Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 48 - GIUGNO 2006




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IL BELL'ANTONIO

Non sembri irriverente il titolo con cui vogliamo ricordare la figura e l’opera di Antonio Cederna scomparso dieci anni or sono.
Un doverso omaggio a un’uomo e alla sua battaglia per la Bella Italia, per il Belpaese messo a rischio, ieri come oggi.
Due testimonianze d‘eccezione: Vezio De Lucia e il figlio Giuseppe.

«La scomparsa di Antonio Cederna rappresenta una perdita incolmabile non solo per coloro che combattono per la difesa dei beni storici e naturali italiani, ma per la società civile, intesa come quell’insieme di cittadini che credono fermamente che l’Italia possa diventare un paese moderno, civile, appunto, e che ciascuno possa e debba dare personalmente un proprio contributo al cambiamento. Ad un conoscente superficiale Cederna poteva dare l’impressione di un uomo scontroso, sempre scontento e pronto a protestare; in realtà la sua forza e importanza stava proprio nell’avere scelto di vivere secondo l’invito di Martin Luther King: “Fratelli, vi prego, siate sempre indignati”».
Così scrisse di lui Giorgio Nebbia, in occasione della morte nel 1996.
A dieci anni dalla scomparsa ci sembra doveroso ricordarne la figura e l’opera che due interventi di particolare significato: quello di Vezio De Lucia e quello del figlio Giuseppe. La figura “indignata” di Cederna è stata per decenni un riferimento sicuro per chi aveva deciso di non rassegnarsi allo scempio del “Belpaese”. Come scrittore, giornalista, persona impegnata politicamente -deputato della Sinistra indipendente, consigliere comunale a Roma-, come fondatore e vicepresidente di Italia Nostra Cederna ha attraversato la seconda metà del ventesimo secolo, nella strenua difesa contro coloro che chiamò, con efficacia “I vandali in casa”, impegnati nel barbaro assalto al territorio italiano e ai centri storici, la furia travolgente e indifferente della volgare arroganza dei nuovi ricchi incrociata con l’ostinata e colpevole miopia di tante pubbliche amministrazioni. Instancabile, aveva denunciato tutto questo nei libri, ma ancor più nelle centinaia di articoli che avevano previsto anche il disastro della “sua” Valtellina, inevitabilmente verificatosi con la catastrofica alluvione del 1987.
La sua non fu mai una indignazione rassegnata, ma invece un continuo richiamo alla ribellione, alla protesta civile alla speranza che le lotte ambientaliste avrebbero cambiato il comune senso del territorio e dell’ambiente, da costruire nei valori della bellezza, della spiritualità che l’ambiente sollecita, del passato da mantenere per essere trasmesso alle generazioni future. Una voce necessaria anche oggi, per non rassegnarci alla trasformazione di ogni cosa a merce e a valore monetario.
Per questo gli abbiamo voluto dedicare questo omaggio cui contribuiscono il testo di un vecchio amico e compagno di battaglie, Vezio De Lucia, architetto e urbanista, e quello del figlio Giuseppe. Ho conosciuto Giuseppe e mi ha colpito questo suo legame stretto col padre, il suo senso di gratitudine premurosa che va al di là dell’affetto, perché diventa condivisione dello spirito e degli ideali del padre Antonio. Per questo mi è sembrato giusto, semplicemente giusto, offrire al Lettore le sue parole.


Sono passati due lustri dalla scomparsa di Antonio Cederna (Milano 1921 - Roma 1996) - uno dei fondatori dell’ambientalismo italiano- archeologo e critico d’arte, poi straordinario giornalista: scrisse sul settimanale Il Mondo, e poi sul Corriere della Sera e La Repubblica.

Fu anche consigliere comunale di Roma e deputato della sinistra indipendente. Non è stato dimenticato, e fioriscono le occasioni per ricordarlo. Francesco Erbani ha curato per Laterza una nuova edizione di “I vandali in casa”, il suo libro più noto, mentre la Corte del fontego, una nuova e benintenzionata casa editrice veneziana, ha pubblicato una nuova edizione di “Mussolini urbanista”, presentata da Adriano La Regina e Mauro Baioni. L’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna sta allestendo una pubblicazione con contributi di specialisti e compagni di viaggio.
La Provincia di Roma, che da anni ha istituito il premio Cederna, quest’anno lo assegna a figure che nel decennio hanno operato in continuità con il suo pensiero.
Mi auguro che nei prossimi mesi anche Italia nostra, l’associazione che Cederna contribuì a fondare e che frequentò ed ebbe cara più di ogni altra, riesca a organizzare un necessario convegno di studi, per raccogliere e discutere le testimonianze, i contributi e i materiali intorno alla sua eredità prodotti nell’ultimo decennio.
Il nome di Antonio Cederna, si sa, è legato soprattutto al mondo dell’urbanistica, alla tutela del paesaggio, delle antichità e delle belle arti.
Si occupò specialmente di Roma, e massimamente dell’Appia Antica, e si deve in larga misura a lui se la Regina viarum e il vasto territorio che la circonda si sono salvati dagli assalti degli «energumeni del cemento armato» (oppure dei «nemici del genere umano»), come chiamava gli speculatori edilizi e i loro manutengoli annidati in Parlamento e nel Governo, nelle Pubbliche amministrazioni, nei giornali e nelle Università.
All’inizio degli anni Ottanta, insieme al Soprintendente archeologico Adriano La Regina e all’indimenticabile sindaco Luigi Petroselli, fu protagonista del cosiddetto “Progetto Fori”, che prevedeva lo smantellamento della via dei Fori imperiali, lo stradone costruito per volontà di Benito Mussolini -dopo aver sventrato gli antichi quartieri costruiti nei secoli sopra le rovine romane, scempio accuratamente descritto in Mussolini urbanista- affinché da Piazza Venezia si vedesse il Colosseo e per fornire uno scenario imperiale alla sfilata delle truppe. Il progetto Fori prevedeva il recupero e la ricomposizione del tessuto archeologico (fori di Traiano, di Cesare, di Augusto, di Nerva, eccetera) oggi spezzato dalla strada fascista, collocando la storia e la cultura al centro della città moderna. Morto Petroselli, i sindaci che lo hanno sostituito non hanno avuto il coraggio di andare avanti. La via dei Fori è rimasta al suo posto e continua inutilmente a scaricare automobili e inquinamento nel centro della capitale, mentre le rovine romane restano racchiuse in recinti laterali, a quote più basse, come i leoni allo zoo.
Su queste pagine c’interessa però ricordare che Antonio Cederna fu anche un accanito difensore della natura e anzi, in ogni suo intervento, la denuncia del malgoverno del territorio -il tema che credo possa correttamente sintetizzare l’insieme del suo lavoro di giornalista, di scrittore, di rappresentante del popolo- comprende sempre, in un solo intreccio, il disfacimento delle città, l’abrogazione del paesaggio, la distruzione della natura, l’eliminazione dello spazio necessario alla salute pubblica, lo smantellamento dei beni culturali, la privatizzazione del suolo. Ma anche se è difficile, e forse improprio, separare per gruppi e per generi la sua attività, penso che sarebbe tuttavia utile una riflessione ad hoc sui suoi interventi destinati esclusivamente o prevalentemente alla natura. Altrettanto, e forse ancora più utile, penso che sarebbe una ricerca volta a ricostruire puntualmente il contributo che Cederna deputato della X Legislatura fornì alla formazione delle due fondamentali leggi approvate negli anni che lo videro legislatore: quella per la difesa del suolo (n. 183/1989) e quella per la protezione della natura (n. 394/1991).
Per ora mi limito a ricordare La distruzione della natura in Italia (Piccola Biblioteca Einaudi, 1975), il libro di Cederna, introvabile come ogni altra sua opera, dedicato in particolare alla natura in tutti i suoi aspetti, dai parchi nazionali ai giardini, dalle montagne ai laghi, dalle paludi allo stambecco.
È un libro denso di pagine e di argomenti, che raccoglie saggi inediti e articoli scritti negli anni precedenti sul Corriere della Sera.
È formato da un testo introduttivo e da tre parti tematiche: un’indagine sulle condizioni (pessime) in cui versavano i parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, d’Abruzzo e del Circeo; un’inchiesta sugli scempi realizzati o minacciati ai danni delle coste di Toscana, Sardegna, Lazio e Campania; un’indignata denuncia, sulla mancanza di verde pubblico nelle città di Roma e di Milano. Non senza qualche ingenuità.
Come quando s’illude che le cose possano migliorare con l’entrata in funzione delle Regioni a statuto ordinario (avvenuta nel 1972), che dovrebbero spazzare via la vecchia mentalità accentratrice dell’apparato statale burocratico e prepotente.
Non poteva immaginare -lui, altrimenti così preveggente- che trent’anni dopo dobbiamo troppo spesso rimpiangere i pregi del centralismo statale.
Come sempre, il linguaggio di Cederna è tagliente, talvolta feroce, il vocabolario spesso sorprendente, sempre efficacissimo.
A titolo di esempio ho raccolto una piccola antologia (proposta a lato del testo ndr) tratta dalle pagine introduttive del libro, e spero che, dopo le nuove edizioni dei Vandali in casa e di Mussolini urbanista, una benemerita casa editrice colmi la lacuna pubblicando anche La distruzione della natura in Italia.


«Una grande spiaggia deserta. Una casetta di legno e un uomo alto e magro avvolto in un accappatoio bianco. E’ mio padre, lo riconosco. Devo scendere, dico al capitano. Non serve la scialuppa, con un salto gli sono accanto, i piedi nella sabbia umida. Mi chiede una sigaretta. Le ho lasciate a bordo. Non importa, mi dice con un cenno.
Ci guardiamo come se non dovessimo lasciarci più. Vorrei abbracciarlo ma ho paura di fargli male. Mi abbraccia lui, mi appoggia la testa sulla spalla e si addormenta. Mi muovo piano per paura di svegliarlo e lentamente mi siedo sulla sabbia. Mamma, non è morto, dico, sta dormendo. Senti. Però è strano, lui non si è mai mosso così, non mi ha mai abbracciato, non mi ha mai appoggiato la testa sulla spalla così, come un bambino. Alzo gli occhi. La nave ha ripreso il largo. Rimane il mare. E la sabbia umida fra le dita». Giuseppe lo ricorda così, nel libro che ha dedicato “a mio padre/a Paola”. E anche nel suo spettacolo a teatro.
Nel libro aggiunge altro. «Mi alzo a sedere. Mio fratello ha nove anni e dorme nel letto accanto al mio. Mia sorella è nel lettone con mia madre. Un tarlo. Nel silenzio della casa manca qualcuno e io so chi è. Vorrei piangere, ma non ci riesco. Non voglio svegliare nessuno. Mio fratello è già sveglio e mi guarda come un grande. “E’ il magone. Lo conosco.Manca da morire anche a me. Vieni, andiamolo a trovare”.
Ci alziamo e, a piedi nudi, facendo attenzione alle schegge del pavimento di legno, siamo già nel suo studio. Ci sono le foto dei bisnonni incorniciate di nero. C’è il quadro del martirio di un santo a cui stanno dipanando le budella come fossero una matassa di lana. Ci sono gli acquerelli delle montagne dipinte dal nonno. Ci sono i nove cavalli selvaggi che lui disegnò a dieci anni per il compleanno della sua mamma.
E c’è il suo divanetto, lungo e magro com’era lui alla fine. Sul velluto rosa scuro e consumato c’è l’orma di un corpo, solo un calco leggero. E’ nostro padre. La sua impronta».
Rivede, per una attimo, nel fratello, la discrezione riservata del padre…
«Come siamo diversi io e mio fratello. (…) Ha preso da mio padre, è anche magro e un po’ curvo come lui. Come lui è riservato, ha il pudore dei sentimenti: bisogna abbracciarlo per essere abbracciati».
Giuseppe ci ha regalato questo scritto che, nell’anniversario della scomparsa di Antonio, ha pubblicato su “Carta”.
Ma lo riproponiamo volentieri ai nostri lettori, in omaggio al ricordo di un grande riferimento intellettuale per tutti coloro che hanno a cuore la difesa del “Belpaese”, nella speranza che possa tornare a essere tale.

Una volta regalò a sua madre un acquarello. Undici cavalli selvaggi che saltano, corrono e si impennano. Aveva otto anni e il dono di saper disegnare. Il suo tratto era già preciso, essenziale.
Una volta suo padre lo portò allo stadio di San Siro a vedere l’Internazionale e quando Peppino Meazza segnò un gol, dall’emozione gli venne la febbre e vomitò. Il calcio, diceva, “è uno dei pochi, veri, piaceri della vita”. Funzionava da ansiolitico e lo sollevava dall’angoscia. Per molti anni, ogni domenica, abbiamo giocato a pallone insieme ma era debole di caviglie e spesso usciva zoppicando.
Una volta, allo zoo di Milano, un Lama gli sputò sul bavero del paltò. Da allora sviluppò un’istintiva diffidenza verso i Lama e tutti gli zoo.
Una volta si mise a leggere Tolstoy, Dostoevskij, Maupassant, Cechov, Swift, Cervantes, Melville, Stevenson...
Una volta scoprì che per capire veramente un testo bisognava impararlo a memoria. Cominciò con Shakespeare e Manzoni, poi continuò con Dante, Belli, Leopardi, Porta... Senza saperlo aveva la stoffa e il tormento dell’attore, e come un attore si teneva in allenamento recitando ovunque. Devo a mio padre l’amore per i libri e la passione per il teatro.
Una volta decise di trasferirsi a Roma per specializzarsi in Archeologia. E una volta, passeggiando sull’Appia Antica, per poco non precipitò in una voragine azzurra: una grande piscina abusiva con tanto di ombrelloni, toboga e mosaici romani. Nella “Mirabilia Urbis” stava succedendo qualcosa: «quello che fino all’anno scorso era un pezzo di campagna romana, un monumento da salvare religiosamente intatto come l’Acropoli di Atene, è oggi un deserto d’inferno sconvolto dalle macchine scavatrici». Era cominciata una nuova invasione barbarica. E i vandali erano in casa. Cominciò a combattere. A denunciare gli speculatori. Scrisse centinaia di articoli senza mai perdersi d’animo nonostante i processi, le accuse, le sconfitte ma anche le molte vittorie, perché, come scriveva, «compito del giornalista dovrebbe essere quello di aiutare la gente a rivendicare i propri diritti elementari... dare voce a chi si batte contro malgoverno, soprusi e speculazioni».
Devo a mio padre il malessere da scempio e la predilezione per il termine “pubblico”.
Una volta, in una pensione vicino a Piazza del Popolo, incontrò una ragazza sarda che parlava quattro lingue e aveva vissuto a Tangeri, in Marocco. Le propose di farle da guida. Dopo molte lezioni di storia dell’arte e un anno di rapporto epistolare si sposarono sotto una cupola del Bramante. Devo a mio padre mia madre. E i miei fratelli.
Una volta siamo nati io, Camilla e Giulio. E Tonino-Antonio è diventato padre. Un padre ticchettante come la sua macchina da scrivere. Un padre che ci ha consegnato la passione civile, l’indignazione per le ingiustizie e la diffidenza verso i potenti.
Un padre fuori dal normale, pieno di stranezze, di bizzarre manie, di fragilità. Capace di farti piangere con Ecuba e ridere con Totò e Charlie Chaplin. Capace di raccontare la miseria e la grandezza degli uomini. Un padre che spesso parlava con le parole dei suoi personaggi.
E che una volta mi scrisse: «Oh mio buon Orazio, se tu mi tieni nel cuore, appartati dalla felicità per qualche tempo e vivi e respira ancora il tuo dolore in questo duro mondo, per raccontare la mia storia».

Vezio De Lucia e Giuseppe Cederna