Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 48 - GIUGNO 2006




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PRIMO CONSERVARE

Sospirato ritorno al passato o semplice e accorto aggiustamento di tiro? La nuova stagione politica apertasi a livello nazionale conferma per le aree protette italiane lo spostamento del pendolo, nell’eterno binomio tra tutela e sviluppo ovviamente sostenibile. A voler sintetizzare brutalmente: dopo gli anni delle caciotte (peraltro buonissime a detta di tutti) è di nuovo il turno di orsi & lupi. A promuovere le prime i parchi sono stati in più casi bravissimi; ma come se la cavano con i secondi ? Viaggio di parole ed idee tra strategie desiderate e quotidiane improvvisazioni delle aree protette in materia di conservazione della biodiversità.

Legge 6 dicembre 1991, n.394, art.1: La presente legge, in attuazione degli articoli 9 e 32 della Costituzione e nel rispetto degli accordi internazionali, detta princìpi fondamentali per l’istituzione e la gestione delle aree naturali protette, al fine di garantire e di promuovere, in forma coordinata, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale del paese. Ai fini della presente legge costituiscono il patrimonio naturale le formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche e biologiche, o gruppi di esse, che hanno rilevante valore naturalistico e ambientale.
Il resto, tutto il resto, segue.
Quest’inchiesta di Parchi parte da una domanda “semplice”: i parchi italiani oggi come stanno adempiendo al loro compito primario della “conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale del paese”? Detta in altri termini, l’attuale gestione delle aree protette risponde come dovrebbe a quella finalità posta con chiarezza dal Parlamento, dalla legge, a fondamento stesso della loro istituzione?
A quest’indagine potenzialmente sconfinata abbiamo naturalmente posto dei paletti. Il primo. La conservazione delle “formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche” è perseguita dai parchi innanzitutto mediante i vincoli contenuti nei provvedimenti istitutivi – il divieto di costruire, aprire cave, modificare il regime delle acque, etc. – e poi con le prescrizioni dei piani e la loro concreta e quotidiana attuazione. La loro valorizzazione è affare diverso e un’indagine sulle azioni intraprese, poi solo in anni recenti (dall’individuazione dei geotopi ai sentieri tematici, alle iniziative di comunicazione) ricostruirebbe probabilmente un quadro di interventi ancora del tutto insufficiente. Ma stavolta scegliamo invece di occuparci delle “formazioni biologiche”, insomma della biodiversità come si direbbe oggi. Il secondo paletto sta nel circoscrivere l’indagine all’individuazione di alcuni aspetti che ci sono sembrati decisivi: le conoscenze naturalistiche di base, il rapporto tra emotività e programmazione, le relazioni con le Università per la ricerca scientifica, le priorità da scegliere, le competenze, le risorse.

Mandato aperto
“Cosa dice la 394 io lo ricordo e lo faccio studiare ai miei studenti”, dice Paolo Ciucci, ricercatore e docente di Ecologia animale presso l’Università La Sapienza di Roma. “Va aggiunto però che la legge parla sì di conservazione, di ricerca scientifica, di monitoraggio ma senza prevedere degli indicatori. La 394 è un mandato, punto”. Difficile, allora, sostenere scientificamente l’efficacia dei parchi di casa nostra. “Non ho ad oggi grandi elementi per valutarlo. Negli Usa per esempio ci sono gruppi di ricerca che producono lavori di elevata qualità per i parchi”, continua Ciucci - che in Nord America ha lavorato con David Mech, guru mondiale della ricerca sul lupo, e che in Italia è in prima fila nel gruppo di ricerca sui grandi carnivori guidato da Luigi Boitani – “i cui risultati, soprattutto, vengono istantaneamente fatti propri e applicati nella gestione. Al Pollino, per dire di un’area dove abbiamo lavorato a lungo, nelle core areas del lupo individuate sono poi stati realizzati disboscamenti e strade per la centrale elettrica a biomasse del Mercure”.
“Una misurazione precisa di quanto e come le aree protette facciano davvero il proprio mestiere non è possibile per un motivo molto semplice”, aggiunge Giuseppe Bogliani dell’Università di Pavia, “e cioè che mancano per un raffronto i dati sulle aree circostanti non protette”. Solo paragonando le variazioni degli indici di biodiversità dei parchi e del territorio adiacente, e quindi ecologicamente più o meno simile, quell’efficacia potrebbe essere seppure approssimativamente misurata. Qualcuno ci ha provato. Luca Canova, pure dell’Università di Pavia, in un lavoro appena pubblicato su Landscape and urban planning ha ad esempio evidenziato il ruolo di alcuni parchi lombardi nel periodo tra il 1980 e il 1994. “Durante il periodo di studio Ticino, Sud Milano, Serio e Adda Sud insieme hanno contrastato efficacemente la riduzione degli habitat naturali”, sintetizza Canova nell’abstract dello studio, “quantificata nel 33,2% all’interno dei propri confini, a fronte del 63,6% nelle aree circostanti”. Ma quanto a biodiversità vera e propria, ad esempio sull’abbondanza di specie di uccelli nidificanti, i dati di raffronto nel tempo mancano.
“La maggioranza dei parchi è ancora giovane per poter documentare l’eventuale successo di iniziative inerenti la protezione di singole specie o habitat”, aggiunge Cesare Lasen, indimenticato ex-presidente del parco nazionale delle Dolomiti bellunesi e prim’ancora ricercatore. Almeno per i parchi cosiddetti storici qualche numero allora si può fare, a partire dagli esempi più ovvi, ma sono realmente indicazioni significative? Gran Paradiso e stambecco, ad esempio. Nel 1922, anno di nascita del primo parco d’Italia, erano 2370 (e quindi tutto fuorché sull’orlo dell’estinzione). Nel 1934, e nonostante gli abbattimenti consentiti dalla Commissione Reale che lo gestiva, raggiunsero il numero di 3865. Complici la guerra e una “disastrosa devastazione in tutta la vita del parco provocata esclusivamente dall’uomo: case, strade, fauna, flora, studi, moralità” – a raccontarlo e a fornire le cifre nei suoi scritti è Renzo Videsott, il ben noto direttore dell’area protetta nel secondo dopoguerra – nel 1945 sono ridotti a 419. Oggi gli stambecchi sono circa 3400: di più che nel ’22, certo, ma ad esempio di meno che nel ’34.
Molti i fattori da considerare, incerta l’attendibilità dei censimenti, equivoche di conseguenza le indicazioni da trarne. Figurarsi per l’orso marsicano e il parco d’Abruzzo. Tra le stime ricavate da documenti d’archivio della storica area protetta, citate in un lavoro di Franco Zunino, sono: minimo di 50 orsi nel 1928 (risultato di un tentativo di censimento); minimo di 24 orsi nel 1931 (risultato di un tentativo di censimento); minimo di 200 orsi nel 1944 (lettera dell’allora amministratore del parco, Ten. Mario Pericoli, all’Azienda di Stato Foreste Demaniali). La guida ufficiale del parco ancora nel 1997 parlava di un centinaio di esemplari. Oggi più prudenti e soprattutto documentate stime indicano gli orsi presenti tra i 40 e i 60.
Ancora, lo Stelvio. Alla fine degli anni Settanta si parlava di 600 cervi, 1300 camosci, 1200 caprioli, 150 stambecchi. All’inizio del 2000 i numeri sono di 2800 cervi, 5000 camosci, 1400 caprioli, un migliaio di stambecchi. Incrementi come si vede anche spettacolari, dovuti in questo caso anche a nuove immissioni e a cambiamenti favorevoli alle specie, come l’abbandono della montagna da parte dell’uomo o la diminuzione del bracconaggio.
In realtà quello dello stato di salute della biodiversità italiana è un panorama in continuo divenire, uno scenario estremamente complesso, con attori (come i parchi stessi) che talvolta si prendono tutto il merito – o le colpe – delle novità a scapito dei protagonisti veri. Così, anche star della natura di casa come il lupo e l’orso, la stella alpina e la lontra, sembrano ignorare talvolta quei confini dei parchi d’altronde disegnati con criteri diversi, seguendo le linee del paesaggio piuttosto che le adesioni a patchwork delle amministrazioni locali. Alcuni esempi? Il biancone, la rara aquila dei serpenti, che nel Lazio sceglie da tempo territori di nidificazione – “e sembra con stabilità confortante”, dice Francesco Petretti che li segue da anni - perlopiù al di fuori delle tante aree protette della regione. Il cervo sardo, in deciso incremento nell’isola - oggi le stime indicano la presenza tra i 6000 e i 6500 individui - ben prima che la nuova politica ambientale della giunta attuale iniziasse a piazzare qualche bandierina verde nella terra forse più bella e meno protetta d’Italia. Il falco pescatore, tanto per restare in zona, tornato quest’anno a nidificare in Sardegna a quarant’anni dall’estinzione locale. Lo stesso lupo pare ormai avviato a macinare confini non solo di parchi ma pure di stati.
E le aree protette? Di questo movimento che alterna i segni + e – dentro l’Arca, ricomparsa ed estinzione, pur se non sempre consapevolmente i parchi in Italia sono oggi i protagonisti. Perché contribuiscono alla conservazione e gestione di più del 10% del territorio nazionale, perché sono o dovrebbero essere stazioni di monitoraggio che più diffuse non ce n’è, perché pilotano o dovrebbero pilotare gli indirizzi culturali e condizionare le scelte politiche. “Oppure e più semplicemente”, osserva ancora Giuseppe Bogliani, “perché sono interlocutori reali, esistono, li trovi sul territorio. Il ricercatore è nel parco e col parco che riesce a concordare l’accesso alle aree, avere le autorizzazioni e spesso anche le facilitazioni, evitare il rischio di venire impallinato o comunque trovare le condizioni migliori per svolgere i suoi studi”. E a verificarlo, basta sfogliare gli atti dei convegni scientifici o anche solo guardarsi intorno. “L’azione delle aree protette italiane sul profilo della tutela della biodiversità nel complesso secondo me è soddisfacente”, afferma Silvano Toso, direttore dell’Istituto nazionale per la fauna selvatica (Infs), “pur con tutti i limiti e le differenze da situazione a situazione. Mi sembrerebbe molto difficile sostenere il contrario”. “E ormai”, aggiunge Bogliani, “la ricerca naturalistica sul campo si fa in buona misura nelle aree protette”.

Orsi, non solo
Ma quale ricerca? E quanta, di che qualità, con quali risorse? “Anni fa si poteva fare affidamento non solo sui fondi straordinari come quelli dei Life”, ricorda Cesare Lasen. “Alle Dolomiti Bellunesi si mettevano a bilancio circa 100 milioni di lire l’anno, e talvolta anche 200, per il settore studi e ricerche. Poi i tagli sull’ordinario hanno costretto a cambiare rotta. Tra l’altro, i Life-Natura sono strumenti complessi che richiedono co-finanziamenti non marginali”. Ad essere precisi qualcosa come 63 milioni di euro, se si tiene conto di tutti i 151 progetti Life-Natura finanziati dal 1992 al 2005 in Italia, seconda solo alla Spagna per numero di interventi approvati. Il vecchio regolamento del Life prevedeva poi il finanziamento alla ricerca scientifica solo nella fase di elaborazione dei piani di gestione, lasciando poi il campo al monitoraggio per sorvegliare l’attuazione corretta e l’efficacia duratura degli interventi. “Ma anche nelle nuove strategie dell’Ue ci sarà spazio per le azioni a tutela della biodiversità e in particolare nelle misure agro-ambientali previste dal Piano di sviluppo rurale”, ricorda Giampiero Sammuri, presidente alla Maremma e coordinatore del Gruppo sulla Biodiversità di Federparchi (composto inoltre da Angelo Messina, Antonio Canu, Antonio Nicoletti e Giuliano Tallone: “però sarebbe opportuno che ci affiancasse un comitato scientifico”, aggiunge Sammuri).
Una previsione ancora da verificare. Come gli effetti della recente Comunicazione adottata dalla Commissione europea per arrestare la perdita della biodiversità entro il 2010 – e mancano quasi tre anni, come per il Countdown lanciato dall’Iucn. Ma intanto alle indicazioni e ai soldi di Bruxelles la biodiversità italiana deve già molto. Al riguardo, il rapporto appena presentato Il bilancio di Life Natura in Italia a cura di Comunità Ambiente (Stefano Picchi, Riccardo Scalera, Daniela Zaghi) e pubblicato dal Ministero dell’Ambiente è una preziosa fonte di informazioni e di sintesi analitiche. Colpiscono tra i tanti dati, forniti direttamente dalla DG Ambiente della Commissione europea e relativi ai Life II e III, quelli che mettono in classifica le specie interessate dai progetti in tutt’Europa nel corso degli anni. Con qualcosa come 19 progetti approvati e finanziati non ce n’è per nessuno, è l’orso bruno più di tutti al centro dell’attenzione. Seguono il tarabuso, il più raro e localizzato degli aironi, poi il lupo e la tartaruga marina Caretta caretta. Quindi c’è spazio per gipeti, pipistrelli (ferro di cavallo Rhinolopuhs ferrumequinum) e rospi (ululone dal ventre giallo Bombina variegata), e quel che segue. Coi soldi del Life s’è così reintrodotto l’orso all’Adamello-Brenta, studiati orso e lince nel tarvisiano, monitorato gli orsi appenninici al Sirente-Velino e nell’Appennino centrale (ma non al parco d’Abruzzo), studiati i lupi dall’Orecchiella ai Sibillini e al Pollino. Stessa provenienza per i soldi serviti a riportare i camosci appenninici alla Majella, sul Gran Sasso e sui Sibillini, e il cervo sardo nelle aree isolane del Sulcis, del Sarrabus e dell’Arburese. Numerosi Life si sono poi occupati delle sorti dei chirotteri e dei mammiferi marini, naturalmente delle numerose specie di uccelli elencate nelle direttive comunitarie, di anfibi e rettili. Pesci d’acqua dolce e invertebrati sono le cenerentole di turno, a conferma di un quadro dominante anche il più generale panorama della ricerca e della gestione delle specie nelle aree protette italiane e fuori di esse, con singole eccezioni quali gli storioni e il gambero di fiume.
Inoltre, va aggiunto, solo 6 progetti su 151 (ma solo 2 direttamente) hanno riguardato specie vegetali: “un fatto sconcertante”, come l’hanno più volte definito gli estensori del rapporto, vista la ricchezza del patrimonio floristico italiano e la sua ampia rappresentanza (ben 77 specie, di cui 33 prioritarie) nell’allegato II della direttiva Habitat. “E’ un vecchio nodo mai sciolto”, conclude il botanico Lasen. “Se ci si impegna soprattutto per azioni che diano immediata visibilità a chi le promuove, non andremo lontano e si sacrificheranno sempre gli interventi che devono essere continuativi per loro natura per risultare efficaci”. Un nuovo spiraglio per la ricerca l’ha aperto il ministero con un primo censimento appena avviato dei boschi vetusti nei parchi nazionali. Affidato come coordinamento dalla direzione di Aldo Cosentino al gruppo di Carlo Blasi dell’Università di Roma, dovrà servire a conoscere meglio le foreste più antiche e meglio conservate del Paese e costituire la base del futuro inventario delle IPA, important plant areas, in Italia.
Molti interventi, finanziati con i soldi europei o meno, oggi riguardano operazioni di reintroduzione di animali. “Troppo spesso per i parchi un progetto di conservazione si riduce a questo”, dice il presidente della Lipu Giuliano Tallone, “che va ad aggiungersi ai divieti e alla relativa sorveglianza. Anche tra alcuni naturalisti resiste una concezione superata e statica, pensata solo come protezione. Per il resto le reintroduzioni dispongono di un quadro di riferimento ormai disponibile a tutti”. “Oggi le indicazioni tecniche e scientifiche sono chiare”, concorda Paolo Ciucci, “quel che resta da valutare è soprattutto l’attitudine delle popolazioni umane interessate a sostenere gli effetti dell’azione”. A tollerare l’orso oppure a sparargli addosso, tanto per pescare nella cronaca dell’estate appena trascorsa. “Sono scelte che possono avere risvolti significativi sulla società, per esempio nel caso della reintroduzione di grandi carnivori, e come tali è la società che deve assumerle. Quindi il parco dovrebbe coinvolgere anche figure professionali come sociologi, psicologi, esperti di human dimension. E noi biologi, invece di sentirci depositari di una scienza che ha sempre ragione”, conclude Ciucci, “dovremmo forse considerare con maggiore umiltà la nostra impreparazione a gestire il consenso sociale, l’opinione pubblica, e lasciare ai politici e agli amministratori il momento della scelta”.
Per le reintroduzioni ma anche per molti altri aspetti della gestione della biodiversità animale, l’ente nazionale di supporto tecnico-scientifico a cui si rivolgono i parchi è l’Infs. “E lo fanno sempre più spesso, sia i parchi nazionali che quelli regionali”, dice Silvano Toso, “anche se non vi sarebbero formalmente tenuti ai sensi della 394”. Dalla valutazione quantitativa delle popolazioni animali al controllo degli ungulati in esubero, ai piani di azione per le specie prioritarie, sono molte le patate bollenti che passano per le stanze della sede di Ozzano Emilia. La politica e i media, di quest’enclave nata come ente pubblico di ricerca e sperimentazione – nel 2007 saranno vent’anni – se ne occupano poco e sempre sull’onda dell’emergenza, dall’aviaria ai caprioli piemontesi da abbattere. A fronte di una pianta organica di 103 persone vi lavorano oggi in 40, e il contributo statale negli ultimi quattro anni è sceso del 25% (oggi ammonta a 1.750.000 euro). Nel novembre 2005 l’Infs ha stipulato una convenzione con Federparchi per “il miglioramento delle pratiche gestionali finalizzate alla conservazione della fauna vertebrata omeoterma nelle aree naturali protette italiane”. E’ l’approdo di un percorso partito da tempo. “Abbiamo partecipato più volte in passato a convegni e iniziative organizzate dalla Federparchi o da singoli enti gestori”, aggiunge Toso. “Quest’anno poi abbiamo organizzato insieme un convegno proprio sulle reintroduzioni a Siena, e altri appuntamenti verranno presto”.
“Il prossimo potrebbe essere in primavera sulla gestione degli ungulati”, propone Giampiero Sammuri. “E’ una delle azioni principali del piano di attività per il 2007 del Gruppo sulla Biodiversità di Federparchi, che in realtà stiamo ancora discutendo al nostro interno. Tra le altre importanti novità sottolineerei anche il proposito della Federazione di porsi come una sorta di consulente delle aree protette associate, insieme partner e soggetto vidimatore per i progetti sulla biodiversità. Il nostro impegno starebbe nell’informare tempestivamente i parchi delle possibilità di finanziamento, recepire i relativi progetti e sottoporli all’Infs – e alla Società Botanica Italiana o ad altre associazioni similari – e quindi, in caso di approvazione e ovviamente di richiesta, rendercene partner attivi”. L’intento, insomma, è di stimolare un rapporto costante degli enti con l’Istituto e mandare avanti quei progetti che servano davvero alla conservazione. Inoltre, sempre a breve, verrà realizzato un repertorio delle buone pratiche dei parchi in materia di tutela della biodiversità – “stiamo utilizzando il materiale dei poster presentati dai parchi al congresso di Catania”, conclude Sammuri, “cui aggiungeremo eventuali integrazioni”.

La figura-chiave
Ma chi decide cosa studiare nei parchi? Previsioni di piano a parte, quando ci sono, esistono momenti di confronto tra i programmi degli enti gestori e quelli dei centri di ricerca? “Neanche per sogno e i rapporti esistenti, quando va bene, non sono tra istituzioni ma tra privati che appartengono a istituzioni”. Se la risposta pare deludente, è un’impressione inadeguata. Si tratta invece di un vero e proprio campanello d’allarme, visto che la domanda è girata al direttore del dipartimento di Scienze ambientali dell’ateneo del capoluogo della Regione dei parchi. “Noi viviamo quotidianamente una realtà a due facce”, descrive sconsolato Maurizio Biondi, Università dell’Aquila; “la prima è fatta dei rapporti continui e quotidiani, insostituibili come spazi di studio, col territorio dei parchi; la seconda, ben più rarefatta, la compongono i contatti discontinui e senza programmazione con gli enti gestori. Da una parte una tesi dopo l’altra, dottorati di ricerca, sopralluoghi, lezioni sul campo e dall’altra lavori per conoscenza, piccoli ostracismi, frustrazioni”. Non sposta i termini della questione, ma qualcosa dovrebbe cambiare a breve. “E’ una convenzione-quadro che stiamo predisponendo con il parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, grazie ai buoni rapporti col presidente Walter Mazzitti. Dovrebbe partire entro l'anno. Darà una cornice più organica e forse migliori frutti a ricerche già intraprese come quelle per la Carta della Vegetazione o sui laghetti di quota alla Laga”. Interventi solo in alcuni casi finanziati dal parco e per importi contenuti, dell’ordine dei 10 mila euro, altrimenti slegati da ogni programmazione comune che meno che mai il rappresentante delle università in seno al consiglio direttivo dell’ente – previsto dalla 394 – sembra in grado di garantire e forse neanche facilitare. “Con questi colleghi, il più delle volte validissimi intendiamoci, non esistono in realtà occasioni di condivisione delle opinioni e neppure di scambio delle semplici informazioni”, continua Biondi; “nei direttivi non c’è certo il tempo di prendere decisioni concertate, ed esiste pure il problema del conflitto d’interesse. Fino a che punto un ricercatore può valutare proposte di studio nelle quali può essere a vario titolo coinvolto?”.
Non sembra sempre nemmeno un problema di risorse. “Certo, le riserve beneficiano di finanziamenti limitati, ma invece i parchi i soldi li hanno”, dice Bruno Massa, zoologo alla Facoltà di Agraria all’Università di Palermo. “Ma lì è un discorso diverso che io non riesco molto a capire, se non che si spendono moltissimi soldi per cose che hanno poco a che fare con la conservazione”. Massa è un ricercatore di lunga esperienza, tra gli ornitologi più stimati del nostro Paese. “Con le aree protette ho lavorato e lavoro, per esempio coi Nebrodi per il piano di gestione faunistica e con diverse riserve tra cui quelle di Vendicari, Gela, lo Zingaro. Quello che noto, però, è che di studi e ricerche si applicano poco i risultati e le indicazioni”.
E poi uccelli e mammiferi, sono loro a fare la parte del leone nel rastrellare attenzione e quindi risorse nella maggioranza dei parchi. Della disattenzione sugli aspetti botanici s’è già detto, ma nemmeno agli invertebrati – per dire di un gruppo che costituisce oltre il 90 % di tutte le specie italiane terrestri – è riservata sorte migliore. Certo come specie-bandiera viene da pensare prima all’aquila e poi, ma molto dopo, a un coleottero scarabeide. “Ma ci sarebbero anche le farfalle”, ribatte l’entomologo Maurizio Biondi, “ e poi un parco deve svincolarsi dalle richieste facili dell’opinione pubblica, ha il compito anche di educare”.
Dove la necessità di stabilire un programma di studi e rapporti continuativi con gli enti di ricerca sembra presa di petto è nel Lazio. Qui la presenza di un ente che affianca il sistema delle aree protette, coordinandone e indirizzandone l’attività (come non riuscirebbe nemmeno il più efficiente dei coordinamenti regionali di Federparchi, naturalmente), mostra appieno la sua ragion d’essere. “Lavorando a una scala e con un’ottica differenti da quelle delle singole aree protette”, dice ancora Giuliano Tallone stavolta come direttore dell’Agenzia regionale parchi, “stiamo cercando di mettere insieme le diverse università del Lazio, per farle lavorare a progetti parte di un quadro di riferimento che è il nostro”. Dopo la firma delle convenzioni e i bandi di gara, partirà un insieme di studi con 1.600.000 euro di dotazione finanziaria e un orizzonte temporale di un biennio. Verranno realizzati in questo modo prodotti quali gli atlanti regionali degli uccelli, dei mammiferi, delle specie alloctone, una Carta etica regionale della biodiversità, studi-pilota su specie particolari come la coturnice, la lepre italica, il visone (per l’eradicazione). Ma riguardo al rapporto con le università, in ogni caso, il punto è ancora un altro.
“Se gli enti parco non hanno nel proprio bagaglio di competenze la conoscenza della biologia della conservazione”, chiarisce Tallone, “il loro rapporto con le università sarà sempre sbilanciato. E la figura-chiave, quella dove si continua ad investire troppo poco, è quella del direttore”. Lui che riesce a tradurre e quando serve anche a indirizzare le delibere dei consiglieri. Lui a tenere il dialogo aperto coi ricercatori. “Deve essere capace di una cosa fondamentale: chiedere, e quindi prim’ancora sapere, quello che serve al parco. Viceversa, qualunque professore o direttore di dipartimento proporrà lo studio che gli interessa in quel momento, la linea di ricerca che starà portando avanti”. Un problema anche linguistico e forse di più, antropologico. “Quando tratti col politico, cioè la maggioranza dei presidenti e consiglieri”, dice Maurizio Biondi, “tu ricercatore capisci subito che parla un’altra lingua”. “Nei parchi dove nei posti decisionali ci sono solo politici e a fare il direttore c’è, mettiamo, un architetto”, aggiunge Giuseppe Bogliani, “dov’è che entrano le competenze naturalistiche nella struttura gestionale? Semplice, rischiano di restar fuori”.
Insomma un plebiscito, per una categoria che dalla 394 in poi – prima non era così, basti pensare a Franco Tassi o allo stesso Videsott – raramente appare sotto i riflettori. “E ultimamente lo siamo stati ancora meno, grazie alla politica dei commissariamenti della precedente gestione ministeriale che ha colpito tanti parchi nazionali”, dice Maurizio Burlando, direttore al parco del Beigua e di recente nominato alla guida dell’Aidap, l’associazione dei direttori dei parchi nata ancor prima della legge quadro (www.aidap.it). “Abbiamo conosciuto un forte calo di adesioni e d’iniziativa, non sappiamo nemmeno quanti e chi siamo, non esistono censimenti a livello nazionale e vorremmo avviarne uno col ministero e le Regioni. Se troviamo le risorse, quest’autunno ci sarebbe l’intenzione di riprendere le attività con un convegno-corso”.

Ultimo piano
Decisiva quanto si vuole, la figura del direttore non esaurisce certo tutte le questioni inerenti la preparazione del personale dei parchi ai compiti primari dell’ente di appartenenza. Ciucci, impietoso, torna al paragone Usa-Lucania/Calabria. “Nei parchi nazionali americani non entri nei quadri tecnici se non hai un PhD. Al Pollino su 56 persone di biologi ne ricordo 2”. Non è rimasta, come si dice, una critica sterile. “Assieme a Fabio Renzi di Legambiente noi del Bau (il dipartimento di Biologia animale e dell’uomo diretto da Luigi Boitani, presso l’università La Sapienza di Roma, ndr) questo nodo della formazione del personale l’abbiamo voluto affrontare da tempo. Da 4 anni organizziamo un Master intitolato “Conservazione della biodiversità animale: aree protette e reti ecologiche”, cofinanziato adesso dalla Regione Lazio ma per i primi 3 anni dal ministero dell’Ambiente”. Il master è a numero chiuso, entrano ogni anno 30 studenti sui circa 80 richiedenti e attualmente costa 3000 euro a partecipante. Concentrati in alcune settimane, i corsi durano da ottobre a giugno e prevedono una tesi finale. “Ma a chi chiede previsioni sugli sbocchi lavorativi devo confessare tutto il mio pessimismo”, aggiunge Ciucci, “e lo stesso ministero pur finanziandolo non ha mai riconosciuto alcun valore al master in termini di punteggio per i suoi concorsi”.
La formazione del personale è importante soprattutto laddove gli vengono attribuiti compiti, che la 394 assegna ai parchi, come il monitoraggio. Che non è ricerca, bene ribadirlo, ma controllo continuativo del territorio, misurazione dei cambiamenti ambientali, verifica delle azioni gestionali. “La 394 non lo dice”, dice Ciucci, “ma dovrebbero esistere degli indicatori per monitorare l’azione e l’efficacia dei parchi per la conservazione. Al limite, la previsione di un inventario periodico della biodiversità”. Un nuovo atlante della biodiversità, mettiamo ogni tre anni, in ogni parco: peccato che la maggioranza dei parchi non abbia mai pubblicato nemmeno il primo. “Si potrebbe anche ipotizzare un’indicazione ministeriale”, propone Cesare Lasen, “che preveda per ogni parco la destinazione di un’aliquota delle proprie risorse ordinarie di bilancio, ad esempio del 10 %, da destinare al settore studi e ricerche sia pure con l’obbligo di riferire i risultati a scadenza triennale. Oppure incentivare le fondazioni bancarie a sostenere maggiormente il settore.
Nel Lazio l’Arp sta mettendo in piedi una rete di stazioni in una quindicina di parchi, che si occuperà pure dei siti Natura 2000. “Non esiste un altro piano regionale di simile portata e anche al ministero (il progetto, per complessivi 5 milioni di euro, fa parte dell’accordo di programma Regione-MinAmbiente, ndr) sono rimasti piuttosto impressionati”, dice Tallone. “Abbiamo iniziato a lavorare a protocolli di raccolta dati, azioni formative per i nostri 909 dipendenti, mentre presto faremo un acquisto unico di strumentazioni e materiali per conto delle aree interessate. Le prime stazioni dovrebbero essere operative tra un anno”. Speriamo anche i parchi, ancora paralizzati nel Lazio - al momento in cui scriviamo - da un lungo ritardo nei rinnovi di presidenze e direttivi.
A giugno, l’Arp ha ricevuto dal consiglio regionale il mandato a predisporre un documento strategico sulla conservazione della biodiversità, che conterrà indicazioni puntuali come le azioni da mettere in campo e le strategie trasversali. E a livello nazionale? Vanno registrate le dichiarazioni del ministro Alfonso Pecoraro Scanio, anche al congresso di Catania della Federparchi a giugno, di arrivare presto all’approvazione di una legge nazionale sulla biodiversità. Quanto al Piano sulla Biodiversità, quello vecchio e rimasto lettera morta (è del 1998 e il testo integrale è disponibile da tempo su Parks.it alla pagina www.parks.it/federparchi/biodiversita/index.html), per usare le parole del direttore Aldo Cosentino “diceva che il ministero doveva imporre cose alle Regioni senza però confrontarcisi prima”. Qualcosa dovrà cambiare, ma è un’esigenza che resta prioritaria. “Manca una strategia generale, una cabina di regia, che detti la linea e anche che valuti gli interventi di ricerca e gestione”, è Paolo Ciucci a osservarlo, “per utilizzare al meglio le sempre limitate risorse a disposizione”. “E’ il ruolo del ministero, ma va aggiunto subito che su questo serve una fortissima partecipazione e un coinvolgimento dei parchi, quel che è mancato finora”, aggiunge Tallone. “La direzione Conservazione Natura dovrebbe produrre grandi progetti nazionali e anche internazionali, accordi con il ministero della Ricerca scientifica, disegnare uno scenario complessivo frutto di una visione d’insieme”. Che ancora no, all’orizzonte non si vede.

Giulio Ielardi