’ ovunque; segnano la fascia adriatica marchigiana, ma anche la Brianza, il Veneto o l’Abruzzo. Le trasformazioni delle città e dei territori europei sono, probabilmente, l’esito della concomitanza di più concause, che non intendiamo ripercorrere e argomentare in questa sede. Il risultato finale su cui tutti sembrano concordare è, comunque, il rischio di dissoluzione della città nella sua crescita indefinita e smisurata, e insieme frammentaria ed eterogenea. E’ opportuno chiedersi se alla nascita delle aree metropolitane corrisponda la fine di un ciclo storico della città, sopravvissuta a cinque millenni di alterne vicende (a partire dal periodo della colonizzazione delle pianure fluviali del vicino Oriente). Certamente, è la fine di una precisa modalità di organizzazione dell’insediamento e dei rapporti sociali. L’affermarsi di quel fenomeno, che diversi autori, attenti osservatori della città contemporanea (come Francesco Indovina, Bernardo Secchi, Stefano Boeri, Arturo Lanzani, …), classificano come “dispersione”, porta con sé non solo difficoltà di gestione, ma anche di descrizione e mappatura del fenomeno stesso. Difficoltà dovute al fatto che il carattere emergente è proprio la frammentazione e la evidente reciproca contraddizione insita nell’articolazione delle relazioni tra le diverse componenti giustapposte. Risposte individuali, fondate esclusivamente su immaginari individuali, sembrano prevalere su quelle collettive e le nuove forme degli spazi urbani sono generate dall’addizione dell’operato di ogni singolo soggetto nella sua irriducibile autonomia. Sicuramente, queste nuove forme urbane, o “quasi urbane”, non si sono affermate per caso. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, sono diventate sempre meno sopportabili le condizioni di vita delle città a gran parte della popolazione. Fenomeni di elevata congestione si sono aggiunti agli alti costi dell’abitazione e dei servizi, a enormi dispendi di tempo e di energie per logistiche imprevedibili e incontrollabili (basti pensare ai soli rapporti funzionali abitazione-lavoro-ricreazione). Sintetizzerà efficacemente Bernardo Secchi (nel saggio: “La città del XX secolo”, Editori Laterza, Bari, 2005): «... famiglie e fabbriche vengono non solo attratte dalla campagna, ma anche respinte dalla città...». Le trasformazioni delle città e dei territori sono avvenute, probabilmente, in modo indipendente dalla riflessione e, soprattutto, dall’azione di architetti e urbanisti, e quindi da progetti e programmi delle pubbliche amministrazioni. Anche per questo non sembra facile ora affidarsi al progetto ed al piano per andare nella direzione di quell’archetipo di città in grado di favorire la coesione e le relazioni sociali attraverso la revisione delle sue dimensioni e relazioni spaziali. Occorre ripartire da questa profonda complessità, che caratterizza città e territori dove convivono, intrecciandosi, diversi sistemi di paesaggio, abitati da diverse popolazioni, per ridare senso ad una politica del paesaggio capace di guardare oltre gli angusti riferimenti della tutela tradizionale. Abbiamo di fronte un enorme “palinsesto” sul quale le differenti generazioni hanno lasciato il deposito del loro passaggio determinando talora paesaggi unici per forza evocativa e valore ambientale, ma anche paesaggi ordinari che avvolgono e accolgono all’interno puntuali eccezionalità e paesaggi degradati. Intervenire sui paesaggi contemporanei significa anche “occuparsi di quei territori attraversati da violente trasformazioni” ma in stretta interazione (funzionale, ecologica, visiva, percettiva, …) con emergenze naturali e culturali che debbono recuperare un nuovo senso ed un nuovo ruolo. Le contaminazioni e le ibridazioni che i paesaggi eccellenti (o semplici tracce di beni paesistici fagocitati nelle nuove “polveri urbani”) hanno subito nel corso soprattutto di questi ultimi anni non lasciano spazio a visioni nostalgiche ed alla ricerca delle ultime immagini-cartolina.
Si auspica, invece un percorso progettuale volto, in prima istanza, alla determinazione di «obiettivi di qualità paesaggistica» per l’intero territorio (vedi Convenzione Europea del Paesaggio) e quindi alla sperimentazione di forme di approccio alla valorizzazione territoriale attraverso decisioni pubbliche prese il più vicino possibile ai cittadini.

La Convenzione Europea del Paesaggio
La Convenzione Europea del Paesaggio (sottoscritta a Firenze nell’ottobre del 2000), che il 9 gennaio del 2006 con legge n. 14 è stata definitivamente inclusa nel panorama legislativo nazionale, costituisce per l’Italia ben più di un semplice strumento giuridico. Si tratta, probabilmente, di una vera e propria proposta politica capace di rimodellare e valorizzare in profondità, se correttamente applicata, la ricca e complessa relazione che nel nostro Paese lega popolazioni e territorio.
Una relazione difficile perché la riconoscibilità nazionale, come quella europea, è fondata su tanti diversi paesaggi, ognuno ricco di una propria specificità e tutti insieme costituenti questa grande realtà geografica e territoriale. In questa direzione, la ricerca dell’identità (nazionale o europea) non è una sfida bensì un dialogo tra le tante diversità paesistiche (ma anche culturali, religiose, linguistiche, …). La parola d’ordine diventa dunque inclusione anziché esclusione e la ricchezza paesistica è fondata nelle mille accezioni in cui si presenta.
In premessa alla stessa Convenzione troviamo alcune considerazioni di fondo che portano una ventata di novità (almeno dal punto di vista dell’applicazione normativa) nell’approccio alla gestione paesistica:
Il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale e costituisce una risorsa favorevole all’attività economica. Se salvaguardato, gestito e pianificato in modo adeguato, può contribuire alla creazione di posti di lavoro;
Il paesaggio coopera all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere e alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento dell’identità europea;
Il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni: nelle aree urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana;
Le evoluzioni delle tecniche di produzione agricola, forestale, industriale e pianificazione mineraria e delle prassi in materia di pianificazione territoriale, urbanistica, trasporti, reti, turismo e svaghi e, più generalmente, i cambiamenti economici mondiali continuano, in molti casi, ad accelerare le trasformazioni dei paesaggi.
La convinzione che il paesaggio rappresenti un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e che la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua pianificazione comportino diritti e responsabilità per ciascun individuo è il fondamento delle “misure specifiche” introdotte dalla Convenzione, articolate in una serie di azioni da avviare ai diversi livelli di governo :
Definire ed attuare delle politiche del paesaggio volte alla salvaguardia, alla gestione e all’assetto dei paesaggi;2
Predisporre delle procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti interessati alla definizione ed alla realizzazione delle politiche del paesaggio;
Integrare il paesaggio nelle politiche relative all’assetto territoriale ed urbanistico, nelle politiche culturali, ambientali, agricole, sociali ed economiche, ed in ogni altra politica che possa avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio;
Accrescere la sensibilità della società civile, delle organizzazioni private e delle pubbliche autorità rispetto al valore dei paesaggi, al loro ruolo ed alla loro trasformazione;
Identificare i paesaggi, analizzare le loro caratteristiche e loro dinamiche e le pressioni che li modificano, seguirne le trasformazioni;
Qualificare i paesaggi identificati, tenendo conto dei valori particolari che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate;
Formulare degli obiettivi di qualità paesaggistica per i paesaggi identificati e qualificati, previa consultazione pubblica.
In questa prospettiva, andare nella direzione indicata dalla Convenzione, significa andare oltre quelle esemplificazioni interpretative incentrate sul dato finito e circoscritto per sfociare nell’immaginario collettivo e nelle soggettività individuali.
Sarà necessario mettere insieme “tecnici e poeti” per:
Concepire il paesaggio come “componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità”;
Cogliere il significato del paesaggio in quanto “parte di territorio, così com’è percepita dalle popolazioni, che deriva dall’azione dei fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”;
Considerare il sistematico riferimento ai soggetti interessati anche per quanto riguarda la valutazione delle risorse paesistiche che deve “tener conto dei valori specifici che sono loro attribuiti dai soggetti e dalle popolazioni interessate” e le conseguenti procedure di consultazione e partecipazione;
Conseguire gli obiettivi di qualità che non riguardano pochi brani di paesaggio di indiscusso valore (vedi l. 1497/39) ma l’intero territorio; quindi sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati.

Il ruolo persuasivo del bel paesaggio
Le comunità locali, attraverso le loro diverse espressioni (dalle pratiche agricole alle produzioni artistiche e letterarie), imprimono i caratteri ai territori in cui risiedono. Il paesaggio, pur essendo la conseguenza di fattori economici, diventa, a sua volta, fattore produttivo di comportamenti sociali, “come contenitore di modelli persuasivi” e quindi come “educatore” delle comunità locali. In un saggio pubblicato di recente da Giorgio Mangani (“L’Arcadia e (è) il paesaggio marchigiano. Territorio e persuasione”, in: Sargolini M., Paesaggio territorio del dialogo, Kappa Edizioni, Roma, 2005), viene argomentato come il paesaggio marchigiano, pur rimanendo un prodotto storico del lavoro umano, per effetto di una sua elaborazione come categoria ideologica, abbia anche svolto (in passato, e forse può ancora svolgere) il ruolo di modello etico di comportamento. Questa interpretazione, che lo stesso autore definisce “postmaterialistica”, non vuole semplicemente anteporre l’immaginario culturale e sociale alla forza dei meccanismi di produzione, ma ambisce ad un’analisi economico-politica complessa della “forma paesaggio”.
Da questa intuizione, che affronta a suo modo i complessi rapporti tra paesaggio, comunità locali e governo del territorio, discende la convinzione, ad esempio, che lo stesso valore persuasivo del paesaggio toscano frutto di un intenso ma equilibrato storico rapporto uomo-ambiente abbia contribuito a preservare il paesaggio toscano dalle moderne minacce di manomissione. Nel caso studio della Toscana, questo valore persuasivo, può sembrare addirittura più efficace del successo economico dello stesso “Made in Tuscany” nel mondo e del corpo di strumentazioni concettuali molto complesso, fondato sull’apparato normativo antecedente il Codice Urbani che va dalla L. 1497/39 alla L. 490/99 (in campo nazionale) e dalla L.R. n. 5/1995 alla L.R. n. 1/2004 (in ambito regionale toscano).
Per tornare all’esperienza marchigiana, le diverse rappresentazioni del paesaggio che nella storia si sono susseguite sono senz’altro le più efficaci figure retoriche della persuasione. Sono esempi evidenti: il “buon governo” rappresentato nel XIV secolo da Ambrogio Lorenzetti con il bel paesaggio, o i due ritratti del duca Federico da Montefeltro e di sua moglie Battista Sforza eseguiti da Piero della Francesca, in cui compaiono forme diffuse di insediamenti colonici e bonifiche di interi territori. Ma forse la testimonianza più interessante di questa idealizzazione dei paesaggi rurali marchigiani va attribuita a Gherardo Cibo, vissuto nel XIV secolo, tenendo presente che nello stesso periodo sceneggiature del modello rurale, che diventano sfondi di primi piani diversi, si ritrovano in molte altre produzioni artistiche del nord Europa (dalla Germania alle Fiandre).
Ed il paesaggio incomincia a leggersi come un sistema di segni «capace di contenere il DNA di una comunità sociale».
Nell’addentrarci (temerariamente) in questo percorso di ricerca tracciato da Giorgio Mangani siamo portati a leggere gran parte delle rappresentazioni del paesaggio e del territorio a noi pervenute come modello morale piuttosto che come «fotografia della realtà». Si coglie così una spinta persuasiva unidirezionale, volta a presentare un paesaggio seminaturale in armonico equilibrio, in cui convivono risorse biotiche, abiotiche ed antropiche. Questa suggestione viene introdotta attraverso immagini dichiaratamente orientate ad evocare la felice integrazione tra attività umane (pascolo, agricoltura, insediamenti, …) e componenti della natura (fiumi, aree rupestri, boschi, …). Alcuni elementi, come ad es. l’acqua, sembrano quelli meglio utilizzati per dimostrare la indissociabilità tra natura e cultura. Dalla fine del 500 agli inizi del 600, è difficile rinvenire mappe (e raramente veduta pittorica) senza la presenza dell’acqua. L’acqua (sotto forma di canali, fiumi, laghi, mare, ...) diventa una visione costante non solo perché costituisce elemento pittorico suggestivo e parte integrante del paesaggio urbano come di quello rurale, ma soprattutto perché allude all’abitabilità – vivibilità - di un luogo. In questo senso, la risorsa naturale “acqua” diventa dunque elemento che compendia e assimila la matrice naturale a quella culturale.

Intensificare i legami tra Natura e Cultura per lo sviluppo sostenibile
Se dovessimo raccontare in poche righe che cosa è mancato alle esperienze della pianificazione paesistica (per sancire definitivamente il passaggio dagli elenchi di risorse da tutelare al piano per la valorizzazione di quelle stesse risorse) probabilmente dovremmo concentrarci sul fatto che anche i migliori piani paesistici in circolazione hanno fatto (e fanno) fatica a riconoscere la singolarità dei paesaggi italiani, i loro caratteri distintivi costituiti dalle mutue interdipendenze, dalla ricchezza d’interazioni tra storia - natura - società. I limiti sono dovuti alla difficoltà di integrare e fondere i diversi regimi di tutela che invece riflettono gli specifici campi disciplinari cui afferiscono (da quelli storico-culturali, a quelli botanico-vegetazionali, a quelli geomorfologici e idrogeologici). Ognuno di essi è infatti regolamentato da specifiche (e settorialmente definite) leggi dello Stato.
I limiti sono prima di tutto culturali. I percorsi dell’elaborazione interdisciplinare sono tutt’altro che consolidati. Le forme di sperimentazione sono deboli e incerte. Nel migliore dei casi si ottiene un semplice affiancamento tra diversi saperi e non una costruttiva, feconda, interazione. Introdurre «principi di qualità paesistica» (vedi Convenzione Europea del Paesaggio) nelle politiche territoriali significa prima di tutto cogliere lo stretto rapporto tra le componenti della natura e quelle della cultura.
Obiettivo che sembra ancora lontano anche se alcune esperienze si muovono in questa direzione:
A) nelle politiche internazionali, l’IUCN avvicina il paesaggio alla natura e concepisce politiche del paesaggio in difesa della biodiversità. Nella stessa classificazione delle aree protette il termine paesaggio s’intercala costantemente con quello di parco;
B) nei progetti di formazione della rete ecologia europea e nazionale (nonché nelle diverse esperienze regionali) è ben evidente il ruolo che può avere il paesaggio nell’andare ad assicurare la continuità tra core areas diverse;
C) alcuni progetti territoriali nazionali fondano programmi di riequilibrio e sviluppo territoriale sulle mutue interdipendenze tra elementi della natura e quelli della cultura: penso, ad esempio al progetto APE (Appennino Parco d’Europa) promosso da Legambiente.
L’asfissia con la quale spesso si gestiscono le aree protette (anche a causa di una legge quadro sulle aree protette che non si preoccupa a sufficienza dei rapporti dell’area stessa con il contesto territoriale) è superabile proprio da una stretta alleanza tra conservazione della natura e tutela del paesaggio. In alcuni piani di parchi, l’esperienza delle unità di paesaggio va in questa direzione. Affidare un ruolo progettuale a questi nuclei addensatori di relazioni tra componenti eterogenee interagenti, significa agganciare il percorso di valorizzazione di ciascuna unità di paesaggio (ivi compreso lo sviluppo sociale ed economico della relativa comunità locale di appartenenza) alle diverse identità relazionali che le compongono.
Come in più occasione ci ha ricordato Giuseppe Dematteis, i geografi dell’Ottocento avevano precocemente tentato di riportare relazioni naturali e umane a principi esplicativi comuni. Ma non è stato mai completamente possibile cogliere quello spazio unificante capace di rappresentare coerentemente il sistema dei rapporti sociali e quello delle relazioni naturali in quanto «l’impatto sulle culture e sulle attività umane dipende in tutto e per tutto dai singoli contesti locali». Entra dunque in gioco una geografia della complessità basata sulla concettualizzazione dei sistemi territoriali locali come nodi di reti. E in questa concettualizzazione si fonda anche la connessione tra il paradigma paesistico e quello dello sviluppo sostenibile che tende a far sì che ogni sistema locale possa efficacemente affacciarsi sui circuiti di scambio valorizzando le specificità locali. Questa connessione tra il paradigma paesistico e quello dello sviluppo sostenibile presuppone una corrispondenza tra paesaggio e comunità locali ricercata dalla stessa Convenzione Europea del Paesaggio, ma per niente scontata.

Ripartire dalla formazione
In Italia, il sistema universitario non offre, salvo parziali eccezioni, né percorsi formativi specifici per gli specialisti del paesaggio né programmi formativi atti a favorire la considerazione integrata e interdisciplinare dei temi del paesaggio.
Si rende dunque opportuno l'adeguamento della formazione universitaria in materia di paesaggio sulla base dei seguenti orientamenti:
- rafforzare la considerazione delle questioni legate al paesaggio nei programmi formativi dei settori scientifico-disciplinari che possono maggiormente contribuire al perseguimento degli obiettivi fondamentali della Convenzione;
- istituire percorsi formativi specifici dedicati al tema del paesaggio, così com'è concepito dalla Convenzione, che tengano conto delle esigenze di interdisciplinarietà e integrazione tra i settori scientifico-disciplinari maggiormente implicati nell'attuazione degli stessi obiettivi.

di Massimo Sargolini
Facoltà di Architettura,
Università di Camerino