50 Rivista della Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali - NUMERO 50 - FEBBRAIO 2007
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Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 50 - FEBBRAIO 2007



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Gestire la natura, cambiare la società

Nuove sfide per i parchi naturali italiani

I parchi italiani hanno avuto una storia travagliata; le idee e i progetti di parco si sono diffuse con la stessa forza e scansione temporale degli altri paesi europei. Qualche parco è nato molto presto ossia agli inizi del secolo XX, ma nel complesso vi è stato un notevole ritardo nella concreta costituzione delle aree naturali protette. Le cause sono molte e complesse; basti ricordare quelle maggiormente legate agli aspetti sociali: profonde fratture sia a livello di classe che di territorio avrebbero impedito il formarsi di una società civile attenta alla salvaguardia di un patrimonio comune e indivisibile quale è l'ambiente naturale. Più semplicemente, gli interessi dal secondo dopoguerra erano altri e nel caotico boom economico era difficile per amministrazioni pubbliche, tradizionalmente deboli, imporre un disegno razionale e lungimirante sulle aree a maggiore contenuto naturalistico.
Poi negli anni 80 del secolo scorso le cose sono cambiate: la crisi ambientale ha mostrato l'importanza indifferibile della protezione degli ecosistemi; è emerso a livello mondiale il paradigma dello sviluppo sostenibile; le autonomie locali, soprattutto le regioni, hanno aumentato il proprio peso; è cresciuta un'idea meno elitaria di patrimonio culturale, in cui includere tradizioni minori, come quelle della civiltà contadina. In questo contesto si sono affermati i nuovi parchi: molti promossi dalle regioni e alcuni dal governo nazionale. Per tutti la nuova legge stabiliva un inestricabile nesso fra protezione della biodiversità, benessere delle popolazioni locali e valorizzazione degli aspetti culturali dell'ambiente naturale; aspetto quest'ultimo che è mirabilmente riassunto nel concetto di paesaggio (Sargolini 2005).
Il riferimento al paesaggio fornisce un'importante chiave di lettura. I parchi sono stati infatti equiparati ai contesti urbani, di cui solitamente si pianifica con cura la complessa interazione fra uomo e ambiente. Una cultura di tipo estetico-urbanistica ha prevalso su concezioni che si potrebbero definire maggiormente ecocentriche, basate cioè sui saperi del naturalista, del biologo o dello zoologo. Questa è una tendenza di cui si parla poco, pur essendo chiaro che i parchi non sono entità neutre, ma il frutto di complesse dialettiche fra professioni e saperi (Piccioni 1999, Frank 2001, Osti in corso pubblicazione).
Potremmo concludere questo breve excursus storico dicendo che le scienze del paesaggio hanno rappresentato lo strumento di mediazione fra amministratori pubblici e interessi economici nella costituzione di aree protette che - non dimentichiamolo - hanno avuto opposizioni molto forti a volte violente. Il paesaggio è sembrato un buon compromesso perché considerava la presenza storica dell'uomo nella natura; introduceva il bisogno di una pianificazione rigorosa; valorizzava l'agricoltura e le sue ramificazioni soprattutto in campo turistico-ricreativo. Si arginavano così gli interessi speculativi più dirompenti e si apriva ad una convivenza pacifica fra parchi e popolazioni locali.

Le sollecitazioni al modello urbanistico: partecipazione dal basso e sviluppo locale
L'impronta con cui sono nati i parchi italiani non è un condizionamento assoluto, ma certamente continua a far sentire la propria influenza ora che molti sono entrati in una fase di ordinaria amministrazione. L'impronta urbanistica ha evidentemente vantaggi e svantaggi: si centra sul piano, la zonizzazione e la presenza di un ufficio tecnico che valuti le osservazioni che provengono da utenti e proprietari e conceda in senso lato licenze. Impone quindi una precisa descrizione dei valori ambientali e culturali effettuata in genere da esperti attraverso un piano e una gestione delle pressioni provenienti dal territorio. Questo modello è stato ampiamente sollecitato dagli eventi sociali in particolare su due versanti: il primo è quello della "partecipazione dal basso", il secondo rimanda al ruolo dei parchi come "agenzie di sviluppo". I due punti sono connessi ma conviene affrontarli separatamente. La partecipazione nella sfera pubblica ha una storia antica; affonda le sue radici nella creazione negli anni ‘70 delle circoscrizioni di quartiere. Da allora non vi è mai stata reale soluzione di continuità, ma solo riformulazione dei metodi e ampliamento delle tematiche. All'inizio si pensava ad una semplice riproduzione a piccola scala della democrazia rappresentativa con la mediazione dei partiti. In seguito, si sono visti i limiti di questo modello, soprattutto a causa della crisi di legittimazione dei partiti.
La partecipazione nel frattempo includeva oltre ai classici temi dell'urbanistica e della scuola nuovi problemi in primis quelli socio-sanitari e ambientali. Nel nostro caso specifico è emblematico il tentativo di alcuni parchi di varare agende 21 locali. Sul piano del metodo l'accento viene posto sul fatto che bisogna coinvolgere le espressioni della società civile e quindi le organizzazioni sociali, culturali e ambientali. Inoltre, bisogna assicurare una equa e competente partecipazione di tutti secondo una metodologia ispirata agli scritti del filosofo e sociologo Jurgen Habermas. Ciò significa che il coinvolgimento non può essere spontaneo, ma guidato da regole che assicurino che tutti possano manifestare la propria opinione a ragion veduta. Nascono anche esperimenti con giurie dei cittadini, consensus conferences, focus groups, etc… Forse, qualche esperimento viene effettuato anche nei parchi italiani. Comunque, sulla portata e sui caratteri di queste nuove metodologie vi sono già importanti valutazioni anche se non riferite specificatamente ai parchi (Pellizzoni 2005).
Sul secondo punto - i parchi come agenzie di sviluppo - vi è una precisa ricostruzione nell'articolo di Anna Natali su questo stesso numero della rivista. La sua conclusione è tendenzialmente negativa: i parchi italiani hanno saputo in misura molto limitata cogliere la nuova stagione dell'amministrazione per accordi e della programmazione negoziata. Essa si basa su una nuova visione della gestione pubblica i cui cardini sono la pari dignità di tutti gli enti pubblici e privati (approccio orizzontale) e la competizione fra territori. Questi cioè devono dimostrare capacità e visioni progettuali in base alle quali poi competere per l'aggiudicazione di fondi pubblici provenienti dall'Unione Europea, dallo Stato o dalle Regioni.
Questo diverso approccio vede il parco come uno degli enti che entrano in gioco con una propria visione strategica, con proprie sensibilità e con proprie competenze in una alleanza fra attori territoriali che permetta di attrarre risorse dall'esterno. Tali risorse non sono solo di tipo finanziario; riguardano anche l'arrivo di turisti e l'insediamento di imprese di varia natura. Il parco per poter giocare il suo ruolo deve avere una struttura molto agile, deve avere competenze di tipo gestionale, negoziale e economico. Siamo lontani dall'ufficio tecnico che istruisce pratiche per rilasciare licenze. Si prospetta un ruolo dinamico e propositivo. Natali ipotizza per i parchi addirittura una funzione ancora più alta di "parte terza" che funge da garante del bene pubblico in un coacervo di interessi spesso dominati dal particolarismo.
La valutazione di quanto i parchi italiani abbiano colto l'opportunità di porsi come agenzie di sviluppo locale e quale sia la loro leadership è difficile da fare. Nell'articolo di Anna Natali si parla del prevalere di fondi destinati alla modernizzazione dell'agricoltura nei progetti di nuova generazione in cui sono coinvolti parchi. L'osservazione è riferita in particolare alle aree protette del sud. Nel centro nord è probabile che sia prevalsa la tendenza a promuovere la fruizione; i parchi si sarebbero impegnati come agenzie volte a stimolare una domanda più qualificata da parte di turisti e visitatori, cercando anche di sostenere le imprese correlate a questa attività. Turismo e agricoltura sarebbero dunque stati i settori nei quali i parchi hanno esercitato maggiormente un ruolo di agenzia della sviluppo sostenibile (una lista di buone pratiche si trova in Ielardi 2005). La spiegazione di questa tendenza va forse ricercata nel fatto che tali ambiti presentano situazioni che in letteratura si chiamano win-win, dove cioè vi è un beneficio per tutti: gli interessi economici, le amministrazioni locali, il bene ambiente e, non da ultimo, il parco stesso, il quale si legittima come ente capace di promuovere sviluppo. Un'analisi dettagliata delle azioni dei parchi potrà dire quanto è aderente alla realtà questa lettura.
Si intuisce che partecipazione dal basso e ruolo di agenzia, pur contribuendo ad una più ampia legittimazione del parco non aumentano il suo potere di incidere sui progetti di valorizzazione più invasiva dei loro territori. Il riferimento va alle infrastrutture siano esse viarie o energetiche. L'aver organizzato cristallini e irreprensibili processi di partecipazione e l'aver promosso con generosità progetti di sviluppo agroturistico non danno a questi enti sufficiente forza e autorità per frenare o indirizzare quegli investimenti tradizionali sul "cemento" che si affacciano anche nelle aree protette più consolidate. Le ragioni di questa debolezza sono rintracciabili nelle incertezze della normativa e forse anche nella scarsa visione strategica dei parchi, poco capaci di proporre una propria visione globale della realtà. Il giudizio è ipotetico; solo indagini mirate possono dare una risposta precisa all'argomento.
Una visione globale della realtà non si costruisce dall'oggi al domani; richiede in primo luogo una condivisione politica di tale meta negli amministratori del parco nominati dagli enti locali e dal ministero. Richiede poi competenze, expertise, conoscenze pluridisciplinari, poco vincolate ai clichè delle istituzioni formative italiane (Beato 1999). Richiede, infine, una qualche abilità tattica, intesa come capacità di muoversi nei meandri dell'amministrazione pubblica e nel coacervo di interessi particolaristici della società italiana. La valutazione e la promozione di queste competenze non è facile, essendo spesso inerenti singoli individui o singoli uffici o per altro verso intere comunità; è quella che si chiama in gergo conoscenza tacita o non codificata. Una ricerca che volesse cogliere queste tendenze non potrebbe eludere il problema degli indicatori. I report sui parchi infatti rischiano di cogliere più spesso il protagonismo di singoli funzionari o le manifestazioni-vetrina piuttosto che la reale capacità dell'istituzione di promuovere partecipazione dal basso e l'acquisizione di competenze territoriali. A volte la scarsa capacità gestionale è latente e si manifesta solo per eventi accidentali come il cambio del presidente o la presentazione di un progetto esterno aggressivo. In mancanza di provocazioni risulta difficile cogliere lo spessore istituzionale dei parchi. Mentre dal canto loro i tradizionali indicatori di efficienza (capacità di spesa, numero progetti varati, stabilità della pianta organica) risentono di una visione troppo statica del parco.

Nuove sfide per i parchi italiani
Mentre ci apprestiamo a reperire strumenti efficaci di valutazione rispetto ai nuovi stili di gestione della cosa pubblica, possiamo chiederci se nuove sfide più squisitamente sociali emergano all'orizzonte per i parchi. In termini sintetici se ne possono elencare tre:
• le nuove infrastrutture
• la redistribuzione delle fonti energetiche
• la proliferazione dei consumi individuali
Diversi progetti di grande impatto come strade, alta velocità ferroviaria, ponti e rigassificatori interessano aree costituite a parco o comunque ad esse adiacenti. Vi è una forte spinta da parte dei governi sia nazionali che regionali a sostenere questi progetti, visti come inderogabili fattori di modernizzazione del paese. Gli interessi in gioco sono molto cospicui anche se concentrati nell'industria delle costruzioni e dell'impiantistica. A questi progetti si oppongono mobilitazioni locali quanto mai agguerrite, che diversamente dal passato godono di ampie risorse cognitive e comunicative. L'opposizione movimentista però non deve essere sopravalutata in quanto risulta efficace in casi emblematici noti all'opinione pubblica nazionale, mentre in progetti di più modesta portata non c'è quella radicalizzazione dello scontro che porta ad una redistribuzione della posta in gioco.
I parchi in queste partite non riescono ad assumere una leadership né politica né cognitiva. Blandamente schierati contro i progetti infrastrutturali devono soccombere alle mediazioni istituzionali dei loro amministratori. Tornano le questioni sollevate in precedenza: il parco ha una propria visione strategica dei servizi e della qualità della vita? Il parco ha capacità di elaborare o suggerire proposte alternative meno invasive? Il parco ha dirigenti dotati di carisma tale da coagulare consensi? Probabilmente, anche se avesse queste qualità dovrebbe pur sempre misurarsi con gli equilibri politici a cui sono tenuti i membri del suo consiglio di amministrazione. L'immagine del vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro torna a rappresentare bene la situazione dei parchi di fronte ai progetti infrastrutturali (Osti 1992).
La questione energetica è una seconda sfida ai parchi. La situazione è nota: la grande dipendenza e instabilità (soprattutto per l'Italia) degli approvvigionamenti di energia stanno spingendo verso la ricerca di fonti endogene: esse sono il vento, le biomasse e la caduta dell'acqua. Tutte risorse disponibili in maggior misura nelle aree rurali in particolare quelle meno densamente abitate. Molti parchi in questi decenni hanno contenuto le pressioni sul territorio grazie al fatto che le risorse tipiche come il bosco non erano concorrenziali con le fonti di energia fossile. Inoltre, i bacini artificiali idroelettrici erano in larga misura già costruiti e pare che non vi fossero ulteriori margini di sviluppo, almeno per i grandi impianti.
Tutto lascia pensare che la situazione internazionale peggiorerà e ciò spingerà a guardare con più insistenza alle fattorie eoliche e alle centrali a biomassa nonché alle mini centrali idroelettriche. Su questo versante i parchi appaiono per ora impreparati, come per altro gran parte delle amministrazioni locali. L'aumento di pressione, tuttavia, potrebbe avere un effetto indiretto positivo come incremento del potere contrattuale dei parchi nei confronti dei potenziali utilizzatori delle nuove fonti energetiche. Se infatti questi enti hanno competenze chiare sulle risorse e hanno accumulato un certo prestigio istituzionale possono entrare in un regime negoziale che li rafforza sul piano politico ed economico. Le risorse naturali sfruttate con criterio potrebbero essere una fonte di entrate non trascurabile in un momento in cui la finanza pubblica restringe i flussi di finanziamento ai parchi.
Anche in questo caso non basta sfruttare una rendita di posizione; si tratta di avere idee chiare sulle risorse rinnovabili, sulle tecnologie disponibili e sugli impatti ambientali. Qualche parco comincia a porsi il problema e qualche altro ha già varato dei progetti. I primi a partire pagano il prezzo di una maggiore incertezza sugli esiti degli investimenti, ma poi godono di un vantaggio comparativo, derivante dai riconoscimenti pubblici sia simbolici (certificazioni) sia materiali (contributi finanziari) e dall'accumulo di conoscenze che proprio nel settore delle energie rinnovabili sono ancora molto scarse. Certamente i singoli parchi possono poco di fronte ad un problema così complesso; sarebbe quindi utile sviluppare e accorpare le conoscenze e le pratiche in appositi organismi federati.
La terza sfida per i parchi riguarda i consumi individuali. In termini molto generici ma non per questo poco pregnanti, si prefigura per il futuro un incremento dei consumi sia in quantità che in qualità (differenziazione). Non vi sono indicazioni in senso contrario, se non l'eventualità di recessioni mondiali drastiche dovute a conflitti bellici o catastrofi ambientali. Il rallentamento di qualche segmento di mercato viene ampiamente compensato dall'affacciarsi di nuovi consumatori dei paesi emergenti. Gli andamenti nei consumi di energia e nella produzione di rifiuti urbani non lasciano dubbi in questo senso.
Anche i parchi naturali possono collocarsi dentro queste tendenze: rappresentano una diversificazione dell'offerta di beni di alta qualità per una nicchia più o meno ampia di consumatori. Forniscono ecoprodotti ed ecoservizi molto sofisticati a clienti, che comunque non rinunciano a mete turistiche molto meno ecologiche. La macchina che spinge verso l'aumento dei consumi sia in quantità che in qualità è inesorabile. Essa può condizionare agevolmente i parchi, che dipendono pur sempre da flussi di visitatori pilotati da agenzie esterne che lavorano su scenari mondiali. Alcuni auspicano un potenziamento di queste tendenze; per l'Italia si presenta l'opportunità di diversificare l'offerta turistica, inserendo nel pacchetto che comprende le città d'arte anche una visita a qualche emergenza ambientale.
La sfida in cosa consiste? Anzitutto vi è l'annoso problema che riguarda la regolazione dei flussi dei visitatori nei momenti di picco. Non è tanto il danno all'ambiente naturale, contenuto in poche aree di altissima concentrazione, quanto l'immagine contraddittoria che il parco fornisce. Non è più il luogo di un contatto rigenerante con la natura ma diventa un posto anonimo con i caratteri più deleteri dell'ambiente urbano: traffico caotico, rumore, inquinamento. Vi è poi da conciliare lo spostamento con mezzi propri con quello con mezzi collettivi. Il turismo internazionale evidentemente si muove con i bus, mentre i visitatori con provenienza di medio raggio usano mezzi propri. I secondi sono sicuramente più difficili da governare.
La motorizzazione privata insidia fortemente i parchi; se non sono le auto, ci pensano le moto, a infilarsi in sentieri e zone sensibili. Anche le mountain bikes hanno il loro impatto e vanno regolate. Così è per molte altre categorie di fruitori. Questi si sono moltiplicati di numero, ma soprattutto si sono differenziati. Rispondono anch'essi alla crescente diversificazione della domanda e dell'offerta ricreativo-turistica. Vi sono casi di ultraspecializzazione diffusi su scala internazionale; un esempio un po' eccentrico sono i pescatori del siluro, organizzati con propri club, centri di accoglienza e nolo di mezzi. Ma gli esempi potrebbero essere molti.
Il parco di fronte a queste tendenze è in evidente difficoltà: auspica come si è detto l'incremento dei visitatori; essi portano denaro e consenso alla struttura; non può intervenire oltre una certa misura sul controllo dei flussi per non ledere le libertà di movimento e il piacere derivante dal muoversi; subisce l'iniziativa di agenzie turistiche esterne determinate e pronte al ricatto ("se limiti l'accesso cambio zona").
Questa sfida è già stata raccolta da molti parchi che hanno sfoderato doti di fantasia e un'ottima organizzazione interna. Personale è stato formato per il dialogo con il pubblico, per la didattica ambientale e per la gestione dei centri visita. Le stesse guardie hanno una funzione di educazione piuttosto che di controllo. Vi sono poi le misure di indirizzo dei flussi, di chiusura temporanea degli accessi, di fornitura di propri mezzi di trasporto in vece di quelli privati. L'organizzazione deve essere molto elastica, avendo picchi di presenza altissimi e lunghi periodi di assenza totale di visitatori.
In questa sfida però manca un approfondimento sulla natura dei consumi, elemento che inevitabilmente porta a chiedersi quale sia il visitatore e cittadino che il parco ha in mente o vuole promuovere. Per ora, l'impressione è che questo aspetto sia rimosso, che i parchi si accontentino di regolare esteriormente i flussi senza mettere in questione il modello di consumo. Evidentemente, il parco non è un ente etico che abbia una propria precodificata ideologia dell'utente. Ciononostante il problema esiste e comporta impatti effettivi sulla conservazione dei beni naturali e sulla gestione dell'ente.
Ad esempio, ci si potrebbe chiedere se i parchi possono accollarsi alcune idee e progetti che circolano nell'ambito del consumerismo come gli stili di vita improntati alla sobrietà, le filiere corte, la differenziazione spinta dei rifiuti, l'uso di carburanti ecologici o la condivisione di alcuni mezzi, in primis l'auto (Osti 2006). Come il parco possa fare questo senza importunare il turista è ancora da capire, ma senza dubbio la domanda è legittima e la risposta urgente.
In conclusione, il movimento dei parchi si presenta come un grande progetto che deve superare soglie sempre più esigenti, senza trascurare le prime che ha incontrato nella sua storia. Così la soglia della conservazione di lembi di patrimonio naturale e di biodiversità è stata varcata con importanti successi per alcune specie. Quei risultati sono sempre molto precari per l'incombere di nuove minacce speculative, per l'esiguità delle popolazioni animali e vegetali e per le ridotte dimensioni dei parchi.
Anche la soglia della gestione partecipata o negoziata è stata varcata; la governance è un obiettivo che diversi parchi si sono posti e qualche caso ha cercato pure di realizzarla in concreto (Perna 2002); certamente la soglia è stata varcata con una certa dose di leggerezza e quindi sono possibili stalli, arretramenti e soprattutto processi partecipativi puramente simbolici. L'agenda 21 locale e la valutazione ambientale strategica sono strumenti efficaci non immuni però da tali rischi.
Infine, la soglia del confronto con il consumerismo è stata forse varcata senza però una chiara consapevolezza e con esperimenti piccoli e molto timidi. D'altronde è difficile fare proposte innovative in questo ambito quando il mondo celebra la libertà e la crescita nei consumi come la più grande conquista degli individui. I parchi però hanno bisogno di porsi mete ambientali ambiziose e queste includono uno sforzo di coordinamento fra gli individui e un contenimento dei prelievi di risorse a tutti i livelli. Tale sfida sembra passare maggiormente che in passato attraverso l'azione di consumatori responsabili; essi possono trovare nel parco un solido alleato e non solo un ufficio che pone vincoli ed eroga servizi.

Bibliografia
Beato, F. Parchi e società. Turismo sostenibile e sistemi locali, Napoli, Liguori, 1999.
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Ielardi G. (a cura di), Le buone pratiche dei parchi. Idee e progetti per l'Italia, Roma, Federparchi, 2005.
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Pellizzoni, L. Cosa significa partecipare, in Rassegna Italiana di Sociologia, n. 3, 2005, pp. 479-514.
Perna, T. Aspromonte. I parchi nazionali nello sviluppo locale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.
Piccioni, L., Il Volto Amato della Patria. Il Primo Movimento per la Protezione della Natura in Italia 1880-1934, L'uomo e l'ambiente-32, Università di Camerino, 1999.
Sargolini, M. (a cura di), Trasformare/conservare, in Spazio ricerca, n. 5, anno III, 2005.

Giorgio Osti