Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 48 - GIUGNO 2006




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IL VALORE DELLE AREE NATURALI PROTETTE

Riflessioni sul ruolo e sui compiti dei parchi: capacità di gestione e di programmazione

Le aree naturali protette svolgono l’importante funzione di conservare la natura. Da sempre a queste aree sono affidati i compiti di agire per tutelare gli ambienti naturali e le specie: compiti riconosciuti a livello internazionale e che caratterizzano i parchi e le riserve con alcune differenze da paese a paese. Si tratta infatti di riconoscere peculiarità dell’azione svolta dai parchi in paesi con situazioni territoriali e antropiche diverse tra loro: esistono parchi con estensioni in termine di superficie molto diverse, da poche centinaia a centinaia di migliaia di ettari.
È soprattutto l’estensione e la minore o maggiore presenza di insediamenti umani a rappresentare una delle caratteristiche che possono differenziare un parco e soprattutto il suo rapporto con la realtà territoriale che tutela il parco. La conservazione dell’ambiente naturale, attuata mediante l’istituzione di un’area protetta, svolge diverse funzioni(1), ciascuna delle quali contribuisce ad affermare il ruolo e l’importanza dei parchi come strumento per la sostenibilità.
Tra le funzioni che possono essere individuate nell’azione di un’area naturale protetta vanno messe in evidenza quelle:
• ecologico-scientifiche: cioè le funzioni svolte per la conservazione del patrimonio di biodiversità, del paesaggio, degli equilibri ecologici e la tutela degli habitat;
• economiche: cioè la capacità di gestire l’ambiente naturale in modo da rendere disponibili i servizi ambientali e creare opportunità per la sostenibilità dello sviluppo delle comunità locali;
• sociali: cioè svolgere il compito “alto” di agire per tramandare alle generazioni future il patrimonio naturale, garantendo la possibilità di godere di un ambiente integro.
Con l’aumento delle pressioni antropiche, derivanti da un modello di crescita economica non basato su criteri di sostenibilità e di uso razionale delle risorse naturali, aumentano i rischi relativi all’inadeguatezza delle aree naturali protette per conseguire il compito loro assegnato e, di altrettanta gravità, aumentano le difficoltà di rapporto tra aree protette e contesto territoriale, con l’individuazione di conflitti e distorsioni tra conservazione e gestione delle risorse.
La frammentazione degli spazi naturali e il crescere delle attività economiche può mettere in difficoltà una politica di conservazione della natura che sia basata esclusivamente su aree protette non connesse tra loro e non dotate degli strumenti e delle risorse necessarie per assolvere a questi compiti. Basti pensare alle esigenze di porre in atto azioni di contrasto ai cambiamenti climatici e, in particolare, alla difesa del suolo e del territorio da eventi meteorologici estremi: il ruolo delle aree protette(2) cambia radicalmente se viene letto in quest’ottica, richiedendo azioni concrete per quanto attiene alle politiche di forestazione, di ripristino degli habitat, di riduzione del tasso di perdita di biodiversità. Via via che aumentano i rischi aumentano con uguale intensità le necessità di attribuire nuovi ruoli alle aree naturali protette e per l’individuazione di maggiori obiettivi di qualità della politica di conservazione: l’idea che sia sufficiente perimetrare un’area e imporre dei vincoli appare, oggi, poco attuale e non adeguata per rispondere alle sfide. Da un lato vi può essere la “quantità” della conservazione, letta come l’obiettivo di creare un’estensione adeguata di aree naturali protette, utilizzando, in questo caso, un indicatore quantitativo (ettari sottoposti a tutela, numero di aree protette, numero di specie, …) ma questo non può essere soddisfacente per valutare se sono raggiunti obiettivi soddisfacenti per la conservazione dell’ambiente, cioè per comprendere se il ruolo affidato ai parchi è realmente perseguito. Ciò che cambia non è pertanto il ruolo e i compiti affidati alle aree naturali protette ma la capacità di operare e incidere significatamente sulla conservazione della natura, raggiungendo obiettivi qualitativi, rapportati in modo scientificamente dimostrabile all’effettiva azione volta a garantire la conservazione delle specie e la tutela degli equilibri ecologici.
Questa prima riflessione ci porta a definire quali competenze e quali professionalità siano richieste a chi è chiamato, nelle diverse vesti, a gestire un parco.
Va messo in evidenza, trattandosi di gestire un sistema complesso di risorse naturali, ciò che abbiamo definito in precedenza il compito “alto” svolto dai parchi; la riflessione sulle competenze non può limitarsi a un approccio basato esclusivamente sulla preparazione tecnica ma deve, necessariamente, prevedere una variabile legata alla motivazione, all’impegno civile di svolgere una “missione”.
Come si potrebbe definire, in altro modo, l’impegno di gestire un parco per tutelare la natura e tramandarla alle future generazioni? La lezione di chi, come Antonio Cederna o Renzo Videsott, ha dedicato la propria vita alla tutela dell’ambiente è tuttora attuale, soprattutto è attuale la loro dedizione al compito e alla battaglia civile, al fare, ad ogni costo, il proprio dovere, nel migliore dei modi possibili.
Abbiamo, in questo modo, iniziato a definire un insieme di competenze che, partendo da aspetti scientifici, devono riuscire a soddisfare le molteplici attività che sono affidate alle aree naturali protette; soprattutto occorre, nella fase attuale, saper percepire le difficoltà intrinseche della gestione di un parco.
I problemi
Un parco non è un ente territoriale come altri: è un insieme di politiche, incentrate sulla conservazione dell’ambiente, strettamente correlate tra loro e con evidenti riflessi sulla pianificazione del territorio e sulla promozione delle attività economiche. I parchi, soprattutto in Italia, nascono con questa determinante, che li caratterizza e che rende ancor più complesso il loro compito: gestire territori, anche di ampiezza considerevole, con una presenza storica di insediamenti umani, centri abitati e attività economiche. Occorre saper trovare forme di equilibrio tra gli obiettivi di conservazione e la contemporanea presenza di attività economiche che, in alcuni casi, possono rappresentare un rischio per la conservazione degli habitat e delle specie. Soprattutto occorre individuare soluzioni per impedire un ulteriore “consumo” delle risorse naturali, per definizione, non riproducibili e, per questo motivo maggiormente esposte ai rischi di sfruttamento e depauperamento.
Da un lato quindi il parco che agisce per la conservazione dell’ambiente naturale e, dall’altro, il parco capace di dialogare con le comunità locali e di proporre un modello di sostenibilità dello sviluppo attraverso la gestione e l’orientamento delle economie locali verso forme compatibili.
Il parco non può essere, pertanto, un organismo gestito a senso unico, con un settore posto in subordine rispetto ad altri e, soprattutto, non può esservi un parco che si occupi di tutto fuorché della conservazione: la conservazione della natura resta lo scopo per cui si decide l’istituzione di un’area protetta e per il quale la collettività destina risorse e investimenti. Se si trascurasse la conservazione cambierebbe la motivazione stessa dell’esistenza del parco: probabilmente ci si troverebbe di fronte a qualcosa d’altro, un’agenzia locale, un ente di promozione e sviluppo, ma non di fronte a un organismo al quale è demandata la tutela dell’ambiente e la salvaguardia della biodiversità. È opportuno, a questo punto, cercare di chiarire cosa significhi conservare la natura. Molte volte si è portati a pensare che conservare la natura si traduca nell’imporre vincoli e divieti, ma, altrettanto, nel proporre deroghe e varianti; si considera la conservazione il risultato di una serie di provvedimenti amministrativi, leggi e regolamenti, senza tenere conto delle variabili ecologiche e, soprattutto della capacità di ottenere il rispetto delle regole.
Non sono pochi i casi nei quali si riscontra che la conservazione della natura non rappresenti il compito istituzionale dei parchi ma la semplice conseguenza dell’aver istituito l’area protetta: talvolta il parco stenta a realizzare la propria attività per carenze organizzative, di risorse, strumenti e personale e, in questo modo, la conservazione della natura perde le sue finalità scientifiche, in grado di preservare gli equilibri ecologici, diventando il risultato di norme più o meno applicate con rigore. Una cosa sono i vincoli imposti sull’attività venatoria e sull’edificazione di strutture e fabbricati, un’altra cosa è la capacità di comprendere la complessità dei rapporti tra ambiente e attività antropiche, per ottenere la conservazione di specie ed ecosistemi.
La componente scientifica della conservazione della natura è quindi un elemento importante e imprescindibile nell’attività di gestione di un parco: sulla base di una corretta conoscenza degli elementi che caratterizzano un territorio è necessario saper adeguare gli strumenti di pianificazione e, soprattutto, comprendere la fragilità degli ecosistemi e la necessità di considerare la capacità di carico.
Qualora non si verificasse un modello di gestione di questo tipo, seguendo un approccio che definisce il capitale naturale come un dato, qualcosa di immodificabile e privo di rapporti e scambi con la realtà esterna, si potrebbe essere portati ad adottare un modello di gestione che non è in grado di considerare queste variabili e, soprattutto la capacità di influenza e di reciproca incidenza tra attività antropiche ed ecosistema. Si potrebbe pensare cioè che la conservazione della natura sia qualcosa di statico, immutabile nel tempo e nello spazio, destinando maggiori sforzi e risorse nella direzione di promuovere il territorio e lo sviluppo economico.
Un elemento di indagine che potrebbe risultare molto utile, a questo proposito, è proprio il rapporto tra attività scientifiche, di ricerca applicata, svolte dai parchi e le attività di comunicazione e promozione, per fare un esempio, evidenziando quella capacità di mettere in correlazione i risultati della conoscenza scientifica con gli strumenti di pianificazione e di gestione che, per i motivi che stiamo esponendo, devono in ogni caso dimostrare di essere in grado di modificarsi e adeguarsi ai cambiamenti. La distanza tra le attività di ricerca scientifica, applicata alla conservazione, e la definizione degli strumenti di gestione e di pianificazione è una delle note dolenti del sistema di aree naturali protette del nostro paese: i tempi di elaborazione e di approvazione dei piani e dei programmi tendono, spesso, a creare una divisione tra gli aspetti gestionali e le finalità di conservazione
La dinamicità delle specie, la modificazione degli habitat e la complessità delle cause che determinano i cambiamenti sono tra i rischi più evidenti di una politica della conservazione che è basata quasi esclusivamente su atti normativi con iter procedurali lunghi e articolati: si tratta, in questo caso di un problema duplice.
Da un lato la velocità dei due processi: un processo biologico che ha tempi in parte determinati da fattori che non possono essere controllati e, dall’altro, un processo amministrativo-burocratico che ha tempi dettati dalla complessità delle procedure e dal coinvolgimento di diversi attori. Se questa è la situazione che frequentemente si riscontra nelle aree naturali protette allora si percepisce con maggior forza la necessità di attribuire ai parchi competenze e professionalità in grado di rispondere a queste difficoltà, con adeguata preparazione e “spirito di servizio”.
È soprattutto la dicotomia tra parco che conserva e parco che favorisce lo sviluppo ad accentuare queste distanze e queste difficoltà: l’errore più frequente è quello di considerare come la conservazione sia un investimento a costo zero, basato sui vincoli, piuttosto che su modelli di gestione ben più complessi, articolati e integrati. Non a caso si è spesso introdotto il concetto di “conservazione attiva” dove gli aspetti “attivi” dovrebbero essere dati da una maggiore attenzione alle dinamiche e alle correlazioni tra conservazione e sviluppo.
Proprio da questo dovrebbero derivare, ancor più con forza e impegno, il riconoscimento di maggiori competenze tecniche del personale chiamato a gestire i parchi, di chi è coinvolto nella direzione e nell’amministrazione degli enti.
Piani, programmi e progetti: da questo insieme di attività emerge la complessità del ruolo dei parchi, della loro capacità di correlarsi al territorio e alle comunità locali, svolgendo a pieno la loro funzione di salvaguardia del patrimonio naturale. Si tratta di qualcosa di ben diverso sia dal parco “imbalsamatore”, prendendo spunto da una definizione più volte utilizzata da chi contesta l’istituzione di un’area protetta, sia dal parco “promotore”, che viceversa agisce in modo quasi univoco solo nella direzione del marketing territoriale, tralasciando i compiti di conservazione e gestione.
Si tratta di un parco capace di gestire, in modo sostenibile, il territorio, conservando l’ambiente, il paesaggio e la biodiversità e in grado, contemporaneamente di creare presupposti per orientare i sistemi locali verso forme di gestione dell’ambiente compatibili con la conservazione. La conservazione viene, in questo modo, a essere non più la risultante marginale di un processo di sviluppo ma la determinante per l’affermazione di un modello di gestione incentrato sulla sostenibilità, soprattutto in termini di incremento della capacità di tutelare l’ambiente.
Ben altro sono quei parchi che, per acquisire un consenso, seppur minimo e limitato nel tempo, tendono a operare una revisione costante dei perimetri, riducendo zone di riserva, evitando del tutto l’individuazione di riserve integrali, offrendo, viceversa, uno scambio tra conservazione e sviluppo. Per negare la contrapposizione tra parco ed economia si tende a trasformare l’idea stessa di parco: un parco che non agisce per la conservazione e che piuttosto cerca di sostituirsi ad altri soggetti istituzionali nel promuovere la crescita economica e l’uso delle risorse naturali.
Talvolta si perde di vista proprio il mandato, il fine istituzionale del perché un parco è un parco: si perdono di vista soprattutto i benefici del medio e lungo periodo, derivanti dalla conservazione della risorse naturali, per offrire benefici di breve periodo, quali l’incremento di afflusso di turisti che non sono più letti come un risultato dell’azione di conservazione dell’ambiente ma, piuttosto, di un’energica e impegnativa azione di promozione e di comunicazione. Il parco si trasforma, acquisisce il ruolo dell’agenzia di sviluppo, promuovendo il turismo e i prodotti dell’economia locale ma, in questo modo, non risponde al compito che gli è stato affidato, offrendo un “prodotto”, cioè l’ambiente naturale che per essere valorizzato e promosso necessita di essere tutelato e conservato. La lettura di processi di questo genere è facilitata dall’approccio del “ciclo di vita” dei prodotti e che può essere applicato anche alle località turistiche dove l’oggetto del consumo è l’ambiente naturale, lo spazio urbano, la qualità stessa delle destinazioni. Un parco che non agisce per la conservazione oppure che pone in un piano secondario la conservazione, preferendo investire le proprie risorse nell’attività di promozione mette a rischio proprio quei valori e quei punti di forza che caratterizzano l’area e consentono la sua valorizzazione.
È, anche in questo caso, un problema di prospettive e di competenze: occorre saper comprendere quale durata di benefici si intende determinare e a scapito di quale percentuale di capitale naturale. Appare ben evidente la presenza di una complessità data anche da decisioni di tipo economico, di sostenibilità dello sviluppo e di gestione del patrimonio collettivo rappresentato dalla natura e dal paesaggio: si tratta di motivazioni che sono legate in modo intrinseco alla capacità di assegnare alle aree protette un ruolo più o meno strategico.

Un esempio
La gestione di un parco non può, o non dovrebbe, essere improntata all’improvvisazione: seguendo il ragionamento fatto fino ad ora il problema è, in primo luogo, rappresentato dalla necessità di tutelare il patrimonio di risorse naturali tendendo conto della loro non riproducibilità, dei fattori di pressione e della funzione sociale dei parchi, intesa come luogo destinato anche alla fruizione. Il parco nazionale dell’Asinara, è balzato pochi mesi fa sulle pagine del Corriere della Sera(3) per un problema, molto evidente, di gestione. Cosa è accaduto: il parco, istituito nel 1997 e dal 2002 dotato dell’Ente, potrebbe essere considerato un parco “semplice” sotto il profilo gestionale. Un parco i cui confini coincidono con il perimetro dell’isola, privo di insediamenti umani, con attività antropiche che sono cessate nel momento della chiusura del penitenziario e con punti accesso e sbarco ben individuabili e controllabili. Un parco costituito da soli 5.000 ettari, circondato dal mare. Praticamente una riserva naturale, con ampie zone inaccessibili e quindi destinabili a costituire una riserva integrale molto importante per tutelare endemismi e habitat a rischio.
La situazione di “non-gestione”, successiva al passaggio da carcere a parco nazionale, ha determinato invece dei problemi seri di gestione del patrimonio naturale, mettendo a rischio la conservazione della biodiversità: le capre, i maiali e altri animali presenti sull’isola ai tempi della colonia penale e abbandonati al loro destino sono proliferati in questi nove anni, crescendo in numero e “consumando” il territorio e la vegetazione. Ampie zone del parco denotano una situazione di grave degrado, dimostrando la necessità di “gestire” la fauna e i processi naturali, tutelando l’ambiente. In questi nove anni si è proceduto alla stesura del Piano, all’individuazione di progetti e all’apertura al pubblico di un patrimonio inestimabile quale è l’Asinara: un’isola nel centro del Mediterraneo, che ha conservato, per la pressoché totale assenza dell’uomo, intatti ecosistemi di grande valore ma estremamente fragili.
Il tempo necessario ad avviare la gestione ordinaria del parco non ha coinciso, per una serie di motivi, con i tempi necessari alla tutela dell’ambiente e a evitare che la presenza di un soprannumero di capi di bestiame diventasse un rischio per la conservazione stessa dell’isola.
Oggi è necessario porre rimedio, avviando una seria gestione dell’area, ripristinando gli habitat a rischio di compromissione, riducendo la presenza di bestiame e, in primo luogo, facendo diventare il parco una realtà concreta, in grado di tutelare la biodiversità. Soprattutto è necessario saper dimostrare l’efficacia del Parco nell’operare per la tutela dell’ambiente, creando una situazione adeguata per permettere la fruizione dei luoghi e la conservazione del bene comune.
Non è solo il Parco nazionale dell’Asinara a mostrare questa necessità di rendere più incisiva l’azione di gestione e conservazione. Molti parchi soffrono proprio della differenza temporale tra pianificazione, gestione e attuazione. Questo è uno dei motivi per cui, oggi, è necessario rilanciare il ruolo delle aree naturali protette e l’esigenza di attribuire competenze e professionalità ai parchi.

Le sfide
L’aspetto che maggiormente risalta con evidenza dalla riflessione fatta in precedenza è quello legato agli obiettivi che vengono affidati ai parchi e alle capacità degli enti, cioè delle persone, di realizzare e raggiungere questi obiettivi.
Da un lato possiamo riscontrare un vuoto istituzionale, laddove i parchi sono stati istituiti via via con compiti differenti, con maggiore o minore impegno, dal punto di vista delle risorse disponibili e della volontà di sostenere i parchi nella loro azione; ma sempre in una situazione di carenza di una strategia ben chiara, condivisa e di lungo respiro. Dall’altro una situazione che si è di volta in volta venuta a creare con la decisione di affidare i parchi a figure che non sempre erano in grado di assicurare la miglior competenza possibile in quel campo. Si è investito poco nelle aree naturali protette: a quasi 15 anni dall’approvazione della legge 394/91 è possibile trarre un bilancio, di cosa è stato fatto e di cosa è necessario fare.
Sono stati raggiunti risultati significativi, soprattutto nella creazione di aree protette e nella diffusione di un’immagine collettiva dei parchi nell’opinione pubblica: nel 1991 i parchi erano pochi, poco conosciuti e poco inseriti nelle realtà locali.
Dopo 15 anni è doveroso porsi obiettivi che vadano oltre la “quantità” e che pongano chiare indicazioni circa la qualità delle aree protette italiane e la loro capacità di raggiungere risultati significativi sotto il profilo della conservazione, della tutela della biodiversità, della salvaguardia del paesaggio e delle tradizioni locali.
È opportuno porsi anche l’obiettivo di dare alle aree naturali protette la possibilità di svolgere il proprio compito, sancito anche da impegni internazionali assunti dall’Italia, assicurando continuità, competenze e risorse adeguate.
Si può affermare che il periodo pionieristico dei parchi possa volgere al termine, dopo 15 anni, riconoscendo il ruolo che le aree naturali protette possono svolgere e la necessità di garantire un quadro di riferimento nazionale, certo e condiviso con i diversi livelli istituzionali. Può interrompersi un approccio che troppo spesso è stato contraddistinto dall’improvvisazione: figure competenti alle quali affidare compiti difficili, con obiettivi di lungo periodo. Da ciò deriva anche la necessità di saper investire nella qualità della gestione e di chi opera quotidianamente per i parchi: è opportuno investire per creare figure che siano competenti e preparate, in grado di far funzionare le aree protette in modo innovativo. Oggi numerose Università italiane hanno avviato corsi di laurea, master, corsi di specializzazione nei diversi ambiti che si riferiscono alla gestione del patrimonio naturale, alla conservazione delle specie, alla valorizzazione del territorio e delle economie locali. Si renderebbe necessario dare un riferimento, fatto anche di certezze nel futuro, alle migliaia di giovani che scelgono questi corsi, con motivazione ed entusiasmo. Perché, per esempio, non definire un programma nazionale, coordinato con le Università e le Regioni, per stabilire i fabbisogni formativi, le caratteristiche tecnico-culturali e fornire personale specializzato in relazione alle esigenze dei parchi, nei diversi settori di attività?
Da più parti si indica l’ambiente come un’opportunità, come un’occasione per svolgere una professione interessante e utile per la collettività: eppure, troppo spesso, proprio l’ambiente è un settore che si caratterizza per la precarietà del lavoro e per un orizzonte temporale limitato e costellato da discontinuità e incertezza.
I parchi, il turismo, lo sviluppo rurale, non possono essere soltanto qualcosa di estemporaneo, legato a progetti e cofinanziamenti comunitari: tutelare e valorizzare il patrimonio locale ma, soprattutto, gestire il territorio per creare condizioni per il mantenimento delle condizioni naturali e lo sviluppo.
Occorre soprattutto dare forza e credibilità alle aree protette, come strumento per la sostenibilità e il futuro: consolidare i parchi come elementi che caratterizzano il territorio e l’appartenenza stessa delle comunità al territorio, facendo uscire i parchi da una logica di spartizione del potere e legata a fasi, a “strategie episodiche” limitate nel tempo.
Da un lato si chiede innovazione delle strategie di gestione dell’ambiente, per rispondere alle sfide e, dall’altro, si risponde con scarsità di competenze e di risorse, proprio come se la “conservazione della natura si pagasse da sé”. Le figure alle quali si affidano i parchi provengono spesso da altre esperienze con capacità tecniche e preparazione culturale troppo distanti.
Ancora una volta è necessario ricordare l’impegno di Antonio Cederna, del quale quest’anno, ricorre il X° anniversario della scomparsa. E proprio questo numero della rivista contiene un articolo di Vezio De Lucia che ripercorre il ruolo di Cederna per i parchi e la natura. «… la conservazione della natura nel quadro di una politica del territorio che subordini a essa ogni altro intervento (edilizio, industriale, autostradale) deve essere dunque considerata l’obiettivo primario di ogni società previdente e socialmente progredita» Da” La Distruzione della natura in Italia”, Einaudi, 1975.
Sono tuttora attuali le parole di Cederna e lo sono ancor più se rapportate allo stato della Natura e delle aree naturali protette in Italia. Quella capacità del nostro sistema sociale di dimostrare di essere previdente e progredito è, per quanto attiene alla conservazione della Natura, un risultato ancora da raggiungere per il quale sarà richiesto un impegno costante e serio che andrà valutato con attenzione.

Andrea Ferraretto
Università degli Studi di Camerino,
Università degli Studi di Siena

Note
1.Per una trattazione approfondita si veda Franco Pedrotti, Scopi e finalità dei parchi nazionali, in I Parchi nel III Millennio, a cura di G. Piva, Perdisa, 2005
2. Nell’ambito del Protocollo di Kyoto anche le aree naturali protette possono svolgere un ruolo per contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici, basti pensare all’importanza delle foreste intese come serbatoi (sink) di carbonio.
3. Corriere della Sera, 2 gennaio 2006, pag. 23, Emilio Nessi