Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 48 - GIUGNO 2006




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VECCHI BISOGNI, NUOVE PROSPETTIVE

Per i parchi una ripartenza che si gioca sul tavolo del Ministero e delle Regioni, con nuove normative e vecchi pasticci.
Porterà ordine l’annunciata terza Conferenza nazionale?
Una lista delle criticità e delle priorità per rilanciare ruolo e funzione delle aree protette.

Con le recenti elezioni politiche e quelle regionali e locali di poco più di un anno fa, il nostro sistema istituzionale è a regime per un periodo sufficientemente lungo da consentire, finalmente, il dispiegamento di programmi di ampio respiro.
Questa è chiaramente una condizione fondamentale specialmente per i parchi e le aree protette che debbono poter contare, nella loro attività, sul concorso e sostegno coordinato e leale del sistema istituzionale di cui sono espressione. Ora perciò si può pensare realisticamente a un rilancio di tutto il complesso delle aree protette, senza esclusione di nessun comparto.

Il risveglio delle Regioni
Del resto già le elezioni regionali hanno messo o rimesso in movimento situazioni -specie al sud- per lungo tempo bloccate o comunque stagnanti. Ma anche nelle regioni dove storicamente più radicata e consolidata è la presenza di parchi e aree protette, il rinnovo dei Consigli regionali ha stimolato una riflessione e verifica critica che, in più d’un caso, si sta traducendo in importanti revisioni e aggiustamenti normativi che potranno contribuire anche al dibattito e confronto nazionale.
Tra le Regioni che hanno cominciato ad attuare leggi rimaste a lungo nei cassetti segnaliamo la Puglia, la Calabria, la Sardegna. Tra quelle storicamente più attive l’Emilia che ha una legge nuova di trinca che sta attivamente sperimentando. Le Marche, al Conero, stanno tentando di introdurre una gestione istituzionalmente meno barocca, con qualche opposizione che contesta poco ragionevolmente la legittimità della Regione ad essere rappresentata negli enti. La Liguria ha in corso un vigoroso rilancio già avviato da tempo ed anche il Lazio deve aggiustare meglio le sue cose. Si assiste anche a qualche curiosa rianimazione come in Veneto accompagnata da “proclami” che, per la verità, sembrano scoprire con molti anni di ritardo quel che ormai non è più una novità, tipo l’affermazione che i parchi non sono “isole”.
Ma è sempre meglio tardi che mai.

Il caso Sicilia
In Sicilia, che ha ospitato il Congresso di Federparchi, rimangono aperte delicatissime questioni a partire dai cosiddetti poli turistici ed anche la gestione delle nuove realtà tipo l’Alcantara lascia piuttosto a desiderare.
Se prendiamo, ad esempio, le riserve che in Sicilia costituiscono una realtà che non ha eguali in Italia -il 10% del territorio con dimensioni medie che altrove è difficile trovare anche nella rete dei parchi regionali-il quadro evidenzia una serie di problemi irrisolti e peculiarità significative dovute anche alle specificità normative di una Regione davvero “speciale”. In una relazione del 2003 - ma ancora come vedremo attuale- la Corte dei conti, in riferimento soprattutto alla Provincia di Trapani dove si concentrano alcune delle riserve più importanti dell’isola, rilevava che il Consiglio Provinciale Scientifico -soggetto non riscontrabile in nessuna altra Regione d’Italia- il ritardo nella predisposizione del piano per le riserve aveva avuto e aveva effetti notevolmente ritardanti sul funzionamento delle riserve naturali di quella provincia le quali non potevano mettere a punto e attuare i loro strumenti di gestione. Il tutto aggravato dalle insufficienze e ritardi nella erogazione dei finanziamenti. A questa grave inadempienza si aggiungeva quella dell’assessorato regionale che non si preoccupava più di tanto nel rimuovere queste strozzature. Dalle relazione della Corte emerge, insomma, che una serie di colli di bottiglia istituzionali regionali e provinciali rendono difficile la gestione di un sistema di riserve tra i più interessanti del Paese anche per essere in moltissimi casi gestito dalle più varie associazioni ambientaliste.
Ecco un caso dove la “specialità” anziché agevolare quella leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali li complica non facilitandone la cooperazione.

Umbria, Piemonte, Trentino
Non mancano poi casi assolutamente sconcertanti e inspiegabili come l’Umbria che dopo avere recepito, molto tardivamente e male, la legge 394 e avere tentato, senza successo, di girare pagina è giunta recentemente alla brillante conclusione che si potrebbe passare i parchi armi e bagagli alle Comunità montane. Ma le maggiori novità si registrano in due delle situazioni storicamente più significative Piemonte e Trentino impegnate in una profonda e generale revisione normativa.
Del Piemonte si è occupato anche Parchi nel numero precedente e qui si può solo richiamare -a fronte di una serie di norme trancianti come quella del ridimensionamento degli organi di gestione una volta accorpati- l’esigenza di non procedere senza tenere in debito conto delle numerose critiche ed anche proposte dei vari parchi piemontesi e del loro Coordinamento che appaiono ragionevoli e fondate.
E’ apprezzabile lo sforzo della Regione di contestualizzare il ruolo dei parchi raccordandolo soprattutto alle normative comunitarie sulla biodiversità ma -come vedremo subito dopo anche a proposito della Proposta di legge della Provincia di Trento- qualche rischio di sfuocare, di rendere meno percepibile e visibile il ruolo dei parchi c’è.
Ricordo quando molti anni fa in un libro di grande successo dedicato ai Parchi regionali (la legge quadro era ancora in gestazione), parlando dei parchi del Trentino, Roberto Saini si soffermò sulla peculiarità della legge -che si avvaleva ovviamente delle sue competenze “speciali”- delineando il ruolo dei parchi partendo appunto dalla legge urbanistica. Altre Regioni in attesa di una legge quadro nazionale si avvalsero di altre e diverse competenze ordinarie per poter intervenire in un campo nel quale non avevano alcuna titolarità diretta. A Trento oggi -in un quadro nazionale assolutamente cambiato e forti di una esperienza tra le più significative e positive del paese- si è rimesso mano a quella normativa “provinciale” (leggi Regione).
Già il titolo “Governo del territorio forestale e montano, dei corsi d’acqua e delle aree protette”, consente di capire che non si è certo alla ricerca di una competenza che permetta di aggirare l’impedimento precedente la 394. La lettura di un testo ponderoso: 110 articoli che ai parchi e alle altre aree protette ne riserva 18, dal 33 al 51, non è certo agevole specialmente per quanto riguarda la individuazione dei raccordi, intrecci e così via. Del testo si può apprezzare quell’intento di contestualizzazione che ritroviamo -come abbiamo detto- anche in quello piemontese. Ma anche qui si fatica non poco a individuare e interpretare chiaramente cosa si chiede ai parchi. Verrebbe da dire che è facile perdersi tra i boschi, i corsi d’acqua, fiumi, laghi, campi. Forse sarebbe preferibile pensare ad una legge provinciale specifica sui parchi come, del resto, hanno fatto ormai tutte o quasi le Regioni speciali e non.

Il quadro nazionale
Su questo sfondo, molto sommariamente richiamato, il quadro nazionale ha tutt’altro segno. Dopo le prolungate e talvolta pretestuose polemiche sulla legge quadro, la montagna ha partorito il topolino tanto che neppure la Commissione dei 24 ha avuto qualcosa da dire e ha saltato a piè pari la questione.
Meglio, naturalmente, visto quel che accaduto nei settori non dimenticati.
Va tuttavia ricordato che alcune norme della legge delega si riverberano negativamente anche sui parchi e le aree protette, soprattutto per quanto riguarda i bacini idrografici di cui abbiamo approfonditamente discusso il 22 maggio a Sarzana in occasione della inaugurazione del “Centro studi sugli ambienti e aree protette fluviali”, sulla base di una puntuale relazione del Sen. Egidio Banti.
Il nuovo Ministro dell’ambiente, anche al Congresso in Sicilia, ha affermato con molta nettezza che intende ripartire ripristinando innanzitutto una situazione di legalità e di cooperazione istituzionale, annunciando anche che nel giugno del prossimo anno intende convocare una nuova Conferenza nazionale. Alle dichiarazioni del Ministro hanno fatto seguito anche dichiarazioni di Sottosegretari che per la verità era meglio se prima di parlare di caccia o altro prendevano fiato così da risparmiarsi qualche brutta figura. Si è addirittura scoperto -tanto per dirne una- che la caccia ha anche il pregio e il merito di non costituire un argomento intellettualmente complesso e complicato e perciò non troppo impegnativo cerebralmente. Ma a parte qualche capogiro da poltrona, il ministero sembra chiaramente intenzionato a fare uscire i parchi dal cono d’ombra in cui sono finiti in questi ultimi tempi. E qui si pone una prima delicatissima questione che riguarda il giudizio sulla situazione, le sue cause e quindi i rimedi a cui mettere mano.
Quel che è accaduto in questi ultimi anni al di là dei tagli finanziari ma grazie anche ai commissariamenti, alle campagne durate poco ma con conseguenze ugualmente nefaste sulla necessità che i parchi facessero cassa e via denigrando e pasticciando, hanno determinato una pesante e allarmante caduta di credibilità delle aree protette. Certo, gli effetti non sono stati della stessa gravità dappertutto date le diverse situazioni locali e regionali, ma l’effetto complessivo porta chiaramente questo segno infausto. E forse non si è ancora valutato e misurato il danno provocato anche nelle situazioni più avanzate da questa rovinosa gestione; penso alla Toscana e all’Emilia e alla fatica per acquisire, giorno dopo giorno, il consenso per i tre parchi nazionali specialmente in realtà come l’isola d’Elba. Si ha idea di cosa ha significato tutto ciò anche per le istituzioni locali logorate, penalizzate da una paralisi da cui non sarà facile ora riprendersi?

Credibilità e dignità per il rilancio
Un rilancio politico-istituzionale dei parchi e delle aree protette deve ovviamente muovere da qui, dalla consapevolezza che occorre innanzitutto restituire ai parchi credibilità, visibilità, dignità con un investimento di fiducia nel loro ruolo che deve ritrovare una centralità venuta meno o pesantemente logorata.
E per questo deve essere chiaro, da subito, che ciò non è impedito o reso problematico da nessuna legge nazionale o regionale. Insomma non vanno predisposti prima chissà quali aggiustamenti normativi per rilanciare poi una politica nazionale dei parchi -tutti i parchi- terrestri e marini, che deve partire immediatamente.
La parola deve tornare in maniera chiara e trasparente alla politica senza nascondimenti assurdi del tipo «stiamo lavorando per voi» così che nessuno sa ancora -sebbene non sia difficile intuirlo- che fine hanno fatto la Carta della Natura, il Piano per la biodiversità, il Piano presentato a Portoferraio per il Santuario dei cetacei e poi misteriosamente sparito da risultare inaccessibile, e ancora gli impegni previsti dalla legge n.426 ma anche dalla Convenzione alpina e da APE; situazioni e norme che richiedono soltanto di essere, finalmente, poste su quei tavoli in cui da anni Stato, Regioni ed Enti locali non si confrontano malgrado le stesse conclusioni della Conferenza di Torino. In particolare bisogna farla finita con la insopportabile e indecorosa melina sulle aree protette marine da anni agli arresti domiciliari con i pretesti più vari di cui ha fatto definitivamente giustizia la pronuncia della Corte dei conti, togliendo ogni alibi ai nostri azzeccagarbugli.

Aree marine: uscire dagli equivoci
Non c’è alcuna ragione, né vera né presunta, che impedisca alle aree marine di essere gestite alla stessa stregua di tutte le altre secondo le norme della legge quadro. Senza commissioni di riserva incompatibili con il principio di “leale collaborazione”, senza la quale le aree marine sono condannate ad una marginalità di cui ci si dovrebbe ormai vergognare, visti i disarmanti risultati. Si veda al riguardo la Deliberazione della Corte dei conti del 18 maggio 2006 -quindi recentissima- sulla istituzione delle aree marine protette di ‘Costa degli Infreschi della Massetta’ e ‘Santa Maria di Castellabbate’. Ancora una volta la Corte rileva l’illogicità manifesta nell’impartire prescrizioni a soggetti gestori non ancora individuati (altrove si dirà non identificati come gli UFO). E’ la vecchia questione di dissociare l’istituzione della riserva dall’affidamento ad un ente di cui si rinvia a babbo morto la istituzione, potendo così fare poi i propri comodi come è finora è avvenuto.
Altro aspetto su cui la Corte censura il Ministero è laddove si ignora la norma della 394 che modifica quella della legge sul mare, definendo chiaramente l’elenco delle attività espressamente vietate. La Corte infatti ricorda che alle riserve marine si applicano le disposizioni del 198,n. 979 «non in contrasto con le disposizioni della presente legge», cioè la 394. Infine la Corte non ritiene condivisibile l’interpretazione del Ministero che considera superfluo il parere della Conferenza unificata. Insomma il ministero per quanto riguarda la istituzione e gestione delle aree protette marine continua a collezionare censure e infortuni; che sia giunto finalmente il momento -anche qui- di voltar pagina?
Per cambiare finalmente registro non servono nuove leggi; bastano quelle che ci sono, basta applicarle e rispettarle. Solo attuandole sarà possibile anche -come avviene del resto senza drammi nelle Regioni- verificare cosa eventualmente va meglio aggiustato e perfezionato.
Guai però a farne motivo e pretesto per nuovi rinvii e alibi furbeschi.

La delicatezza dei rapporti centro-periferia
Tutto ciò pone però una questione estremamente delicata e nuova di cui dobbiamo avere lucida consapevolezza. Mi riferisco al rapporto centro-periferia concepito da molti, da troppi, ancora come un dare e un avere, se le Regioni e gli Enti locali contano di più e lo Stato automaticamente conterebbe di meno in proporzione. Si tratta di una raffigurazione balorda del decentramento che induce, ad esempio, il Ministero -se deve fare una indagine sul turismo nei parchi- a circoscriverlo a quelli nazionali come se quello dei parchi regionali riguardasse altre materie o livelli.
Sul punto ha detto cose molto importanti F.Barca nell’intervista di Mariano Guzzini su Parchi (n.46/2005) che è utile riportare: «Roma ha vissuto il decentramento come una sofferenza, come una riduzione di potere, non avvedendosi che così invece gli si chiedeva di assumersi non meno ma più responsabilità che richiedevano maggiore competenza rispetto a prima, una sfida innanzitutto anche per le persone». Una funzione -per seguire ancora la riflessione di Barca -che non è di mera gestione, né di supervisione, né di indirizzo ma di “centro di competenza”, il quale aiuti, stia accanto, sia parte dei processi locali e si faccia carico di quel segmento della conoscenza che è necessaria per i processi di sviluppo locale ma che è viceversa di natura globale. Non ci vuol molto a capire quanto oggi si sia distanti da questa visione; gli esempi si sprecherebbero a conferma di quanto oggi il Ministero dell’ambiente navighi in tutt’altra direzione. Basta visitare il sito del Ministero per accorgersi che come centro di competenza è buio pesto. Non si tratta in definitiva di fare di nuovo il conto di cosa è di Roma e cosa è di altri, perché ormai dovrebbe essere chiaro (ma evidentemente non lo è) che in campi come quello ambientale, per la sua trasversalità, anche le competenze esclusive dello Stato, al pari di quelle delle Regioni non sono gestibili in via esclusiva ma solo cooperativa. Il che è vero in maniera particolare e di tutta evidenza nel caso dei parchi e delle aree protette gestite non certo casualmente da enti misti. Su questo punto le pronunce della Corte sono ormai così numerose e riconfermate che non importa insistere più di tanto.

Un’agenda per il futuro prossimo
Vale la pena invece trarne qualche concreta indicazione di lavoro anche a breve termine.
Cominciamo dall’impegno assunto dal Ministro Pecoraro Scanio per una nuova conferenza nazionale a giugno del prossimo anno. Va detto subito che noi non abbiamo bisogno di un “evento” -come si dice oggi- o di una nuova passerella tipo Torino; noi abbiamo bisogno di un percorso che si “concluda” con la conferenza. Un percorso che implica e richiede momenti e passaggi regionali e interregionali “prima”. Si pensi ai parchi interregionali, ma anche alla Convenzione alpina, ad APE, alle coste, al Santuario dei cetacei: ecco terreni concreti sui quali Stato, Regioni, Enti locali, debbono confrontarsi, misurarsi, accordarsi “prima” come finora non è “mai” avvenuto. Ogni livello istituzionale solo così e a cominciare da Roma, potrà diventare davvero quel «centro di competenza» di cui parla Barca. Il tutto in piena trasparenza, alla luce del sole che sono ormai principi costituzionali che la pubblica amministrazione deve scrupolosamente osservare e rispettare e non ignorare come sostiene grottescamente qualche carbonaro ministeriale che teorizza -pensa te- il lavoro nell’ombra. Di ombra al Ministero ce n’è stata fin troppa ed ora è bene spalancare le finestre. Il che significa cominciare a fare un bilancio, a mettere nero su bianco come si sarebbe dovuto fare ma non si è fatto o si è fatto male con Relazioni da discutere anche in Parlamento, alla Conferenza Stato-Regioni-Autonomie.
Non ignorando, come Federparchi da tempo va sostenendo e proponendo, che noi dobbiamo farci carico -specie in un momento così delicato e preoccupante per il processo di integrazione europea- nella fase ascendente e in quella discendente dei problemi dei parchi anche in sede comunitaria.
Il nostro impegno e la nostra attenzione non possono limitarsi ormai al capitolo dei Siti per quanto importante. La territorializzazione delle politiche di tutela della biodiversità, del paesaggio, di una nuova agricoltura, richiedono un coinvolgimento anche in sede comunitaria di tutto il complesso delle aree protette come ribadito più volte da OPE.
La carne al fuoco come si vede è molta per questo ci vuole un buon barbecue.

Renzo Moschini