Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 47 - FEBBRAIO 2006




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Patrimoni di comunità

Un'alleanza per la difesa del territorio

Si tratta di occasioni che la tradizione offre per elaborare, dal basso, strategie efficaci di governo del territorio per aree sensibili, spesso di interesse ambientale. Tra politiche delle aree protette e suggestioni ecomuseali, la tutela dei patrimoni di comunità, nelle sue varie declinazioni, può essere un insospettabile strumento innovativo di “governance” per disegnare il futuro del territorio.

Nelle prospettive di futuro sostenibile, rese ancor più attuali -se mai ce ne fosse stato il bisogno- dal recente, rilanciato dibattito sulla decrescita, la condivisione delle scelte di governo locale risulta fondamentale punto di riferimento. Quando si parla di “governance”, si intende proprio un approccio che favorisca il dibattito, la discussione, la condivisione delle scelte assunte. Governance è un concetto piuttosto ambiguo, con molti usi e interpretazioni. Ne esiste tuttavia una definizione operativa: la Governance delle politiche urbane e territoriali è la capacità di attori, gruppi sociali e istituzioni (pubbliche, private, terzo settore), di costruire un consenso organizzativo, come accordo sul contributo di ogni partner anche su una visione comune. La governance territoriale, si identifica dunque come ”visione spaziale”, e inoltre perfeziona la definizione con l’aggiunta di aspetti relativi agli outcome dei processi di governance, che dovrebbero mirare a sostenere la coesione territoriale e lo sviluppo spaziale equilibrato e sostenibile.
Il concetto di “governance” designa le norme, i processi e i comportamenti che influiscono sul modo cui le competenze sono esercitate a livello europeo, soprattutto con riferimento ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza.
I principi della governace sono riconducibili ad alcuni punti principali: apertura, partecipazione responsabilità, efficacia, coerenza.
Su queste linee si basa il Libro bianco sulla “governance europea” che tratta il modo in cui l’Unione esercita i poteri che le hanno conferito i suoi cittadini. Il Libro bianco propone una maggiore apertura nel processo di elaborazione delle politiche dell’Unione europea, così da garantire una partecipazione più ampia dei cittadini e delle organizzazioni alla definizione e presentazione di tali politiche.
In occasione del Consiglio europeo di Lisbona, tenutosi nel marzo 2000, i capi di Stato e di governo dei Quindici hanno definito una strategia finalizzata a fare dell’Europa «entro il 2010 l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo».
La strategia di Lisbona prevede misure volte a promuovere lo spirito imprenditoriale, l’innovazione e la ricerca, in modo da permettere all’Europa e alle sue regioni di dotarsi degli strumenti necessari per affrontare i mutamenti economici e sociali del futuro. Nel giugno 2001, il Consiglio di Göteborg ha ampliato questa strategia insistendo sulla tutela ambientale e sulla necessità di seguire un modello di sviluppo più sostenibile.
Purtroppo, nella realtà dei fatti, non siamo ancora in questa dimensione e le scelte territoriali sono, per lo più, imposte da centri di potere diverso, da quello politico a quello economico. Anche chi nei convegni o nelle dichiarazioni ufficiali sembra essere schierato per la concertazione, alla resa dei conti finisce poi spesso per interpretare il ruolo di sostenitore di interessi di volta in diversi, particolari, diffusi… occulti.
Le indicazioni e le linee fondanti dell’Aalborg Commitments, sottoscritte nel 2004, dall’Assemblea delle città sostenibili d’Europa, possono essere utilmente estese al territorio non urbano? Alle aree protette? Crediamo di sì.
Al di là degli slogan scontati è necessario sempre più una cittadinanza attiva che sia partecipe dei processi decisionali e legittimi sino in fondo, le strategie di sviluppo, correlandole strettamente con sistemi di corresponsabilità e coprogettazione.
In questo senso l’esperienza delle Comunità del Parco appare ancora fragile e poco aderente ai principi ispiratori della legge quadro nazionale che ne fece un organismo pienamente coinvolto nella gestione e non -come ancora troppo spesso accade- controparte dell’ente di gestione dell’area protetta. La Comunità del Parco è ancora troppo spesso interpretata come una sorta di organo di controllo, spesso controparte degli organismi che sovrintendono ai parchi piuttosto che loro parte integrante.
Eppure esse potrebbero rappresentare la moderna interpretazione di istituzioni un tempo piuttosto diffuse sul territorio ed interpreti della sua gestione. Ci riferiamo all’esperienza dei patrimoni di comunità, cui il Parco Nazionale dell’Aspromonte dedicò, nel 2004, una prima riflessione e su cui ci si è tornati a interrogarsi nel recente seminario tenutosi presso il Parco regionale della Partecipanza dei Boschi di Trino Vercellese.
Dalla prima riunione nacque la definizione di patrimonio di comunità quale «ecosistema naturale o modificato, che include una biodiversità significativa, fornisce servizi di natura ecologica e/o possiede valori culturali propri, conservato in modo volontario da una o più comunità interessate secondo costumi tradizionali o tramite altri mezzi efficaci».
Nel frattempo alla politica dei parchi e delle aree protette si è significativamente aggiunta, quella degli ecomusei che sta interessando buona parte della penisola. Dunque l’esperienza gestionale acquisita a livello regionale, nazionale e internazionale su questi temi, consente di reinterpretare il ruolo di queste istituzioni quali strumenti a disposizione delle comunità locali per conoscere, conservare e valorizzare le proprie risorse ambientali, le proprie tradizioni, la propria storia.
E’ così possibile far emergere il “territorio”, nelle sue varie componenti, come sistema di valori e di relazioni, in cui le realtà locali si propongono come interpreti insostituibili per affrontare in modo efficace, risolutivo ed equo i grandi e i piccoli problemi connessi a una gestione sostenibile del territorio fondata su processi di sviluppo condivisi.
Nel caso dei patrimoni di comunità, è proprio il “territorio” a offrire esperienze antiche e consolidate di gestione delle risorse naturali, attuate dalle comunità locali attraverso strutture organizzative sviluppate e modulate sulle caratteristiche delle specifiche realtà, per rispondere a criteri da un lato di conservazione e incremento delle risorse stesse e dall’altro di equa ripartizione dei prodotti. «In questa capacità di coinvolgimento, che è condizione di base per la loro esistenza, si riconosce l’attualità di queste esperienze che possono contribuire al processo di modernizzazione della società, orientando processi di rivitalizzazione economica e di riassetto ambientale che garantiscano sia usi ragionati e controllati delle risorse e del territorio, nonché equi e accessibili, sia rinascita socio-culturale in quanto fattori di integrazione e quindi di comunità», commenta Ermanno De Biaggi responsabile delle aree protette per la Regione Piemonte. «E’ evidente l’importanza di fare riemergere queste realtà nella prospettiva di consolidarne la presenza sul territorio e di valorizzarne l’esperienza per garantire il raggiungimento degli obiettivi accennati anche attraverso la modulazione delle sue strategie nelle politiche orientate alla tutela, alla conservazione ed allo sviluppo delle risorse locali».
Nella nostra penisola esiste ancora un patrimonio di oltre tre milioni di ettari di “proprietà collettive” (comunanze, comunalie, comunaglie, comunelle, università, vicinie, partecipanze, corporazioni di originari, regole, laudi, consorterie, ecc.) che ricoprono il 10% del territorio agricolo e forestale, e sono ubicate nelle zone più diverse: in collina e in montagna, in prossimità delle coste o dei centri abitati.
Il totale è pari ad ha 3.085.028 (Ministero Agricoltura e Foreste, 1947), di cui: 2.596.236 ettari di proprietà collettive imputate a Comuni; 488.792 ettari di proprietà collettive imputate a varie forme di associazioni agrarie; 250.000 ettari di terre private gravate da usi civici. Un patrimonio cospicuo che non può essere trascurato nel momento in cui si affrontano le problematiche dell’ambiente o quelle del riordino del territorio.
La situazione non è tuttavia così fluida e occorre porsi innanzitutto il problema della destinazione delle terre di fatto perdute definitivamente all’uso silvo-pastorale delle collettività proprietarie (edificate, da legittimare, ecc.), che, secondo il Presidente dell’associazione “Usi Civici e Proprietà Collettive” Luigi Cesare Oliveti, sono stimabili prudenzialmente intorno al 20% del totale ed interessano almeno il 40% dei Comuni Italiani.
In termini finanziari - stimando il valore medio di mercato ricorrendo per semplicità ai Valori Agricoli Medi di esproprio (Vam) pubblicati annualmente sui Bollettini Ufficiali delle Regioni- si ha un valore delle terre extra-agricole, o comunque da legittimare al possesso dei privati, di oltre sei milioni di euro.
In ogni caso il fenomeno sia esso delle comunioni familiari, piuttosto che delle regole cadorine, o dei domini collettivi e comunanze agrarie, desta l’attenzione delle organizzazioni internazionali per modalità gestionali che responsabilizzano le comunità nella conservazione di sistemi territoriali, ecologici e culturali, ed anche le realtà locali manifestano un rinnovato interesse verso queste esperienze.
Emerge la necessità di preservarle, conservandone il buon esempio. Esse rappresentano, infatti, esperienze significative che dal passato sembrano pienamente ricollegarsi alle esigenze dell’oggi che affermano il riconoscimento costituzionale di valori comuni e condivisi. Malgrado ciò, assistiamo a una generale tendenza al loro smantellamento per liberarle da vincoli che ne impediscono la loro partecipazione al mercato, così come registriamo il tentativo, da parte di forme di governo gerarchico del territorio e di modelli di neo centralismo autoritario, di imporsi, in aperta contraddizione con un dichiarato percorso verso forme di decentramento che dovrebbero privilegiare quei processi partecipati che attribuiscono rinnovata fiducia alle capacità dei cittadini di governare se stessi e di decidere del proprio futuro.
Le antiche forme di gestione partecipata dei patrimoni di comunità rappresentano esempi virtuosi cui guardare con interesse, per la loro capacità di tramandare tradizioni, memoria, valori, identità in cui una comunità ha l’occasione di riconoscersi e di conoscersi di nuovo; sono esempio di gestione equa, solidale e sostenibile delle risorse; sono strumenti di controllo di forme di sfruttamento speculativo della terra; sono strumento di salvaguardia della “terra” come risorsa rinnovabile ma non infinita. Infine possono fornire nuove occasioni per economie innovative che fanno perno sull’uso multifunzionale delle risorse (produttivo, protettivo, ecologico, turistico-ricreative, didattico, culturale…),
La loro attualità sta tutta nella capacità, che rappresentano, di aiutarci a ricercare processi decisionali partecipati e il più possibile condivisi, fondati su obiettivi di sviluppo sostenibile ed equi; si tratta di un’esigenza ineludibile e comune per tutti i paesi e di una condizione per garantire la salvaguardia delle risorse, una migliore qualità della vita e la prevenzione di conflitti. Secondo il “Centro Studi e documentazione sui demani civici e le proprietà collettive” dell’Università di Trento: «in contrasto col sentire comune, che identifica la proprietà collettiva con un settore tradizionale e quindi poco innovativo, vi sono, invece, molte ragioni che ci inducono a ritenere altrimenti». Ci troviamo, infatti, di fronte a vere e proprie sedi «di confronto, di dibattito e di approfondimento culturale per quanti identificano nella proprietà collettive un diverso modo di possedere (contrastando il forte pregiudizio ideologico contro la proprietà collettiva) ed un diverso modo di gestire (contrastando l’opinione ampiamente diffusa secondo cui la proprietà comune è fonte di inefficienza) ». A difendere e sostenere questa dimensione di tutela dei diritti collettivi costituiti è sorta, a Firenze, l’Associazione nazionale usi civici e proprietà collettive”.
Dalla lettura del suo Statuto ne conosciamo le funzioni e gli obiettivi:
«Ha per scopo la tutela dei beni e dei diritti civici, delle terre e dei beni in proprietà collettiva. A tal fine si propone:
1. di sostenere le popolazioni rurali nella difesa e riaffermazione della propria storia, nonché del diritto alla gestione del proprio territorio, perché la storia delle singole collettività rappresenta, nel suo insieme, la storia del mondo;
2. di sostenere presso le istituzioni con responsabilità di governo, sia nazionale sia locale, che il non effimero benessere dei popoli e la stabilità politica trovano solide fondamenta solo nel rispetto dei diritti di ogni singolo individuo e di ogni comunità, per quanto piccola, poiché il territorio appartiene prioritariamente alle genti che vi risiedono, vi vivono e vi lavorano;
3. di sostenere che la difesa del suolo e la regimazione delle acque non può avere efficaci risultati senza il coinvolgimento dei cittadini che vi risiedono;  
4. di sostenere che la dignità delle popolazioni rurali, dalle quali ogni formazione sociale trae origine, nella consapevolezza che la difesa dei diritti e la tutela della proprietà collettiva sia un valore universale;
5. di promuovere l’unione delle gestioni dei beni collettivi, affinché la gestione di tali beni e la loro tutela dei diritti delle popolazioni possa trovare, in tale unione, maggiore forza, più efficaci sinergie ed opportune rappresentatività; quanto sopra nella convinzione che la sicurezza dei grandi aggregati urbani e delle infrastrutture, grandi o piccole, dipende sempre dalla significativa ed organizzata presenza di popolazioni distribuite nelle aree rurali;
6. di svolgere ogni azione di tutela delle terre silvo-pastorali, e di quelle di queste complementari, inusucapibili e ad alienabilità condizionata, per il loro preminente valore ambientale, sostenendo l’autonomia statutaria degli enti gestori di terre civiche nella libera decisione sulla destinazione delle altre terre già di fatto perdute per l’uso civico e ora non più silvo-pastorali, con l’eventuale solo obbligo di destinare i proventi delle privatizzazioni a opere di interesse generale delle popolazioni proprietarie e, comunque, al miglioramento, in estensione o in valore, delle terre silvo-pastorali e  degli altri beni ritenuti a questi funzionali». Da questo stralcio statutario si evince tutta la determinazione nel difendere un diritto acquisito a tutela del bene collettivo. Se rivolgiamo poi espressamente l’attenzione alle risorse naturali ricomprese nelle terre di godimento collettivo ci accorgiamo che presentano una spiccata vocazione multifunzionale all’uso con delle stesse risorse: produttivo, protettivo, ecologico, turistico-ricreative, paesaggistico, culturale.
Ne deriva un ampio spettro di possibilità di valorizzazione degli ecosistemi collettivi, che a fianco di obiettivi aziendali e produttivi possono veder convivere vocazioni di tutela forestale, agricola, ambientale, che la caratteristica di patrimonio collettivo a gestione privata può favorire. L’uso multiplo può garantire un equilibrio capace di far convivere attività economica di soggetti privati con esigenze sociali e collettive di tutela del demanio pubblico, in una associazione virtuosa che da un lato evita forme di sovrasfruttamento delle risorse, dall’altra può comunque assicurare la gestione economica delle imprese e favorire la trasmissione nel tempo del capitale natura.Ne potranno trarre vantaggio ecosistemi significativi e importanti, dai terreni forestali a quelli pascolivi, dagli spazi senza vegetazione alle le zone umide, acque interne, aree attrezzate, aree a parco, ecc.
L’esempio delle Comunalie è emblematico.
Le Comunalie appartengono alla categoria della proprietà collettiva. Si tratta cioè di comunità che hanno l’interesse preminente di unire le proprie forze e la propria attività per dare luogo a una organizzazione giuridica dei beni gestiti dal punto di vista patrimoniale attraverso la solidarietà. Su questa proprietà la stessa comunità, definita territorialmente dal nucleo rurale o dalla frazione di appartenenza, esercita il proprio diritto di godimento. Esse rappresentano dunque, sul piano giuridico, “dominio collettivo”, denominazione che, con la legislazione dell’ultimo dopoguerra, assume la dizione di “comunioni familiari” prima (L. 991/52 art. 34 - L.1102/71 art. 10), e il termine di “organizzazioni montane” in questi ultimi anni (L. 97/94). I beni di questa natura sono inalienabili e indivisibili e i diritti acquisiti trasmessi, sotto forma di diritto di compartecipazione ai discendenti. Le Comunalie sono dotate di appositi Statuti o Regolamenti dopo che la L. 397/94 ha voluto regolamentare consuetudini trasmesse oralmente da secoli e di cui, salvo rare eccezioni, non esiste alcuna traccia scritta.  L’interesse e l’attaccamento delle popolazioni montane alle loro proprietà collettive frazionali è tuttora molto vivo: E non si tratta solo di interesse venale. Entrano in ballo storia e tradizione:
Le Comunalie hanno, infatti, svolto un ruolo importante e positivo a sostegno e ad integrazione dell’economia delle singole frazioni, sia assolvendo ai propri compiti istituzionali con l’assicurare agli utenti l’esercizio del diritto di legnatico e di pascolo, sia attuando opere pubbliche a servizio della collettività (acquedotti, elettrodotti, strade, scuole elementari, edifici per il culto, ecc...) alla cui realizzazione partecipò l’intera comunità.  Anche in questo senso di unione e di mutuo soccorso va ricercato il ruolo importante delle Comunalie che sono riuscite, in molte situazioni, a contrastare la generale tendenza alla parcellizazione della proprietà, primo passo verso un progressivo abbandono di tante aree boschive o pastorali; mantenere, attraverso la proprietà collettiva, basi territoriali sufficientemente grandi per esercitare in maniera razionale, e produttive, attività agro silvo pastorali, ha significato garantire a quei territori manutenzione, conservazione e tutela. E’ evidente che le “proprietà collettive” e le loro diverse forme gestionali fondate sulla partecipazione, sull’uso equo e sostenibile delle risorse, rappresentano un bene trasmesso di generazione in generazione e continuamente rinnovato dalle comunità locali, a testimonianza di una radicata tradizione che può essere oggi assai utile nella ricerca di strade per un futuro sostenibile. Al valore strettamente ambientale, va inoltre sicuramente aggiunta la valenza culturale che queste forme gestionali assumono. Ecco perché i patrimoni di comunità possono ben essere ascritti alla categoria del “Patrimonio della culturale immateriale” elaborata per la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale” nella 32° Sessione dell’Assemblea Generale UNESCO svoltasi a Parigi nell’ottobre 2003 e in vigore dal 20 aprile a tre mesi esatti dalla ratifica da parte del trentesimo Stato, la Romania. Purtroppo tra i paesi cosiddetti “grandi” che hanno ratificato la Convenzione, ci sono solo Giappone e Cina e anche l’Italia è tra i renitenti.
La Convenzione incoraggia i Paesi del mondo ad adottare adeguate misure legali, tecniche, amministrative e finanziarie per garantirne, attraverso il contributo degli enti pubblici e le comunità locali, l’identificazione, la documentazione e la rivitalizzazione.
Al momento per l’Italia è stata iscritta, nel 2001, l’“Opera dei pupi siciliani”.
Un ottimo inizio che non può, tuttavia, essere lasciato solo stante il giacimento di cultura sensibile o labile del nostro paese, per la quale diviene urgente e indifferibile lo sviluppo di un progetto generale che ne garantisca lo studio sistematico e la salvaguardia.
Il “Comitato Patrimonio immateriale e Tesori umani viventi” costituito nell’ambito della “Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco” ha iniziato, attraverso la richiesta di specifici contributi alle Direzioni Regionali del Ministero per i Beni e le Attività culturali e alle Regioni, la costituzione di un primo elenco indicativo di beni del patrimonio immateriale per valutarne la possibile proposta di iscrizione al Comitato del Patrimonio Mondiale.
I “Patrimoni di comunità” hanno tutte le carte in regola per aspirare a far parte, a pieno titolo, della categoria del “Patrimonio culturale immateriale” e alcune di queste realtà, tra le più vive, originali ed autentiche, sono sicuramente candidate ad entrare nell’elenco da sottoporre al Comitato del Patrimonio mondiale in rappresentanza dell’intero sistema, sancendone simbolicamente l’importanza..

di Ettore Falco