Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 51 - GIUGNO 2007



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La febbre del pianeta: malattia del secolo

Lo stato di salute della Terra è grave. I sintomi sono chiari e saranno sempre più tangibili.
Passato e presente lasciano pochi dubbi sul futuro.
Il morbo del pianeta è l’uomo.
Quali conseguenze per ecosistemi e biodiversità?
Quale il compito dei parchi?

Il clima: sfida tra le sfide per la nostra civiltà
David King, professore a Cambridge e consigliere del governo britannico per i cambiamenti del clima, nel corso di una lectio brevis tenuta all’Università di Torino in occasione della cerimonia di conferimento della “laurea honoris causa” ha delineato, con la nitidezza di pensiero, la sintesi e la chiarezza tipica della migliore intellighenzia inglese, il “climate change” come “la sfida tra le sfide” del XXI secolo.
Una posizione decisamente condivisibile per chi abbia guardato con la giusta attenzione le indicazioni del termometro del pianeta.
Dalla crescita demografica al problema della gestione delle risorse, dalle pandemie infettive alle modificazioni dell’ambiente, diverse sono le situazioni, inevitabilmente correlate, che metteranno a dura prova le capacità di risposta e di cooperazione dell’umanità nei prossimi anni. Se tutte queste problematiche hanno carattere globale e presuppongono quindi, da un lato, gravi rischi di collasso e, dall’altro, grandi opportunità di crescita e di cambio dei paradigmi della nostra civiltà, il “climate change” sembra avere ancora una marcia in più.
Esso è infatti allo stesso tempo: inesorabile problema a sé stante che richiede misure eccezionali e specifiche, potente catalizzatore degli effetti catastrofici delle altre situazioni critiche e questione intrinsecamente ed univocamente globale (essendo inscindibilmente legato all’atmosfera terrestre che non conosce confini territoriali).
Aggiungiamo alla ricetta una considerazione che in studi recenti sembra emergere con sempre maggiore chiarezza: senza bisogno di risalire al mito di Atlantide, la scomparsa di molte civiltà del passato, dagli abitanti dell’Isola di Pasqua ai Maya in America Centrale, dagli Egizi all’antico Regno di Babilonia, sembra essere strettamente collegata a situazioni ambientali avverse, fortemente influenzate da cambiamenti del clima o catastrofi naturali, in taluni casi, anzi spesso, collegabili direttamente con i comportamenti dell’uomo.
Oggi tuttavia non ci troviamo più di fronte ad una situazione che vede molte civiltà autonome vivere in aree indipendenti. Anche la civiltà è fenomeno globale, da un lato nel “modus vivendi” con l’affermarsi ovunque del paradigma dell’occidente, e dall’altra nel “locus vivendi” che vede non più un pianeta separato in aree relativamente svincolate le une dalle altre, ma un unicum fortemente connesso da sempre più fitte ed efficienti reti di trasporto e comunicazione.
Alla luce di tali considerazioni non pare esagerato pensare che il “global warming” ci ponga davanti alla possibilità di scomparsa della nostra civiltà e della nostra specie dalla terra.
Una prospettiva che non dovrebbe lasciare nessuno indifferente, tantomeno i parchi, il cui compito così ben sintetizzava una frase di Giacomini degli anni ’70: “Dobbiamo lasciare alle generazioni future una civiltà e non degli spazi incontaminati”.

Surriscaldamento e parchi
A livello globale e locale il “climate change” ha già oggi, ma avrà soprattutto domani, un impatto non da poco sulle aree protette. Saranno infatti molte le specie a migrare e scomparire in conseguenza dell’innalzamento delle temperature, alcuni habitat saranno sottoposti a forti cambiamenti e pressioni, con il realizzarsi di tutta una serie di situazioni critiche per la conservazione di natura e biodiversità. Eppure sembra che le aree protette e gli stessi organismi che ne governano le dinamiche a livello nazionale ed internazionale non si occupino molto del “surriscaldamento globale” (o “global warming”). Forse è vero che a guardare quanto è bello il proprio orticello si perde una prospettiva più grande di inquadramento dei problemi che risulta indispensabile per non vanificare sforzi e progetti e per rimanere con i piedi sul pianeta terra e non solo sul proprio zerbino di casa.
Amministratori e dirigenti degli enti parco dovrebbero ricevere una formazione ad hoc sulla questione del surriscaldamento globale, che sarà inesorabile realtà dei prossimi anni con cui avranno a che fare.
Cerchiamo quindi di delineare almeno alcuni elementi base di cultura generale sulla questione, per capirne ragioni e meccanismi, e soprattutto per leggerne segnali e prevederne andamento e conseguenze nel prossimo futuro.
La scienza: un aiuto o un problema in più?
Per far luce su una parte, forse superficiale ma non irrilevante, dei gravi problemi globali del nostro pianeta è interessante osservare il ruolo dello sviluppo scientifico e tecnologico che ha investito la nostra cività negli ultimi cento anni.
Sembra infatti che, se da un lato la scienza ha creato vantaggi e fornito soluzioni, nello stesso tempo abbia contribuito a creare nuovi problemi spesso di carattere globale. Prendiamo per esempio il problema demografico. E’ evidente che l’allungamento della vita media è dovuto in gran parte al progresso della medicina e delle tecniche di intervento chirurgico, tuttavia, pur essendo difficile pensare ad esso in assoluto come ad un fattore negativo, da un punto di vista globale, sembra esserlo. Ciò che a livello individuale pare una grande conquista della scienza, a livello collettivo può diventare un problema.
Accade una dinamica simile per la gestione delle risorse: tecnologia e progresso che pongono alla portata di tutti l’accesso e la possibilità di utilizzare alcune risorse del pianeta ne compromettono seriamente e talvolta irrimediabilmente le riserve per il futuro.
Non troppo differente è anche il problema delle pandemie infettive. Il livello elevato di mobilità raggiunta dall’uomo sulla terra è anche veicolo per le infezioni. Se infatti fino ad un secolo fa un focolaio pandemico era relativamente isolato o isolabile, oggi un’eventuale pandemia si diffonderebbe molto velocemente e con una certa facilità in tutto il pianeta.
Lo stesso vale per le pandemie culturali e comportamentali, forse più frequenti, nocive e dilaganti di quelle infettive.
Tali considerazioni spesso si uniscono nel nostro animo ad un sano attaccamento ai valori della nonna per far nascere un legittimo sentimento di sfiducia ed antipatia per la scienza e la tentazione di riconoscere in essa la fonte dei nostri problemi. Questo non ci impedisce tuttavia di usare il telefonino ad libitum e di scrivere praticamente solo più attraverso la tastiera del nostro computer.
Più che sulla scienza in sé il dito andrebbe puntato su di noi allo specchio, su come abbiamo utilizzato e diretto fino ad oggi quelle notevoli conoscenze scientifiche e tecnologiche maturate nell’ultimo secolo di civiltà.
Il prolungamento della vita media è quello della vita reale di un uomo o semplicemente quello della sopravvivenza di un corpo? La libertà di accedere a luoghi e risorse è una necessità che utilizziamo concretamente per uno scopo utile oppure è un semplice capriccio di bambini cresciuti?
La conoscenza scientifica è al servizio di molti padroni: dal bieco guadagno economico al desiderio di dominazione, dal soddisfacimento di ogni piccolo prurito alla pigrizia più pura e ingiustificabile.
Quasi mai la scienza è utilizzata come tassello per capire più a fondo la radice dei problemi, risultando ingrediente fondamentale di quella sintesi indispensabile (suggerita dall’oriente ormai anch’esso incapace di attuarla) tra via della mente, via del corpo e via del cuore.
Tornare oggi su quella strada pare impossibile, tuttavia si può almeno cercare di utilizzare più autenticamente le conoscenze maturate dall’indagine scientifica per capire ciò che ci è dato di capire nella nostra difficile posizione.

Come funziona il termostato della Terra?
Nel caso del “climate change” la conoscenza scientifica maturata può essere di grande utilità per focalizzarne le ragioni e per prevederne le conseguenze.
Innanzitutto è bene sfatare l’opinione che continua a serpeggiare tra giornalisti, pseudoscienziati e gente comune, secondo cui non si hanno ancora certezze scientifiche in merito al surriscaldamento dell’atmosfera e che esso possa essere dovuto a fattori non dipendenti dalle attività umane.
Oggi abbiamo infatti un elevato grado di evidenza scientifica, confermata e supportata da un’ottima base dati sperimentale, di come funzioni e cosa contribuisca all’effetto serra (principale responsabile del surriscaldamento). Un bagaglio di conoscenze che è bene qui ricordare in sintesi per capire la sostanza del problema.
Innanzitutto se non siamo un mondo di surgelati lo dobbiamo alla presenza del sole: per capirne l’importanza nella vita del pianeta basti pensare che esso fornisce alla terra la quasi totalità dell’energia che le è necessaria (99,998%). Sarebbe sufficiente “spegnerlo” per 10 ore per abbassare la temperatura della terra di circa 20° C.
Tuttavia, se la superficie terrestre assorbisse direttamente l’energia derivante da tutta la radiazione solare, senza nessun meccanismo intermediatore, la sua temperatura oscillerebbe nelle 24 ore in modo vertiginoso, intorno ad una media di -19°C, rendendo proibitive le condizioni di vita sul pianeta.
L’elemento “intermediatore” essenziale per la termoregolazione del nostro pianeta è l’atmosfera: una banda stratificata di gas che ricopre stabilmente la superficie terrestre, proteggendoci dalle radiazioni ultraviolette e mitigandone il clima (Fig.1)
Ruolo di particolare rilievo è svolto dalla troposfera, lo strato di atmosfera più vicino alla superficie terreste (si estende da 0 fino a circa 10-12 km), dove hanno luogo tutti i principali fenomeni meteorologici e che costituisce il vettore principale di spostamenti rapidi di calore, a livello locale, regionale e continentale, da zone in cui è in eccesso a zone dove è in difetto. Gli altri elementi significativi del sistema di termoregolazione del pianeta sono: l’oceano che funziona da volano del clima immagazzinando l’energia solare grazie all’elevata capacità termica dell’acqua, la geosfera che assorbe ed emette in modo differenziato a seconda delle caratteristiche peculiari delle aree di superficie terreste, ed infine la biosfera (uomo incluso) che influenza il clima principalmente tramite ciclo del carbonio e ciclo dell’acqua e diversi meccanismi di retroazione che può innescare.
Analizziamo ora in modo semplificato la dinamica energetica del sistema sole-atmosfera-terra, cercando di fotografarne l’attuale stato di equilibrio (Fig.2).
Della radiazione solare incidente circa il 30% viene riflesso da atmosfera e superficie terrestre, il restante 70% viene assorbito dal sistema terra e atmosfera. La radiazione solare arriva sotto forma di onde elettromagnetiche “corte” (ovvero con frequenza soprattutto nel campo visibile tra 0,4 e 0,7 micron) viene assorbita da terra ed atmosfera che, riscaldandosi, riemettono energia sotto forma di radiazione infrarossa (ovvero a onde elettromagnetiche “lunghe”, prevalentemente tra 5 e 25 micron).
La temperatura del sistema terra-atmosfera aumenta fino a quando non si raggiunge uno stato per cui la radiazione uscente bilancia completamente la radiazione entrante: il sistema è in equilibrio.
In assenza di atmosfera tutta la radiazione solare arriverebbe direttamente sulla superficie terrestre e tale equilibrio si raggiungerebbe, come accennato in precedenza, ad una temperatura media di circa -19°C.
E’ la presenza dell’atmosfera che, pur schermando una parte della radiazione incidente, sposta il punto termico di equilibrio per la superficie terrestre a circa 15°C di temperatura media.
Questo fatto paradossale e di importanza assoluta per la nostra vita quotidiana avviene grazie all’ormai celebre “effetto serra”, il cui nome deriva dal suo funzionamento che è assimilabile a quello di una serra in cui l’atmosfera svolge il ruolo del vetro.
L’atmosfera infatti risulta quasi trasparente alla radiazione incidente ad onde corte (così come il vetro alla luce) e decisamente opaca alla radiazione uscente a onde lunghe (così come il vetro al calore). Ciò che accade è quindi che l’atmosfera (ed in particolare la troposfera) assorba la radiazione infrarossa terrestre scaldandosi e riemettendo successivamente calore in ogni direzione, anche verso la superficie della terra stessa. Questo meccanismo dà vita ad una radiazione di ritorno verso la superficie terrestre.
In modo analogo a quanto discusso precedentemente si raggiunge un punto di equilibrio del sistema terra-atmosfera quando la radiazione emessa dalla superficie terrestre è uguale alla somma di quella assorbita direttamente dal sole e quella proveniente dall’effetto serra. In realtà per far quadrare il bilancio è necessario tener conto anche dei processi di conduzione termica tra gli strati di aria e di tutti quei processi fisici e biologici legati al ciclo dell’acqua che possiamo raggruppare sotto l’insegna unica di evapotraspirazione (Fig.2).
L’effetto serra è quindi un meccanismo molto utile e perfettamente naturale, determinato da alcuni gas minoritari, presenti come tracce nell’atmosfera che hanno un’alta capacità di assorbimento/emissione della radiazione infrarossa. Il più celebre di questi gas è l’anidride carbonica (CO2) ed ha non pochi complici: il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), i clorofluorocarburi (CFC), gli idroclorofluorocarburi (HCFC), gli idrofluorocarburi (HFC), i perfluorocarburi (PFC), l’esafluoruro di zolfo (SF6), gli aerosol atmosferici (particolato), l’ozono (O3) ed il vapore acqueo (Fig.3).
Ognuno di questi gas contribuisce ad alzare il termostato del pianeta in misura diversa in funzione di molteplici fattori: concentrazione, capacità di assorbimento-emissione della radiazione termica a onda lunga, vita media, capacità di interagire con altri elementi atmosferici, etc…
Per confrontare il contributo dei singoli gas all’effetto serra viene definito il “potenziale di surriscaldamento globale” (GWP ovvero “Global Warming Potential”) per ognuno di loro. Esso è un coefficiente numerico che tiene conto dell’orizzonte temporale (e quindi della vita media in atmosfera) e che viene calcolato prendendo come termine di paragone la CO2 (Tab.1).
Per fare un esempio, sull’orizzonte temporale di 100 anni (quello normalmente preso come punto di riferimento) il contributo all’effetto serra di un kg di metano è equivalente a quello di 23 kg di CO2.
Da uno sguardo alla tabella sembrerebbe quindi che l’anidride carbonica sia il gas potenzialmente meno pericoloso per il surriscaldamento globale. Ciò è vero solo a parità di concentrazioni. In realtà, trovandosi la CO2 in concentrazioni anche 10 milioni di volte superiori agli altri gas, è l’elemento che in assoluto contribuisce maggiormente all’incremento dell’effetto serra.

Il fattore “uomo” e il fattore “carbonio”
Che l’uomo sia un essere invadente è un dato di fatto che non ha bisogno di esempi o spiegazioni per essere riconosciuto. Forse non è troppo lontano dal vero l’Agente Smith del film Matrix quando conclude che l’uomo, per il suo modo di diffondersi e spolpare le risorse naturali, è un virus per il pianeta.
E’ l’attività di questo virus ad essere la causa delle febbre della terra, che sta inesorabilmente salendo. Non ci resta che sperare che la guarigione non preveda l’eliminazione del virus, ma un nuovo equilibrio simbiotico con esso. Risultato che sicuramente dipende anche da noi. L’uomo attraverso la sua azione sta attualmente cambiando la composizione dell’atmosfera e modificandone di conseguenza le capacità termiche e termodinamiche. In particolare sta contribuendo all’accumulo nell’atmosfera di concentrazioni più elevate di alcune tra le sostanze che contribuiscono all’effetto serra e la conseguenza è un “effetto serra aggiuntivo”, causa principale dell’odierno surriscaldamento del pianeta.
Sono i numeri in tal senso a parlare chiaro. Negli ultimi 250 anni la CO2 in atmosfera è cresciuta del 36% (e del 10% negli ultimi 15 anni), il metano del 250% e l’N2O del 16%. Gli idrocarburi alogenati (CFC, HCFC, etc…) erano addirittura praticamente assenti in atmosfera prima degli anni ‘50, ed hanno avuto una tale impennata da costituire una seria minaccia (il celebre “buco dell’ozono”) allo strato di ozono stratosferico (da non confondersi con quello troposferico che risulta essere un gas serra) che ci protegge dalla radiazione ultravioletta proveniente dal sole.
Grazie al Protocollo di Montreal (1987) che ha messo al bando gran parte di essi a livello internazionale la loro concentrazione è oggi in diminuzione e la situazione dell’ozono stratosferico è in fase di netto miglioramento.
Anche le concentrazioni atmosferiche di metano, pur continuando ad aumentare, mostrano dagli anni ‘90 una flessione nel tasso di crescita. Fatto confortante anche se non risolutivo, da un lato perché non se ne conoscono a fondo le ragioni, dall’altro perché si valuta che vi siano notevoli quantità di CH4 imprigionate nel permafrost che con il surriscaldamento globale potrebbero essere liberate in atmosfera. Essendo alto il GWP del metano, un aumento della sua concentrazione produrrebbe quindi un ulteriore e considerevole incremento dell’effetto serra (è questo un esempio di meccanismo retroattivo di alimentazione del surriscaldamento).
In ogni caso, come già accennato, il gas che attualmente contribuisce di più all’incremento dell’effetto serra (in una misura intorno al 55%) è la CO2 (Tab.2).
Tra l’altro abbiamo un’eccezionale serie di monitoraggio della concentrazione di CO2 in atmosfera grazie all’entusiasmo di un giovane chimico, David Keeling, che nel 1958 mise a punto un nuovo e più preciso metodo per la misurazione dell’anidride carbonica e convinse l’US Weather Bureau ad installare una stazione di rilevamento presso l’osservatorio costruito a 3000 metri sul Mauna Loa, un vulcano della Grande Isola di Hawaii. La curva di Keeling (Fig.4) mostra chiaramente l’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera dal 1958 ad oggi e mette in evidenza come il tasso di crescita continui a salire.
Tale aumento è dovuto oggi per il 70% alla combustione di combustibili fossili e per il restante 30% a deforestazione, uso del suolo e agricoltura.
Sono questi quindi i campi su cui occorre intervenire con maggiore tempestività.

Segnali chiari da un passato remoto. La paleoclimatologia.
Un aiuto a capire la situazione attuale ci viene dalla possibilità di leggere il passato più remoto. La paleoclimatologia, attraverso lo studio di sedimenti e carotaggi delle zone glaciali, permette di analizzare la temperatura media e la concentrazione di gas serra dell’atmosfera terrestre di centinaia di migliaia di anni fa. Una delle scoperte più importanti in tale campo è costituita dalla lettura delle stratigrafie delle carote di ghiaccio prelevate in Groenlandia e nell’Antartico (Fig.5 e 6). Le informazioni più significative rinvenute di recente sono forse quelle contenute in una carota di ghiaccio antartico (lunga più di 3,5 km) estratta a Vostok tra il 1990 ed il 1998. Tali dati dimostrano come negli ultimi 420.000 anni la temperatura abbia oscillato regolarmente con una periodicità di 130.000 - 140.000 anni passando attraverso fasi alterne di glaciazione e di surriscaldamento (Fig.7 – curva inferiore) e che stiamo per uscire da tale tendenza e raggiungere una situazione che non ha precedenti nella storia geologica recente. In parallelo alla fluttuazione della temperatura si può considerare con la medesima scala temporale la fluttuazione della quantità di anidride carbonica (CO2) presente in atmosfera (Fig.7 – curva superiore). Tale confronto evidenzia, a conferma di quanto detto in merito al ruolo della CO2 e dell’effetto serra, come l’andamento della temperatura e quello della concentrazione di CO2 siano strettamente correlati.
Osservando ora l’andamento della CO2 avvicinandoci ai giorni nostri, noteremo come l’attuale valore, che si attesta intorno ai 383 ppm (2006), sia completamente fuori dal range di oscillazione degli ultimi 420.000 anni.
Tramite un’analisi degli isotopi di ossigeno presenti nei sedimenti marini si riesce a risalire alle concentrazioni di CO2 presenti in atmosfera fino a qualche milione di anni fa. Si ha così ragione di ritenere che una concentrazione di anidride carbonica pari a quella odierna sia stata raggiunta l’ultima volta oltre 3 milioni di anni fa, durante il Pliocene superiore, quando il nostro parente più stretto era un bipede non permanente (alternava andature a 2 e 4 zampe) poco più alto di un metro: l’Homo habilis che si estinse di lì a poco lasciando qualche eredità genetica al suo successore l’Homo herectus.
Un dato di fatto questo che non può lasciarci indifferenti perché segnala senza ombra di dubbio la singolarità della situazione attuale, cancellando con un netto colpo di spugna ogni possibile obiezione di chi voglia far rientrare i cambiamenti in corso nella norma delle “oscillazioni ordinarie naturali”.
Tale pronunciata deviazione della CO2 ha inizio intorno al 1800, chiaramente con l’avvento dell’era industriale, ed è dovuta quindi alle emissioni derivanti dall’attività antropica.
Tuttavia l’evidenza di questo fatto è solo conquista recente. La ragione è che il parametro da noi direttamente percettibile e misurabile non è la concentrazione della CO2, bensì il cambio della temperatura dell’atmosfera. Grazie alla latenza del sistema, che peraltro ci ha salvati da un surriscaldamento troppo repentino, tale deviazione interviene con un ritardo per noi notevole (più di 150 anni) rispetto alla deviazione dell’anidride carbonica.
Se infatti consideriamo due modelli teorici per il calcolo della temperatura atmosferica (Fig.8), il primo che includa i soli effetti naturali ed il secondo che includa anche gli effetti antropici, possiamo osservare una significativa differenza tra i due solo a partire dagli anni ’70 del Novecento. Se ora fissiamo l’attenzione sulla temperatura effettivamente misurata, è evidente un’aderenza indubbia dei dati degli ultimi 30-40 anni al secondo modello.
E’ sufficiente tale considerazione per asserire con certezza che il global warming è una realtà già in corso, scientificamente misurabile e inesorabilmente certa.
Se poi, utopicamente, smettessimo di emettere CO2 nell’atmosfera a partire da domani, la già citata latenza lunga del nostro sistema farebbe sì che il trend nei prossimi decenni sarebbe comunque di una rilevante crescita della temperatura.
Detto ciò non resta che cercare di definire di quanto si scalderà il pianeta e di delineare differenti scenari in funzione del nostro comportamento nel prossimo futuro.

Modelli e previsioni. Quanto si scalderà il pianeta? Quali le conseguenze?
I modelli teorici per la previsione della temperatura media sono ormai molto sofisticati ed affidabili, inoltre la potenza raggiunta di computazione da parte dei cosiddetti “super-computer” è tale da poter processare in parallelo moli di dati enormi tenendo conto di molti, se non tutti, i fattori principali responsabili di emissioni di CO2 (comprese eruzioni vulcaniche, terremoti, etc…).
Il miglior modo attraverso cui tali modelli possono rispondere a quanto sarà il surriscaldamento del pianeta è una curva di distribuzione della probabilità di aumento della temperatura media in funzione della concentrazione atmosferica di CO2 raggiunta (Fig.9). E’ chiaro che tale curva andrebbe corretta in funzione anche delle variazioni degli altri gas serra. Tuttavia considerati i trend cui abbiamo accennato degli altri gas, il peso dell’anidride carbonica sull’effetto serra è destinato ad aumentare, per cui la curva può essere considerata una buona stima dell’aumento della temperatura media. Leggendo la distribuzione osserviamo che è lecito prevedere un innalzamento della temperatura nel prossimo futuro tra i 2°C ed i 3,8°C se riusciremo a rallentare le emissioni in modo tale che il valore limite toccato dalla concentrazione della CO2 sia fissato intorno ai 450 ppm.
Un valore ritenuto da molti (tra cui il già citato prof. King) la soglia più ragionevole cui puntare come obiettivo, anche se tale limite pare molto difficile da mantenere dal momento che implicherebbe un’azione forte ed immediata per ridurre drasticamente le emissioni.
Sembra più probabile, visti i tempi lassi, lo scarso pragmatismo e l’attenzione non concreta da parte della politica mondiale a questi problemi, che si raggiungano nei prossimi anni valori ben superiori di concentrazione di CO2.
Un’ipotesi (non certo la peggiore) che veda per esempio la stabilizzazione della concentrazione di CO2 a 750 ppm, comporterebbe un innalzamento della temperatura media compreso tra 3,5°C e 7°C: un’evenienza che risulterebbe catastrofica sotto molti punti di vista.
Forse il problema più grave sarebbe costituito dallo scioglimento dei ghiacci e dalle sue conseguenze. Si calcola infatti che, se tutti i ghiacci si sciogliessero, l’innalzamento del livello del mare sarebbe impressionante: in determinate aree fino a 6,5 metri in più del livello attuale.
L’innalzamento medio del mare è anch’esso un fenomeno già osservabile, seppur in misura contenuta (il tasso medio attualmente si aggira sui 3mm all’anno). Tuttavia è difficile fare previsioni a medio e lungo termine sulla sua evoluzione soprattutto per la difficoltà di valutare la velocità di scioglimento dei ghiacci, evento che si sta rivelando più rapido rispetto alla previsione dei modelli attualmente in uso. Ciò è in parte dovuto ad un fenomeno molto particolare e spettacolare: la formazione di profondi pozzi nella calotta glaciale attraverso cui l’acqua si inabissa fino alla sua base dove incontra il suolo sottostante (Fig.10). L’acqua al termine della sua caduta tende a scorrere sulla superficie della roccia sottostante la calotta staccando dalla base grosse porzioni di ghiaccio e favorendone lo scivolamento verso il mare.
Una dinamica imprevista che accelera notevolmente lo scioglimento.
Ciò che è certo è che uno dei fenomeni più problematici che ci attendono nei prossimi anni in conseguenza del cambio del clima sono grandi inondazioni.
A seconda dei differenti valori di stabilizzazione della CO2 gli scenari a livello globale e locale sono comunque allarmanti: milioni e milioni di persone coinvolte e molte grandi città ad alto rischio (per citarne solo alcune: Londra, New York, Shangai, Tokyo e Hong Kong).
L’uragano Katrina che nel 2005 ha messo in ginocchio New Orleans, non è stato che un assaggio di ciò che probabilmente ci attende nei prossimi anni.
Le zone a più elevato rischio sembrano essere le coste di Africa, India, Asia Meridionale, Golfo del Messico ed Oceania settentrionale.
Tuttavia anche l’Europa non è certo al sicuro. Per esempio gli scenari illustrati dal prof. King per la Gran Bretagna mostrano un alto rischio di inondazioni, nella migliore delle ipotesi per le aree di Londra, Cardiff e Manchester. Nell’ipotesi peggiore di surriscaldamento praticamente tutto il territorio inglese risulterebbe ad alto rischio. E proprio mentre sto scrivendo (luglio 2007) il telegiornale mostra incredibili immagini di gravi inondazioni che hanno messo in ginocchio la Gran Bretagna in questi giorni. I progettisti olandesi, che non dimentichiamoci essere i figli di coloro che hanno fermato e fatto arretrare il mare con il sistema di regimazione delle acque più complesso e sofisticato al mondo, oggi hanno iniziato a realizzare costruzioni in grado di galleggiare. Nella città di Maasbommel dall’autunno 2004 è stato completato un progetto pilota di “case anfibie” che, ormeggiate ad un palo di acciaio e in grado di galleggiare con l’arrivo dell’acqua, permettono di vivere ed abitare in zone che almeno periodicamente si troveranno sommerse.
Segnali forti che dovrebbero indurre soprattutto i nostri politici a pensare ed agire. Anche se pare più probabile che tali evidenze vengano ignorate, così come è stato per le tre emergenze individuate per gli Stati Uniti dalla FEMA (Federal Emergency Management Agency) a fine anni ‘90: un attacco terroristico a New York, un uragano catastrofico a New Orleans e un terremoto disastroso a San Francisco. Funesta premonizione in tre atti di cui due sembrano già compiuti.
Non sempre si può dire “meglio tardi che mai”.

Geopolitica della CO2
Una domanda che sorge spontanea è: come contribuiscono le diverse nazioni al “global warming”? O più semplicemente alle emissioni di CO2?
Per rispondere a tale domanda e delineare un quadro geopolitico mondiale della situazione, si può pensare di costruire un grafico che abbia su un asse il valore delle emissioni pro capite e sull’altro il numero di abitanti di ogni paese (Fig.11): l’area dei singoli rettangoli che si vengono così a costruire rappresenta il contributo dei corrispondenti paesi alle emissioni di CO2.
Si evidenzia in tale maniera, da un lato come i paesi con le economie occidentali, ed in particolare gli Stati Uniti, abbiano livelli di emissione pro capite molto superiori (anche 10 volte) a quelli degli altri paesi, dall’altro come sia significativo il contributo di paesi come la Cina o l’India a causa della loro immensa popolazione.
Proprio la situazione di Cina ed India è destinata a breve a diventare quella più problematica. E’ chiaro infatti che lo sviluppo accelerato su modello occidentale cui si sono votati questi paesi negli ultimi anni porterà rapidamente ad aumentare le emissioni pro capite che, moltiplicate per il numero di abitanti, saranno fonte di un nuovo enorme fattore d’impatto.
Per questo viene da pensare che, senza un immediato impegno da parte di questi paesi, sia realisticamente impossibile costruire un percorso di stabilizzazione della concentrazione dell’anidride carbonica per contenere il surriscaldamento.
Ma il problema è molto più complesso ed ha radici in atteggiamenti politici irresponsabili, per non dire criminosi che portano l’attenzione sul terreno minato dell’ingiustizia sociale del nostro pianeta.
Perché mai infatti Cina ed India dovrebbero accettare i costi necessari a controllare le loro emissioni quando gli Stati Uniti, in una posizione sicuramente più favorevole, si sono rifiutati di farlo, non aderendo al Protocollo di Kyoto?
La risposta a questa domanda va anche al di là della giustizia sociale perché vede comparire lo spettro dell’estinzione della nostra specie attraverso la deriva, se nessuno agirà mosso da qualcosa che non sia solo il tornaconto diretto, verso un folle e cieco meccanismo di autodistruzione.
Se non faremo grandi passi avanti nel campo della cooperazione internazionale, con l’obiettivo di trovare soluzioni globali che vadano nella direzione di una maggiore giustizia sociale, qualsiasi sforzo per ridurre le conseguenze del surriscaldamento molto probabilmente sarà vano.
Alcuni tra gli studi più recenti di ecologia hanno mostrato come passaggi evolutivi chiave che hanno permesso grandi cambiamenti ed innovazioni sono avvenuti non sulla spinta della ben nota lotta per la sopravvivenza, ma grazie alla maturazione di meccanismi di cooperazione tra organismi viventi.
Politica ed economia di oggi non sembrano voler comprendere questo importante dato di fatto che lo studio della natura mette a nostra disposizione e restano ancorate a meccanismi di lotta e di sopraffazione.
Molto c’è da imparare dai sistemi ecologici (quelli che i nostri parchi cercano di tutelare) però dobbiamo risvegliare la nostra capacità di osservare e collegare concretamente ciò che osserviamo con le scelte e le azioni che compiamo.

Come reagisce la biosfera? Cosa fanno piante e animali?
Se non avessimo perduto un reale contatto con la natura probabilmente potremmo iniziare a rilevare i cambiamenti del clima senza ricorrere a complicate analisi di flussi e meccanismi energetici del pianeta, ma semplicemente osservando ed ascoltando la voce degli ecosistemi.
Un’attitudine che neanche i parchi sembrano essere in grado di preservare.
Per accorgerci di qualcosa siamo costretti a leggere sui quotidiani che piante russe e scandinave, per trovare un po’ di fresco decidono di affrontare un viaggio di circa 500 km a bordo di uccelli, tronchi ed iceberg, per andare in ferie alle Isole Svalbard, ultimo baluardo di terra verso l’Artide.
E’ così che hanno fatto migrando il camedrio alpino (Dryas octopetala, Fig.12), una splendida rosacea che come rivela il nome si trova anche sulle Alpi, il lampone artico o camemoro (Rubus chamaemorus) e la Cassiope tetragona, una robusta ericacea sempreverde dalle campanule bianche.
Tuttavia non è necessario cercare casi così lontani ed estremi, basterebbe un po’ più di attenzione per accorgersi per esempio che le nostre fioriture (come peraltro è stato rilevato da numerose ricerche non solo in Europa, ma anche in America e Giappone) avvengono in media con 10-15 giorni di anticipo e che la mietitura del grano si effettua anche un mese prima rispetto al passato.
Qualcuno sostiene che tali fluttuazioni siano nell’ambito di una variabilità non riconducibile al cambio del clima. E’ vero che qualche segnale in controtendenza c’è ed anche che non sempre i dati vengono letti correttamente dal momento che si tende talvolta, anche in buona fede, a voler mostrare correlazioni inesistenti.
Tuttavia a me pare che un buon numero di ricerche e soprattutto un significativo numero di specie vegetali campionate in molte parti del pianeta mostrino tendenze di carattere generale degli ecosistemi, come ad esempio quella di spostarsi verso quote più elevate in ambito montano, o di migrare verso latitudini maggiori o ancora di fiorire in anticipo. Tali fatti non sembrano riconducibili né a fluttuazioni locali o stocastiche, né a fattori altri se non un cambiamento globale della temperatura che, come già detto, è un dato di fatto scientificamente provato. Proprio per questo motivo, l’interesse di studiare tali reazioni della biosfera non è tanto quello di fornire un’ulteriore prova del surriscaldamento planetario, quanto quello di rilevare reattività e modificazioni di habitat ed ecosistemi in conseguenza del “global warming”. Un’analisi che dovrebbe permetterci di delineare scenari e previsioni per il prossimo futuro affinché si possa intervenire con maggiore efficacia a tutela delle specie a rischio.
In ambito alpino uno studio comparativo di dati storici e dati recenti relativi alla composizione floristica di aree circoscritte di alta quota poco influenzate dall’uomo ha dato risultati convincenti in Svizzera ed Austria. In Italia, sul versante meridionale del Pizzo Bernina, di recente è stata evidenziata la comparsa di più di 40 specie vascolari non segnalate in precedenza, di cui ben 10 appartenenti a fasce fitoclimatiche inferiori. In particolare sono stati ritrovati fino a 2500 metri di altitudine esemplari di salice rosso (Salix purpurea) e di epilobio (Epilobium angustifolium).
In ambito appenninico dove le quote e le latitudini sono minori, sembra ci si debba attendere non solo una risalita delle specie verso quote più elevate, ma anche una cospicua estinzione locale di taxa (alcune proiezioni parlano della scomparsa del 50% delle specie attualmente presenti entro il 2100) che non troveranno più in vetta condizioni di crescita favorevoli o che non saranno in grado di effettuare una migrazione sufficientemente rapida. Sembra essere questo il destino in Abruzzo del Salix herbacea, un salice nano con fusto sotterraneo che in estate presenta piccole foglie e rade infiorescenze appena sopra la superficie del suolo.
Una tecnica di osservazione della vegetazione che offre l’opportunità di quantificare con maggiore precisione le risposte delle singole specie, ma che richiede un tempo lungo per essere implementata significativamente, è lo studio diacronico di quadrati permanenti campione. E’ quanto si propone il progetto mondiale GLORIA (Global Observation Research Initiative in Alpine Environment) che ha l’obiettivo di valutare le potenziali minacce dei cambiamenti climatici sulla biodiversità vegetale di alta montagna. In ambito Europeo, GLORIA-Europe, le aree campione sono 18 e interessano i maggiori massicci montani e ben 13 nazioni. Per ogni area è previsto lo studio di 4 vette e per ogni vetta vengono individuati 16 quadrati di un metro quadro di estensione posti lungo le principali direzioni geografiche. Un lavoro non indifferente. La prima fase del progetto svoltasi tra 2001 e 2003 ha permesso per ora la definizione dello stato di partenza delle aree, tramite il rilevamento in dettaglio delle specie vascolari presenti. Bisogna ora aspettare la nuova campagna di raccolta dati a circa 10 anni di distanza per valutare le differenze.
Passando alla fauna le cose si complicano ulteriormente.
Le dinamiche delle popolazioni faunistiche sono infatti molto più complesse e forniscono rapide risposte a fattori molto differenti (parassitosi, predazione, clima, disturbo antropico, perdita o frammentazione degli habitat, etc…) per cui risulta molto difficile individuare univoche e plausibili relazioni causa-effetto. E’ importante quindi usare una grande cautela nel trattare i dati rilevati in ambito faunistico per evitare di attribuire le anomalie osservate in modo infondato e forzato al cambio del clima.
Un tale atteggiamento che talvolta si riscontra in alcuni studi non fa altro che alimentare dubbi e perplessità degli addetti ai lavori e togliere credibilità a chi invece cerca con fondamento di rilevare modificazioni dovute almeno in parte al surriscaldamento. Detto ciò, paiono interessanti alcuni studi sull’avifauna. E’ un dato di fatto che nel Nord Europa ed in America, ma anche nell’area mediterranea, molte specie migratorie si spingano sempre più a nord rispetto alle loro abitudini, anticipando il loro arrivo primaverile e ritardando la loro partenza in autunno.
Inoltre, per alcuni migratori, soprattutto di lunga distanza, il cambio del clima crea una discordanza tra la disponibilità di cibo e l’arrivo degli uccelli sui siti, facendo scarseggiare o mancare le risorse alimentari di cui essi hanno necessità. Ciò può comportare un drammatico declino di alcune popolazioni. E’ quello che sembra accadere al culbianco (Oenanthe oenanthe) in Olanda dove il clima ha cambiato in modo sostanziale la dinamica delle dune costiere facendo calare la presenza di coleotteri e farfalle di cui questa specie si nutre. Oppure alla cinciallegra (Parus major) in Svizzera dove le modificazioni del ciclo vegetazionale, dovute al cambio di temperature e precipitazioni correlate con gli indici del NAO (North Atlantic Oscillation) e del NCO (North Sea-Caspian Oscillation), ne hanno compromesso tutta la fase di nidificazione e riproduzione. In Italia non ho ancora letto di casi eclatanti di correlazione diretta tra andamento o comportamento di specie avifaunistiche e cambio del clima. Esistono molti studi che sembrano avere ancora la necessità di confronto con altre serie di dati per evidenziare o confermare una tale correlazione.
Le principali cause di criticità per l’avifauna nelle nostra penisola sembrano essere l’intensificazione delle produzioni agricole e dell’uso di prodotti chimici, nonché la diminuzione di ambienti e zone di transizione tra le coltivazioni. Infatti la Lipu, denuncia da tempo il declino soprattutto delle specie degli ambienti agricoli. Una flessione che interessa il 40% delle specie monitorate sul quinquennio 2000-2005 (progetto MITO2000), con percentuali di diminuzione intorno al 5% annuo. Specie come lo strillozzo (Miliaria calandra) o l’averla capirossa (Lanius senator) sono localmente estinte nelle zone agricole della Pianura Padana.
Tuttavia è praticamente certo che l’avifauna di montagna, per esempio i tetraonidi come la pernice bianca (Lagopus mutus) o il fagiano di monte (Tetrao tetrix, Fig.13), subirà una forte pressione in conseguenza dei cambiamenti riscontrati a livello vegetazionale in ambito montano. Proprio in tal senso si orienta un progetto di ricerca della Regione Piemonte sulla dinamica delle popolazioni di fagiano di monte nelle aree dei parchi regionali: Orsiera-Rocciavré, Veglia-Devero ed Alta Valle Pesio e Tanaro. I risultati si avranno nel settembre 2009.
Anche molti insetti, dalle farfalle europee alle zanzare delle Florida, sembrano migrare un po’ in tutto il pianeta seguendo lo spostamento di habitat e vegetazione. Sintomatico l’esempio italiano della diffusione della processionaria dei pini (Thaumetopoea pityocampa, Fig.14) in ambito alpino. La specie in questione è una farfalla tipica dell’ambiente mediterraneo che deposita le uova sui pini. Lo sviluppo invernale delle larve è una vera calamità che produce danni rilevanti alle piante (arrivando a distruggere interi boschi) e fastidi non indifferenti all’uomo: al contatto provoca spesso reazioni allergiche ed irritazioni cutanee, oculari e respiratorie.
Fino a qualche decennio fa, il limite settentrionale della diffusione di tale insetto era costituita dalla riviera ligure e dalla costa sud della Francia. Ora troviamo la processionaria nelle Alpi, come rivela uno studio condotto da un gruppo di ricercatori italiani in collaborazione con la Cornell University americana e numerose osservazioni recenti nei parchi alpini, dove attacca le conifere montane fin oltre i 1500 metri di quota. Particolarmente sensibili al cambio clima risultano essere anfibi e rettili, animali a sangue freddo le cui funzioni vitali e l’idratazione sono regolate da temperatura esterna, umidità e disponibilità d’acqua.
Caso tristemente celebre è quello dello splendido rospo dorato (Bufo periglenes, Fig.15) delle foreste del Costa Rica, che non è più stato avvistato dal 1989 e si ritiene sia oggi estinto a causa del cambiamento del regime delle precipitazioni nella foresta pluviale.
Sorte simile, sempre in Costa Rica, sembra riguardi ormai circa il 70% delle 110 specie di rana arlecchino (Atelopus) aggredite da un fungo patogeno la cui diffusione è dovuta al clima più caldo. In serio pericolo è anche la fotogenica rana dagli occhi rossi (Agalychnis callidryas), ma l’elenco delle specie di anfibi e rettili in pericolo nel mondo è molto lungo (troppo per essere qui analizzato in dettaglio) e vede tra le sue fila dalle tartarughe dei mari caldi e temperati ai coccodrilli di Asia e Filippine, da rane e rospi di tutto il pianeta alle salamandre americane ed europee, dal proteo (Proteus anguinus, Fig.16) delle grotte del Carso ai geotritoni della nostra penisola.
I mammiferi dispongono sicuramente di una maggiore capacità di adattamento di anfibi e rettili: migrano o modificano il loro comportamento per adeguarsi alle nuove condizioni ambientali che il cambio del clima determina. Ad esempio la marmotta dal ventre giallo (Marmota flaviventris) in Canada ha ridotto il periodo di letargo in funzione della riduzione della durata di freddo invernale.
Tuttavia l’adattamento non è privo di rischi, insidie e problemi: possono insorgere modificazioni del ciclo riproduttivo che ne compromettano il successo, può verificarsi una situazione in cui migrare risulti impossibile per la frammentazione elevata del territorio causata da urbanizzazione, infrastrutturazione e agricoltura, o ancora può venire meno la disponibilità del quantitativo di risorse alimentari sufficiente a sopravvivere. Quest’ultimo è il caso dell’orso bianco polare (Ursus maritimus, Fig.17), specie simbolo la cui popolazione è in calo da molti anni, nonostante viga dal 1973 una severa convenzione internazionale per la sua protezione che è stata scrupolosamente osservata da tutti i paesi che si affacciano sull’Artico e dalle popolazioni inuit che vivono le aree polari. La causa principale è la difficoltà a reperire cibo dovuta alla frammentazione dei ghiacci polari conseguente all’innalzamento della temperatura. Una situazione critica che ha dato vita addirittura ad episodi di cannibalismo tra gli orsi. Un risultato sorprendente che viene da recenti studi condotti sempre in Canada è che piccoli mammiferi come lo scoiattolo rosso americano (Tamiasciurus hudsonicus) sembrano in grado di compiere in poche generazioni delle mutazioni genetiche per adattare i loro comportamenti a nuove condizioni ambientali. Una capacità che amplifica le capacità di adattamento dei mammiferi e che si pensava riservata ad animali a vita breve, come insetti e microrganismi, le cui generazioni si susseguono con grande rapidità. Un discorso a parte andrebbe fatto per l’impatto del surriscaldamento sugli ecosistemi marini e costieri dove si registrano cambiamenti allarmanti: dalle modifiche di plankton e riserve bentoniche conseguenti allo scioglimento dei ghiacci nei mari del Nord, ai cambiamenti del nostro Mediterraneo di cui sono diretto testimone. Chiunque frequenti le acque del Mar Ligure, dello Ionio e del Tirreno può infatti riscontrare la presenza sempre più invadente, dovuta all’indubbio aumento della temperatura dell’acqua, di specie della fauna marina tropicale come il barracuda “mediterraneo” (Sphyraena viridensis) e altri appartenenti al genere Sphyraena (Fig.18), i pesci balestra (Balistidae) o il pesce pappagallo (Sparisoma cretense).
Uno scenario complessivo che sembra molto critico per quella conservazione della biodiversità che viene sbandierata come priorità, ma che nella realtà finora non sembra riuscire a spostare le scelte ad essa più dannose di politica ed economia mondiale.
Gli scenari futuri delineati da diversi studi di impatto del cambio del clima prevedono una consistente perdita di biodiversità marina e terrestre con percentuali di estinzione allarmanti che variano dal 20-30% ad oltre il 50% delle specie in funzione dell’aumento delle temperatura media ovvero del valore di stabilizzazione della CO2.

Prospettive per parchi e Rete Natura 2000. Impatti diretti e indiretti
Gli interrogativi sono tanti, difficili e inquietanti, a scala regionale, nazionale e internazionale. Da un lato, come può una realtà tutto sommato marginale come quella dei parchi porsi di fronte al problema del secolo? Dall’altro come possono i parchi operare per un equilibrio ambientale del territorio, trascurando il più grande cambiamento del clima della terra probabilmente da 3 milioni di anni a questa parte?
Domande di fondo quanto mai lecite, che fanno intuire quanto problematico sia, debba essere e sarà il cambio del clima per le aree protette. Ci sono almeno due livelli di lettura di queste domande e due conseguenti livelli di risposta che possono fornire spunti interessanti per pensare e per agire.
Si può infatti considerare il problema sotto l’aspetto degli impatti diretti oppure sotto quello degli impatti indiretti, considerando in entrambi i casi, sia quelli che il cambio del clima può avere sui parchi che, viceversa, quelli che i parchi possono avere sul problema del “global warming”.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, il surriscaldamento ha ed avrà una serie di conseguenze dirette sugli ecosistemi: migrazioni di piante ed animali, aumento del rischio di estinzione per alcuni habitat e specie, etc…
Questioni che vanno sicuramente approfondite ed indagate, con opportuni programmi di monitoraggio e studi che permettano di fare previsioni a livello locale sull’andamento degli ecosistemi. Un compito difficile che vede coinvolte soprattutto le università e gli istituti di ricerca, che dovrebbero avvalersi della collaborazione delle aree protette. Un discorso particolare va fatto in tal senso per la Rete Natura 2000 in fase di istituzione da parte dell’Unione Europea con lo scopo di tutelare habitat e specie individuate come prioritarie e spesso localizzate in porzioni anche molto limitate di territorio. La frammentazione in molte situazioni sembra non garantire quella “coerenza ecologica” che è elemento fondamentale per la preservazione della biodiversità a maggior ragione se si considerano gli effetti del cambio del clima (in primis spostamenti e migrazioni). Mi pare inoltre, e spero che qualcuno possa smentirmi, che l’individuazione dei siti della rete, avvenuta nei singoli paesi con criteri regionali, non abbia tenuto in minimo conto i cambiamenti climatici in corso, cui alcune specie sembra si stiano adeguando con prontezza spostandosi di quota o latitudine.
Questo potrebbe voler dire ritrovarsi con una rete in parte già obsoleta al momento della sua reale attivazione: un aspetto che meriterebbe adeguati approfondimenti da parte dell’Europa.
Fa piacere in tal senso rilevare che il notiziario Natura 2000 della Commissione Europea – DG Ambiente di giugno fosse dedicato proprio a tale argomento, segno di una dovuta attenzione che per ora non sembra tuttavia fornire soluzioni concrete rispetto a tali problematiche.
Forse in alcune aree sarebbe opportuno studiare una rete dinamica a geometria territoriale variabile che segua migrazioni e spostamenti di habitat e specie (un po’ come prevede la nuova legge francese per i parchi nazionali, anche se lì la variabilità è conseguente a scelte della comunità e non ad esigenze di conservazione). Del resto se le specie da tutelare sono dinamiche non dovrebbe esserlo anche la loro tutela?
In materia di salvaguardia della biodiversità vanno poi studiate ed attuate misure nuove e trasversali in cui i parchi devono trovare il giusto coinvolgimento al di là dei loro confini. Penso in particolare all’istituzione ed implementazione di adeguate banche del germoplasma per la conservazione dei semi.
Se poi, tornando agli interrogativi di partenza, consideriamo l’impatto diretto che i parchi possono avere sulla situazione critica del surriscaldamento, è chiaro come esso sia praticamente nullo. Del resto ciò esula dai loro compiti e dalle loro possibilità.
Tuttavia le aree protette, nate da un volontà di tutela del territorio e delle sue ricchezze naturali, hanno giocato fin dalle loro origini importanti ruoli trasversali ed indiretti all’interno della società. Furono infatti elemento chiave nel far rilevare molti scompensi generati localmente da attività umane sconsiderate, contribuendo in modo significativo allo sviluppo di sensibilità e consapevolezza collettive su molte problematiche ambientali.
Anche in tema di surriscaldamento globale, se affrontiamo la questione sotto il profilo degli impatti indiretti, i parchi possono assumere un ruolo di grande importanza.
Come molti, se non tutti i problemi ambientali, il cambio del clima è infatti prima di tutto un complesso problema culturale. Una prima difficoltà sembra quella di rilevare e sviluppare una coscienza, sia a livello di “grande pubblico” che a livello politico, della reale concretezza del problema, della sua portata e della sua ineluttabilità.
Una consapevolezza che pare indispensabile sia a livello individuale che a livello collettivo per poter agire celermente per contenere le emissioni di CO2 ed evitare il realizzarsi degli scenari più catastrofici. Una seconda difficoltà di carattere culturale è quella di capire e riconoscere che molte soluzioni efficaci e rapidamente attuabili esistono. Abbiamo tecnologie ormai collaudate ed abbastanza efficienti per produrre energia senza emettere CO2, avremmo la possibilità di produrre veicoli che non utilizzino combustibili fossili, etc…
Si tratta di fare scelte politiche adeguate adottando un insieme di nuove soluzioni ed essendo pronti a pagarne il costo (sia in termini disagio che in termini economici) che sarà indubbiamente non indifferente, ma comunque minore di quello che sarebbe necessario per rispondere e rimediare alle conseguenze previste senza un tale intervento.
Bisognerà intervenire in primis sul settore della produzione dell’energia, aumentando notevolmente la quota di energia proveniente da fonti rinnovabili, incrementando l’efficienza energetica nelle varie fasi di produzione e consumo, favorendo impianti piccoli capaci di produrre in loco l’energia necessaria in modo da ridurne il trasporto ed anche contenere i consumi e la loro crescita verticale.
Una stima fatta dal gruppo del California Institute of Technology guidato dal prof. Nathan Lewis suggerisce che entro il 2050, per un soddisfacente contenimento delle emissioni di CO2, sarà necessario produrre dalle fonti rinnovabili circa 20 TW (TeraWatt; 1 TW=1012 Watt, ovvero mille miliardi di Watt) di energia, cioè circa il doppio della totale produzione attuale.
L’unica fonte rinnovabile in grado di fornire un così alto quantitativo di energia è indubbiamente quella solare. Per visualizzare la situazione il gruppo di Lewis ha calcolato la superficie necessaria a produrre tale quantitativo di energia con l’efficienza media delle attuali tecnologie (approssimando il suo valore al 10%) e suddiviso tale area in 6 quadrati che ha disposto sulla superficie terrestre (Fig.19).
Stupisce anche a prima vista come l’area totale necessaria (che ovviamente in un caso reale sarebbe diffusa sul territorio) sia solo lo 0,16% della superficie totale della terra. Un fatto che per il futuro fa ben sperare e ritenere che la fonte solare sia una delle principali risorse su cui puntare.
La terza difficoltà culturale è quella di sentirci tutti coinvolti ed uniti da questo problema, senza essere completamente disarmati e bloccati dalla sua portata, per far sì che a muovere le nostre mani, i nostri cervelli ed i nostri portafogli sia una volontà di cooperazione per risolvere un problema di tutti.
Se è vero che le aree protette avranno assolto il loro compito solo quando la tutela ed il rispetto del nostro pianeta sarà in gran misura congenita ai nostri modus vivendi, è evidente che i parchi hanno il dovere e l'opportunità di rivestire una funzione di rilievo nel superamento delle suddette difficoltà culturali, impegnandosi in prima linea soprattutto nel campo dell'educazione.
Un compito che si può attuare solamente attraverso un forte contatto con le persone, assumendosi a piene mani la responsabilità di rivestire un importante ruolo sociale e testimoniando la possibilità di attuare scelte politiche e gestionali coerenti con il contenimento delle emissioni di CO2 che tra le altre cose stanno mettendo seriamente a repentaglio gli ecosistemi del pianeta. Un tale tentativo è una sfida di grandi proporzioni e richiede cambiamenti sostanziali nel modo di vivere e di pensare delle persone. Raccogliere questa sfida è un importante obiettivo per le aree protette e per tutti noi, nonché un segno di responsabilità e civiltà. Elementi molto interessanti e ricchi di risvolti da indagare emergono poi anche se si considerano (per completare la simmetria) gli impatti indiretti del “global warming” sui parchi. Si pensi per esempio a quello che sarà determinato sulle aree marine protette e le zone costiere dall’innalzamento del livello e della temperatura del mare, nonché dai fenomeni di inondazione previsti sempre più frequenti ed intensi. Oppure al cambiamento che nelle aree alpine produrrà lo scioglimento dei ghiacciai sotto i più svariati punti di vista: da quello idrogeologico e vegetazionale a quello turistico ed economico. O si pensi ancora alle influenze sulle attività agricole conseguenti alla variazione di produttività dei suoli, nonché allo stress su colture e foreste che deriveranno dall’inevitabile e già riscontrato cambio di regime delle precipitazioni. Tutti ambiti da approfondire nel prossimo futuro, anche attraverso contributi e dossier speciali su questa rivista. Una cosa è certa: non ci mancherà il lavoro.

Giulio Caresio

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