Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 48 - GIUGNO 2006




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INTERVISTE

Alfonso Pecoraro Scanio
Ministro dell’Ambiente

Salernitano, classe 1959, Presidente dei Verdi, già Ministro all’agricoltura nel primo Governo Prodi, Alfonso Pecoraro Scanio, avvocato napoletano, un passato politico nei radicali, poi la scelta ambientalista, con diversi incarichi a livello locale (consigliere e assessore comunale a Salerno, consigliere comunale a Napoli, consigliere regionale) e dal 1992 parlamentare, dal 17 maggio è responsabile del Dicastero all’Ambiente.
Tra i primi atti da Ministro, il mutamento delle denominazione, che è diventata “Ministero all’Ambiente, Tutela del territorio e del mare” con un’aggiunta doverosa che pone l’attenzione a una risorsa, quelle delle nostre acque marine, troppo a lungo trascurata o considerata solo come substrato inerte per le vie di traffico dei mercati.
Dopo l’intervento al Congresso di Federparchi all’Etna, gli abbiamo posto alcune domande su argomenti che ci stanno molto a cuore.

Su questo numero dedichiamo una riflessione all’uccisione di JJ1 l’orso dell’Adamello Brenta sconfinato in Baviera. I commenti possono essere molti. Lei si è schierato inviando una lettera ai ministri federali dell’Ambiente austriaco Josef Pröll e tedesco Gabriel Sigmar, nonché al Commissario europeo all’Ambiente Stavros Dimas nella quale ha scritto che “il Governo italiano si attendeva un coordinamento più accentuato al fine di salvaguardare la vita dell’animale”.
Ha così centrato appieno il problema. Gli sforzi per le reintroduzioni o per accondiscendere il ritorno della fauna che rappresenta il vertice della catena alimentare -e in questo modo garantirebbe il ristabilimento degli equilibri ecologici- non possono essere lasciati ai singoli paesi, né tantomeno ai singoli parchi. Se Bruno viene abbattuto in Baviera e i lupi monitorati sulle Alpi liguri-piemontesi muoiono per mano delle doppiette in Svizzera, qualcosa non funziona.
Eppure esiste una Convenzione delle Alpi che, in uno specifico Protocollo attuativo, si fa carico di garantire il mantenimento, o il rafforzamento, della biodiversità alpina, una delle più ricche del Continente.
Cosa ci dice su un importante impegno, come quello della Convenzione delle Alpi, che da anni è lasciato a se stesso, con un’Italia che non ha ancora approvato i Protocolli in atto e con una Consulta Stato-Regioni per l’arco alpino che non ha mai funzionato con efficacia?

La vicenda di “Bruno” è stata purtroppo emblematica. L’orso bruno, il lupo, la lince così come i nostri ambienti alpini e la nostra biodiversità alpina e non solo non si possono salvare se non con un approccio che vada oltre i nostri confini. La Convenzione delle Alpi è uno degli strumenti utili per procedere su questa strada e il nostro sforzo dev’essere quello di condividere e promuovere con i paesi confinanti, con i nostri vicini tutti quegli interventi utili e necessari a promuovere la conservazione della biodiversità. Occorre iniziare a lavorare con una diversa visione d’insieme, superare il limite delle competenze territoriali attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionalmente interessati, condividere le strategie, le modalità di approccio. Altrimenti il caso di “Bruno” rischia drammaticamente di non rimanere isolato: mentre qualcuno fa di tutto per salvare una specie ridotta a pochi esemplari in un certo territorio, qualcun altro la abbatte poiché ha un approccio diverso per la gestione o il contenimento dei problemi che quella specie potrebbe rappresentare.   
A proposito di inefficacia, un’ulteriore domanda a proposito dell’esperienza di Espace Mont Blanc, tentativo di concordare la tutela del Monte Bianco, il più importante massiccio montuoso d’Europa.
Sinora non sembra aver dato risultati degni di nota. Quali iniziative intende adottare per questo ambiente unico, da salvaguardare?

Il Monte Bianco rappresenta la difficoltà che abbiamo nel porre in essere forme di tutela comuni a livello internazionale. Eppure l’indiscutibile bellezza e lo straordinario fascino della montagna più alta d’Europa, che colpiscono chiunque abbia la fortuna di visitarla e conoscerla, così come l’aumento degli evidentissimi problemi che il Monte Bianco è costretto a subire (sia per l’aumento del turismo che per i cambiamenti climatici in atto)  dovrebbero costituire una spinta sufficiente per decretarne la sua tutela. Così invece non è. La comunità internazionale deve sentirsi più impegnata a promuoverne forme di tutela e gestioni di questi spazi comuni che hanno anche un grandissimo valore simbolico. Il nostro impegno sarà costante perché questa meraviglia naturale non venga minacciata da incauti interventi umani, perché si trovino forme di gestione comuni alla Francia. E speriamo che questo sia solo l’inizio visto che abbiamo altre zone su cui aumentare il livello di tutela e promozione attraverso forme di accordo internazionale, basti pensare ad esempio al comprensorio del Carso che arriva sino in Slovenia con le sue strabiglianti caratteristiche naturali.
Parlando di politica delle aree protette Lei ha dichiarato che intende assumere un atteggiamento di concertazione con le realtà locali, attuando quella “territorializzazione delle politiche ambientali” suggerite dalla Conferenza di Rio de Janeiro e mettendo in pratica quella “leale collaborazione” tra Stato, Regioni ed Enti locali per costruire davvero una rete delle aree protette capace di assumere appieno le caratteristiche di un sistema della biodiversità italiana. Allo stato delle cose ci sono numerose situazioni difficili: tra i parchi istituiti ma di difficile governo l’Arcipelago toscano, tra quelli da anni in progetto il Gennargentu… C’è poi il caso del Delta del Po che reclama una unitarietà di gestione come tutte le regioni di sbocco a mare dei grandi fiumi europei.
Quali sono le priorità e le strade che il Ministero intende seguire?

Dobbiamo con serenità prendere atto che sulle aree protette c’è ancora molta diffidenza. D’altra parte è da dire che certo molti Enti non hanno brillato di efficienza e molte cose, pur vere e possibili, sono rimaste semplici promesse. Occorre dunque ritrovare un dialogo, parlare con la gente, trovare il punto di equilibrio possibile rispetto le loro legittime aspettative. Bisogna anche formare gli amministratori, i funzionari degli enti locali, dare loro gli strumenti per governare in modo diverso territori estremamente sensibili.  Con questo approccio spero si possa trovare una diversa volontà di dialogo che consenta di affrontare anche le questioni più difficili del nostro sistema di aree protette, cioè il Gennargentu ed il Delta del Po. Tutti i parchi sono importanti, hanno valenze preziosissime, ma in questi due casi si tratta di valori talmente manifesti e riconosciuti ad ogni livello internazionale che dare garanzie e prospettive di tutela, nel quadro di uno sviluppo durevole e sostenibile delle popolazioni residenti, è un dovere civile che dobbiamo a tutti. Non v’è infatti dubbio che i luoghi, le bellezze naturali, ambientali, paesaggistiche appartengano innanzi tutto a coloro che da sempre abitano quei territori, ma parimenti non v’è dubbio che queste vadano conservate anche nell’interesse di tutti, anche di coloro che ancora non ci sono. La grande sfida è quella di far comprendere quanto la tutela dei luoghi sia strettamente legata all’identità delle popolazioni e quanto questa identità, proprio oggi dove tutto viene massificato, rappresenti il fondamentale elemento distintivo che consente di stare sul mercato sia come offerta turistica, sia come produzioni di prodotti. I parchi possono essere uno strumento avanzato di sviluppo sostenibile, è così in molte parti del mondo, in Italia subiscono invece le ripercussioni di una cattiva politica che da un lato strumentalizza le posizioni di dissenso amplificando problemi che hanno risposte possibili e relativamente facili, dall’altro tende ad occuparli come un qualunque altro ente sacrificando spesso competenze e passioni.
A proposito di coordinamento delle politiche per la biodiversità, c’è poi il caso delle riserve statali e della gestione degli oltre 2.000 Sic e delle oltre 500 Zps. Come intende agire in questi settori?
Indirizzi certi di gestione, norme chiare ed inequivocabili, interventi strategici per coordinare e promuovere le attività a sistema, per promuovere quella rete integrata che è il sistema delle aree protette. Soprattutto in questo caso dobbiamo far comprendere che si tratta di aree d’interesse comunitario che vanno salvaguardate nel quadro di una strategia europea. Non a caso si è sostenuto che il più grande contributo alla tutela della biodiversità che l’Unione Europea fornisce è quello della Rete Natura 2000, cioè la rete dei Siti di Importanza Comunitaria (sic)  e delle  Zone di Protezione Speciale (Zps). In Italia queste aree, che derivano da precise direttive comunitarie, sono state sottovalutate, le procedure di incidenza fatte per valutare i vari progetti che su queste insistono sono spesso non adeguate e da qui ecco le numerose procedure d’infrazione aperte contro di noi dall’Unione Europea.  Noi quanto potevamo fare lo abbiamo fatto, abbiamo richiamato le Regioni rispetto alla necessità di una corretta applicazione di queste direttive (Habitat ed Uccelli), abbiamo fatto un decreto legge che introduce elementi di conservazione generali nelle Zone di Protezione Speciali, ma soprattutto stiamo lavorando perché il mondo della politica, ad ogni livello, riconosca oggi un valore alle aree protette, questo significa anche alzare il livello di attenzione sulle aree di Natura 2000 e mettere finalmente i presupposti per la rete ecologica nazionale che rappresenta una delle sfide fondamentali per la tutela della biodiversità.
Ci si interroga, non da oggi sul futuro e sui nuovi compiti del Corpo Forestale dello Stato.
Lei ha recentemente dichiarato che “I tagli del precedente Governo ai fondi per la Forestale sono stati irresponsabili”, sostenendo la sensibilità sul problema del presidente del Consiglio Romano Prodi. Ma ha anche lanciato un appello “affinché vengano reperiti più fondi e sia realizzato un coordinamento sempre più efficace tra Governo e Regioni. In quanto alla vigilanza contro gli incendi, la priorità va data alla tutela dei parchi, delle riserve naturali nonché delle aree abitate”. Ci sono novità in questa direzione?

Evitato lo smembramento attraverso la regionalizzazione, il Corpo Forestale dello Stato ha bisogno di forti prospettive di certezze, di un maggiore riconoscimento delle sue funzioni che sono relative ad ambiti tematici su cui occorre aumentare l’impegno e l’attenzione sia in termini di prevenzione che di repressione per le numerose illegalità che ancora vengono perpetrate. Ho sempre riconosciuto e creduto nel CFS come quel corpo di polizia ambientale di cui questo Paese ha maledettamente bisogno e oggi mi auguro che come Governo si riconoscano modalità e strumenti per accrescere la sua esperienza ed il suo impegno per contrastare i reati ambientali; l’impegno poi per tutelare e vigilare il sistema delle aree protette nazionali deve essere garantito riempiendo le piante organiche deficitarie. Credo però, al di là di questo, che debba essere posto con determinazione il problema dell’illegalità ambientale, il CFS, come i NOE, come alcuni reparti della Guardia di Finanza, come le Capitanerie di Porto, come la Magistratura, sono formidabili “strumenti”, ma dobbiamo fare in modo che questi possano essere più efficaci e molto aiuterebbe se finalmente i reati ambientali entrassero a tutti gli effetti nel nostro codice penale e se sulle ecomafie si istituisse una vera e propria intelligence operativa.
Tema aree protette marine e tutela delle coste. Intanto è parsa a tutti lodevole quell’iniziativa di aggiungere nella denominazione del Dicastero alla tutela del territorio anche quella del mare.
Tuttavia rimane una decisone simbolica che reclama conseguenti attenzioni particolari per una risorsa così importante per il nostro paese. La politica delle aree protette marine è parsa, sin qui, confusa, a cominciare dalle responsabilità nella gestione. Su quali linee intende operare?
Riconosco che è stato fatto un notevole sforzo per l’istituzione delle aree marine protette, ma altrettanto riconosco che il sistema che abbiamo è lacunoso e poco efficace. Una riflessione, aperta e serena, sulle problematiche che impediscono di esprimere tutte le potenzialità di queste è oggi doverosa. Da una parte ci sono problemi organizzativi da risolvere, ma da un’altra temo che ci sia un impianto istituzionale da riconsiderare. La partecipazione degli Enti locali rimane fuori discussione, ma le aree marine protette non possono essere solo un elemento di marketing turistico e la loro gestione dev’essere coerente a quella che viene fatta sulla fascia costiera che deve assolutamente rispondere a criteri di sostenibilità.
Nella scorsa legislatura vi furono numerose iniziative volte a cambiare la legge quadro sulle aree protette. Ma alla fine proprio quella normativa fu esclusa dal Decreto ministeriale nato come sostitutivo del Testo unico in materia ambientale che il passato Governo non riuscì a concludere.
Lei pensa vi sia la necessità di ritoccare o cambiare la legge n.394, oppure sarebbe sufficiente cercare di darne attuazione il più possibile, anche per quelle parti fino ad oggi trascurate quali la priorità di investimenti pubblici nelle aree protette piuttosto che la redazione della Carta della Natura e del Piano nazionale per la tutela della biodiversità, che tutti attendono ormai da troppi anni?

Dobbiamo riconoscere tutti che, a differenza di altre norme, la legge quadro sui Parchi ha dato risultati importanti e tangibili. La fase istitutiva dei parchi è molto avanzata, oggi la sfida è nel loro funzionamento e rispetto a questo la legge quadro ha potenzialità che non sono state colte sino in fondo. Ciò nonostante non sono contrario a pensare a qualche puntuale aggiustamento fatto sulla base dell’esperienza maturata, sono decisamente contrario a ogni ipotesi di stravolgimento e di impoverimento del ruolo delle aree protette. Non c’è dunque solo il problema di garantire la piena partecipazione alle decisioni, di rendere più efficaci e focalizzate le attività di conservazione, più coerenti quelle di valorizzazione, ma anche arrivare ad una maggiore stabilizzazione degli Enti col completamento delle piante organiche, con la crescita delle competenze, con direttori capaci di garantire continuità amministrativa.
L’albo dei direttori dei parchi nazionali dopo un primo elenco piuttosto rigoroso si è aperto a diverse professionalità non sempre garanti di qualità e di capacità gestionale. Si pensa ad una sua revisione o l’argomento non è all’ordine del giorno?
Affronteremo il tema con Federparchi e con l’Associazione dei Direttori; personalmente ho perplessità ad una figura di direttore considerato quasi un portaborse del Presidente. Ovviamente quest’immagine è estrema, ma credo non tutto nei Parchi possa e debba essere ricondotto a scelte politiche, esistono problemi gestionali che necessitano di continuità, progetti lenti e pluriennali che devono essere garantiti perché i cicli della natura hanno spesso tempi che sono più lunghi di quelli di un Consiglio di Amministrazione. Allora bisogna trovare il punto di equilibrio tra questo, i requisiti di competenza del direttore che devono costituire il presupposto imprescindibile, e il rapporto fiduciario con il Presidente ed il Consiglio.
Ancora a proposito di professionalità: scorrendo l’elenco dei consiglieri di alcuni parchi, si incontrano professionalità dubbie e scelte che appaiono di evidente origine clientelare. Come si può evitare che per il futuro, aree preziose, di delicato e fragile destino, rischino di essere messe in mano
al dilettantismo quando non al vero e proprio conflitto di interessi?

Io non mi scandalizzo delle nomine politiche, né delle appartenenze partitiche, sono indignato però da nomine prive di requisiti di professionalità, in molti casi  prive addirittura di quella passione che dovrebbe animare chi svolge questi compiti. Il tentativo era chiaro, cioè quello di fare dei parchi enti territoriali di sviluppo, di mettere in second’ordine natura ed ambiente, di portare nelle aree protette le stesse forme di turismo che ci sono ovunque, ed allora perché fare i parchi? Abbiamo ostacolato questo tentativo, oggi stiamo cercando di rilanciare un sistema che è in una fase di stallo. Sono molto ottimista e confido sul fatto che le nuove nomine, ad iniziare dai nuovi presidenti, siano protagonisti di questa sfida.

Al Congresso nazionale della Federparchi, Lei ha annunciato l’intenzione di programmare al più presto la terza Conferenza nazionale sulle aree protette. Le precedenti occasioni sono state significative, ma spesso ridotte a passerelle o al più come occasioni per fotografare la situazione in atto, senza la capacità di portare poi ad assumere politiche conseguenti. I documenti conclusivi sono rimasti auspici e non hanno avuto seguito alcuno.
Come intende organizzare un appuntamento così importante?
Da molti giunge il suggerimento di arrivarci dopo una serie di incontri territoriali preparatori. Condivide questa impostazione? O ha in mente altre modalità?

Sono passati 15 anni dall’approvazione della legge 394/91, la legge quadro sulle aree protette. Una legge arrivata dopo un dibattito istituzionale durato quasi un secolo, una legge che come dicevo ha dato frutti importanti, ma proprio perché c’è oggi un problema di aprirsi ad una nuova fase gestionale del sistema, occorre una riflessione compiuta ed ampia. Una Conferenza si programma e si promuove se serve, se ci sono argomenti, problemi e questioni da affrontare, per dare nuovo impulso alle attività di conservazione. Credo che queste condizioni esistano e credo che occorra arrivare a questa Conferenza dopo che sul territorio si sono svolti incontri e confronti, dopo che le comunità sono state coinvolte, dopo che il mondo scientifico è stato attivato. Vorrei una Conferenza vera, non una passerella di interventi.
Problema investimenti: sono cresciuti i parchi ma le risorse finanziarie dello Stato sono diminuite.
Il teorema Matteoli dell’autofinanziamento, dell’ “azienda parco”, è e si è dimostrato assolutamente fuori logica. Tuttavia è indubbio che il problema delle risorse rimane. Come può essere affrontato? Quali possono essere le economie di scala o le sinergie utili a razionalizzare le spese e a liberare risorse per quei compiti di ricerca che dovrebbero fare delle aree protette dei laboratori per sperimentare nuovi modelli di sviluppo, sostenibile e durevole?

A fronte degli oltre 62 milioni previsti nel 2001 (l’ultima finanziaria fatta dal Governo del centro-sinistra) si è passati a meno di 50 milioni di euro previsti a bilancio per il 2006. Si è vicini ad una fase di collasso. Stiamo trattando nella Finanziaria risorse più adeguate, direi più dignitose. Inoltre stiamo facendo in modo che la prossima Finanziaria risolva i gravi problemi di gestione creati per Parchi e gli Istituti di ricerca dalla legge finanziaria del 2005. Questa ha infatti parametrato tali soggetti agli enti statali e parastatali, ed ha quindi sostanzialmente congelato i loro bilanci al 2003 impedendo incrementi finanziari anche quando questi venissero da soggetti privati o comunque differenti dalla Amministrazione statale, compresi quelli della Comunità Europea. Solo risolvendo questi problemi riusciremo a dare nuovo impulso alla gestione delle aree protette sia per la loro imprescindibile azione di tutela, sia per la promozione di tutte quelle indispensabili iniziative ed attività di fruizione e promozione.