Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 51 - GIUGNO 2007



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Lingue madri dei parchi

Le aree protette per la tutela e la valorizzazione delle minoranze linguistiche.

Alla manifestazione per il conferimento del Diploma Europeo al Parco Nazionale del Gran Paradiso -ottenuto dopo ottantacinque anni di esistenza e di severa, a volte anche faticosa, difesa delle sue prerogative- i bambini delle locali scuole delle Valli Orco e Soana hanno rivolto il loro saluto di benvenuto in lingua francoprovenzale.
Un segnale importante di riappropriazione orgogliosa della cultura locale, che comincia dalla dignità della lingua madre, assorbita dal seno materno come nutrimento spirituale che trasmette la cultura di generazioni.
Per le nostre vallate montane, è segnale importate. Si tratta di riscatto nei confronti di subalternità radicate nei confronti di ciò che è a valle, della pianura, dei luoghi metropolitani.
Ma può, o forse dovrebbe, accadere così ovunque.
E’ da tempo che alle aree protette viene riconosciuta una ricchezza e dunque un ruolo speciale, non solo sotto il profilo paesistico ambientale o della biodiversità faunistica e floristica, ma anche nel disegno più generale delle politiche di sviluppo delle aree interessate.
Non è d’altra parte un caso che la Conferenza di Barcellona del 2004 abbia sottolineato -suggerendo un’agenda XXI per la cultura- il valore delle differenze culturali messe in parallelo con la biodiversità.
Peraltro a causare la scomparsa degli idiomi sono spesso le stessa cause che attentano alla biodiversità del pianeta: sviluppo dell’agricoltura intensiva, industrializzazione, deforestazione massiccia, urbanizzazione.
Oggi al mondo esistono circa 7.000 lingue ed entro la fine del secolo è previsto possa scomparirne almeno il 50%; qualcuno arriva addirittura al 90%. Secondo David Crystal, che in un saggio ha dato conto della morte delle lingue, il ritmo di scomparsa tra quelle parlate attualmente sulla terra, è di una ogni due settimane; di questo passo a fine secolo ne saranno morte 2.500 e a metà del XXI secolo potrebbero rimanerne soltanto una decina.
Secondo i dati dell’Unesco, per sopravvivere di generazione in generazione, una lingua deve avere almeno 100.000 persone in grado di parlarla correttamente. Almeno la metà degli oltre 6.800 idiomi diversi, parlati nel mondo, sono patrimonio di meno di 2.500 persone e quindi destinati all’estinzione.
Possiamo rinunciare loro senza perdere un po’ di noi?
La ricchezza che viene dalla diversità va sempre mantenuta, sia che si tratti di biologia che di cultura.
«Un popolo diventa povero e servo quando gli tolgono la lingua» affermò, oramai decenni fa il poeta siciliano Ignazio Buttitta.
E il Pier Paolo Pasolini di “Volgar’eloquio” sottolineò che: «Il vero problema di oggi è che questo pluralismo linguistico e culturale tende ad essere distrutto e omologato [...] L'intervento della cultura di massa, dei mass-media, della TV, del nuovo tipo di scuola, del nuovo tipo di informazione e soprattutto delle nuove infrastrutture, cioè il consumismo, ha compiuto un'acculturazione, una centralizzazione di cui nessun governo, che si dichiarava centralizzato, era mai riuscito».
Nel suo romanzo “Nuova Grammatica finlandese”, Diego Marani, traduttore e revisore al Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea, ci offre un’altra suggestiva immagine dell’importanza della lingua: «Una lingua imparata non è che una maschera, un’identità presa a prestito. La si dovrebbe avvicinare con il dovuto distacco e mai cedere alla lusinga di mimetizzarsi, rinnegando i propri suoni per imitarne altri. Chi si abbandona a questa tentazione rischia di perdere la sua memoria, il suo passato, senza averne in cambio altro».
Perché non si corra il rischio di dover rinunciare alla propria lingua madre è indispensabile uno stretto connubio con le comunità locali che debbono sentire valorizzato, insieme all’ambiente naturale in cui sono insediati, anche il loro patrimonio culturale e identitario.
Le opportunità sono molte.
Dal 15 dicembre 1999 la legislazione del nostro Paese ne mette a disposizione una in più, data dal riconoscimento delle lingue minoritarie presenti nella penisola avvenuto con la legge n.482 “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”.
Si tratta delle lingue madri, parlate da generazioni e offuscate dalla modernità dell’epoca industriale e dal primo tentativo di globalizzazione che volle ridurre le diversità senza rendersi conto che nella diversità culturale, come nella biodiversità, è racchiusa una ricchezza da non dilapidare.
Del pericolo estinzione riguardo alle lingue si rese conto più di venticinque anni fa un parlamentare europeo proveniente dal nostro Paese, Gaetano Arfè, presentatore della Risoluzione del 16 ottobre 1981 "Carta comunitaria delle lingue e culture regionali e Carta dei Diritti delle minoranze etniche'.
Un documento, poi confermato da altre due Risoluzioni, la Knippers del'87 e la Killilea del 1994, e che espresse tutta la tradizione europeista dell'Italia federalista sognata dal Altiero Spinelli e dalle personalità che con lui condivisero il progetto di una Europa capace di andare oltre il mercato e l'economia.
Dunque il provvedimento nazionale che dà attuazione all’articolo 6 della Costituzione si inserisce all’interno di un quadro europeo consolidato.
Le sovrapposizioni tra aree protette e territori interessati dalle lingue minorizzate ha una certa consistenza, e le aree protette possono fare molto per restituire dignità alle lingue madri.
Al momento, l’incrocio dei dati tra le deliberazioni assunte dai Comuni per dichiarare la loro appartenenza all’ambito linguistico minoritario e la localizzazione in territori interessati dalla presenza di aree protette, rivela che ben 72 su 678 sono i Comuni interessati, pari a quasi l’11%.
Le lingue minoritarie storiche interessate sono l’occitano (21 Comuni), il francoprovenzale (9), l’arbereshe (8), il walser e il friulano (6), il cimbro e il grecanico (5), il sardo (4), lo sloveno (2). Una dimensione che induce ad attivarsi per uno specifico impegno dei parchi nella promozione delle lingue locali.
Al di là dell’impegno culturale di ordine generale, l’attenzione alle lingue può essere di ausilio per le stesse politiche territoriali e ambientali. Si pensi, ad esempio, al grande valore della toponomastica, utile a conoscere le caratteristiche dei singoli ambienti, rivelate proprio dagli appellativi storicamente attribuiti alle varie zone di un territorio.
Alcune aree protette hanno già dimostrato sensibilità su questi argomenti e già si sono attivate con specifiche politiche di attenzione all’argomento. Lo scorso aprile, ad esempio, il Parco naturale regionale del Gran Bosco di Salbertrand, in Piemonte, ha ricevuto la bandiera occitana, nell’ambito di un progetto, fortemente voluto dalla Provincia di Torino, e avviato in occasione dei Giochi olimpici invernali di “Torino 2006”, per dare riconoscimento dell’identità del territorio interessato dalle Olimpiadi. Analogamente a quanto accaduto con i nativi d’America piuttosto che con gli aborigeni di Australia è sembrato giusto segnalare l’appartenenza del territorio a una identità specifica che nella lingua ha sempre avuto la sua espressione più autentica. D’altra parte, la stessa cerimonia di inaugurazione di “Torino 2006” ha avuto un accenno a questa appartenenza con la rappresentazione dell’inno dei popoli francoprovenzale e occitano “Sa Chanto”.
Ma lo stesso parco, nell’ambito della programmazione delle attività del collegato Ecomuseo “Colombano Romean” ha dato alle stampe una serie di volumetti che descrivono l’ambiente e le attività tradizionali, ricorrendo alla comparazione dei termini in italiano e occitano.
Facciamo a questo punto un rapido viaggio a volo d’uccello tra le lingue madri delle aree protette d’Italia, seguendo l’ordine della loro presenza nelle aree protette.

Occitano/Occitan
L’antica lingua occitana, celebrata da Dante Alighieri nel canto XXVI del Purgatorio è di ceppo indoeuropeo, gruppo neolatino. Con questa denominazione si individuano le parlate che diffuse nelle regioni francesi della Provenza, Linguadoca, Alvernia, Limosino, Guascogna, parte del Delfinato e in Val d’Aran nella Catalonia spagnola. Suddivise in sottovarietà regionali, diedero origine, durante il Medio Evo all’ importante tradizione letteraria e poetica trobadorica. Con l’avanzare del francese, a partire dal sec. XIV, ne iniziò il declino a livello di parlate locale, sino al XIX secolo quando l’occitano ha vissuto un vero e proprio rinascimento culturale dovuto, soprattutto al movimento poetico del Félibrige, animato, tra gli altri, da quel Frédéric Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1904.
In Italia l’occitano è diffuso in numerose vallate alpine delle province di Cuneo e Torino ed ha resistito alla forte pressione del piemontese prima, dell’italiano poi. Una varietà della lingua occitana si è altresì conservata a Guardia Piemontese in provincia di Cosenza, ove fu importato nel sec. XV da coloni valdesi.

Francoprovenzale/ Francoprovensal
Per "francoprovenzale" si intende un gruppo di dialetti molto differenziati tra loro, ma con alcuni tratti fonetici e morfologici unitari individuati dal linguista e glottologo Graziadio Isaia Ascoli, che li distinguono dall’occitano e dal francese. In Italia il francoprovenzale è diffuso in Valle d’Aosta e in alcune vallate alpine della provincia di Torino (Val Sangone, Valle di Susa, Val Cenischia, Valli di Lanzo, dell’Orco e Soana. Allo stesso ceppo appartiene la parlata di due comuni della provincia di Foggia, Faeto e Celle San Vito, dove il francoprovenzale arrivò con i rifugiati valdesi del XV secolo.In Europa parlate di tipo francoprovenzale si incontrano sono diffuse nella Svizzera Romanda, in Savoia e in una zona dai confini estremamente incerti che comprende una parte del Lionese, del Delfinato e della Franca Contea.

Albanese/Arbëresh
L’albanese, lingua di origine albanese è da considerarsi idioma a sé stante all’interno della famiglia indoeuropea, con forti interferenze latine, romanze, slave e turche che ne hanno condizionato la purezza originaria, non solo a livello lessicale.
L’albanese si distingue in due varietà principali, il ghego e il tosco, a seconda delle localizzazione a nord e a sud del fiume Shkumbni. Dal secondo ceppo prese origine, a partire dal 1945, la lingua ufficiale dello Stato albanese.
Come è purtroppo tragicamente noto, comunità albanesi vivono nel Kosovo, in Macedonia, in Grecia (minoranza Arvanita)
In Italia le comunità arbereshe si installarono a partire del XV secolo, in maniera frammentata. Per questo troviamo oggi insediamenti albanofoni in ben sei regioni italiane, dal Molise alla Campania, dalla Puglia alla Basilicata, alla Calabria, alla Sicilia. Linguisticamente estinto risulta l’insediamento abbruzzese in provincia di Pescara nella frazione Villabadessa del Comune di Rosciano.
Con le migrazioni interne degli anni Cinquanta- Sessanta la comunità albanofono si è ulteriormente frammentata, mantenendo tuttavia la coscienza culturale dell’Arberia che ne sostiene l’attività a favore delle proprie tradizioni religiose (cattolicesimo di rito bizantino-greco) e linguistiche; è il caso, ad esempio della comunità insediata nei dintorni di Torino che si riconosce nell’associazione Vatra Arberesh molto attiva culturalmente e impegnata nel chiedere il riconoscimento come minoranza linguistica.

Friulano/Furlan
Il friulano rappresenta il ramo orientale di una più complessa "unità" retoromanza che comprende il ladino dolomitico e il romancio grigionese. Anche in questo caso la classificazione dell’Ascoli basata sulle peculiarità morfologiche e lessicali, che risentono delle vicende storiche legate all’autonomia goduta fino al 1420 dalla "Patria Friulana" sotto l’amministrazione politico-ecclesiastica dei patriarchi di Aquileia, colloca la lingua nel contesto italoromanzo. L’impronta linguistica venne mantenutà, anche se non si potè adeguatamente sviluppare con le successive annessioni prima alla Repubblica di Venezia, in maniera minore all’Austria.
Il friulano è diffuso nella maggior parte del Friuli storico, oggi compreso tra province di Udine, Pordenone e Gorizia (ove convive con la presenza linguistica slovena).
Questa lingua dispone di una koinè letteraria storicamente consolidata che si basa sulla sottovarietà centrale che fa riferimento al territorio di Udine. Un friulano sopradialettale normalizzato e formalizzato che, da alcuni anni, dispone di uno standard ortografico riconosciuto per legge dalla Provincia di Udine.

Germanico/Deutch (walser, cimbro, mòcheno)
Le minoranze linguistiche germanofone, fanno riferimento ad una lingua, il tedesco, che rappresenta uno dei grandi idiomi europei. E’ lingua ufficiale in Germania, Austria Liechtenstein, Svizzera e Lussemburgo; minoranze tedesche sono presenti in Danimarca, Belgio, Francia e in diversi paesi dell’Europa orientale come frutto di migrazioni protrattesi dal medio evo al sec. XVIII.
In Italia lingue germaniche si parlano tradizionalmente nell’intera provincia autonoma di Bolzano (ad esclusione delle valli ladine) da considerarsi penisola linguistica austriaca.
Altri insediamenti, di dimensioni ridotte e risalenti al periodo medievale si incontrano in alcuni nuclei lungo l’arco alpino: i walser (di ceppo alemannico arcaico) nell’area introno al Monte Rosa suddivisa tra la Valle d’Aosta, la provincia di Vercelli e quella del Verbano-Cusio-Ossola; i mòcheni (ceppo bavarese arcaico) in provincia di Trento; i cimbri in provincia di Vicenza e di Verona (Altopiano di Asiago- Tredici Comuni); a Sappada, in provincia di Belluno (ceppo bavarese-austriaco); in provincia di Udine (ceppo carinziano).
Ad esclusione dell’Alto Adige/Sudtirol, le minoranze germaniche isolate nel resto delle Alpi, sono caratterizzate da una arcaicità che ne rende difficile la pratica quotidiana se non a livello vernacolare e come preziosa eredità culturale, anche a causa dell’assenza di un modello normativo di riferimento.

Greco/Griko
Il greco, come si sa, vanta antichissime tradizioni culturali. In Italia è di casa dall’epoca delle migrazioni dell’antichità classica quando la colonizzazione investì stabilmente la Sicilia e gran parte dei territori costieri dell’Italia meridionale, ove l’utilizzo del greco come lingua di cultura si protrasse a lungo dopo la caduta dell’Impero.
Di quella presenza mantengono traccia numerose parlate del nostro Meridione, specie della Calabria e della Puglia, ove la liturgia orientale, di rito greco-bizantino, si mantenne sino al XVI secolo
Oggi la presenza della lingua è testimoniata in due aree specifiche. In Puglia il “grico” si parla nel Salento; in Calabria si parla “romaico” in alcune comunità di Aspromonte.
Le isole ellenofone dell’Italia meridionale in cui si parlano lingue grecaniche hanno mantenuto caratteristiche arcaiche con caratteri conservativi e sono in regresso anche per le difficoltà di utilizzo dell’alfabeto greco meno consueto a persone che hanno ormai additato nella quotidianità quello latino.

Ladino/Ladin
Per ladino si intende l’insieme delle parlate romanze dell’area dolomitica, nelle province di Bolzano (Ortisei, Valgardena, Val Badia), Trento (Val di Fassa, Val di Fiemme) Val di Sole, Val di Non) e Belluno (Cadore, Agordino, Comelico). Fu ancora l’Ascoli a riconoscere l’originalità delle parlate ladine cui riconobbe una particolare autonomia nel contesto degli idiomi romanzi.
Il ladino dolomitico, nettamente distinto dall’area germanofona del Sudtirol, verso il Trentino e il Veneto, sfuma progressivamente la sua presenza in una tipologia linguistica sempre più “grigia” nella quale tendono a prevalere, sino ad affermarsi, le parlate italoromanze.
L’isolamento tra valli alpine, non in comunicazione diretta tra loro, ha favorito l’isolamento e la frammentazione delle parlate di tipo ladino che sono stati di ostacolo al formarsi di una koinè sopradialettale oggi di impedimento a una effettiva applicazione burocratico-amministrativa della legge nazionale.

Sardo/Sardu e Catalano/Català
La lingua sarda rappresenta un gruppo a se stante, nel sistema degli idiomi neolatini e presenta , al suo interno, differenze anche notevoli, distinguendosi in due varietà principali, geograficamente separate: nell’area centrale prevale il logudorese e nuorese, con caratteristiche di originalità più evidenti; nei territori meridionali, il campidanese; nella parte settentrionale della Sardegna, il gallurese e il sassarese che risentono maggiormente di influenze corse e toscane dovute alle migrazioni dalla Corsica (gallurse) o alle dominazioni pisane e genovesi del XII-XIV secolo (sassarese); tipicamente corsa la parlata dell’isola della Maddalena.
A questa situazione va aggiunta l’appendice di lingua catalana di Alghero e quella di idioma tabarchino di Carloforte e Calasetta.
La coscienza linguistica in Sardegna è piuttosto radicata, e fa riferimento alla valorizzazione delle specificità identitarie isolane che traggono spunto dalle antiche tradizioni di autonomia dei Giudicati e del Regno Sardo, riconosciute dallo statuto di autonomia regionale del 1948.

Sloveno/Slovensko
Appartiene al gruppo slavo meridionale e nella sua varietà letteraria, è lingua ufficiale della Repubblica di Slovenia. Piccole minoranze di lingua slovena vivono in Austria (Carinzia e Stiria) e in Ungheria.
In Italia è parlato nel settore orientale del Friuli Venezia Giulia, al confine con la Slovenia in comunità delle province di Udine, di Gorizia e di Trieste.
Nel primo caso (Val Canale, Val Resia, Valli del Natisone), si tratta di varietà dialettali arcaiche, rimaste a lungo isolate rispetto alla madrepatria, ricche di peculiarità storiche e culturali.
Per i territori di Trieste e di Gorizia, la presenza linguistica è viva, rafforzata anche da costanti flussi migratori; ecco perché gli Sloveni di Trieste e Gorizia parlano la lingua ufficiale o dialetti poco differenziati e si riconoscono in pieno nella lingua e nelle tradizioni culturali della Slovenia .

Abbiamo dato alcune informazioni generali, di base, sulla diversità linguistica presente nelle nostre aree protette.
Il tema delle lingue locali rientra pienamente tra gli argomenti, quanto mai attuali, delle politiche per la salvaguardia del patrimonio immateriale. All’ordine del giorno del nostro Paese è infatti da qualche tempo iscritta la ratifica della “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”, conclusa nell’assemblea generale dell’Unesco di Parigi il 17 ottobre 2003.
Nelle premesse, il testo sottolinea, tra gli altri argomenti:
«la profonda interdipendenza fra il patrimonio culturale immateriale e il patrimonio culturale materiale e i beni naturali» e tra gli strumenti attraverso cui questo patrimonio si manifesta segnala le «tradizioni ed espressioni orali, ivi compreso il linguaggio».
Una chiamata alla responsabilizzazione e all’impegno per frenare il declino e rilanciare nelle nostre comunità la convinzione che la lingua è elemento irrinunciabile di identità che va oggi salvaguardata come punto di riferimento della ricchezza che viene dalla diversità, contrasto delle dinamiche che, con il villaggio globale, rischiano di uniformare e standardizzare anche le manifestazioni della ragione e dell’intelligenza personale.
La nostra identità deriva dal contatto, dal dialogo, dallo scambio di idee ed esperienze; la lingua segue strade simili che la trasformano, la aggiornano, la rendono via via adatta ai tempi e ai mutamenti delle sensibilità locali e globali.
Per entrambe, queste dinamiche portano arricchimento se sono in grado di resistere al rischio di essere supportate dall’eccessiva semplificazione che crea, allo stesso tempo, predominanze e subalternità.
Oggi, difendere le lingue madri del nostro territorio, non significa contrapporle ad altri linguaggi della comunicazione, che hanno sempre di più bisogno di una larga intercomprensione reciproca in un pianeta in cui le distanze si sono drasticamente ridotte. Ma rappresenta un doveroso atto di riconoscimento nei confronti delle radici territoriali, della storia e della memoria dei luoghi in cui viviamo e operiamo.
Riconoscere questi valori e scegliere di difenderli significa farsi carico della continuità, senza strappi, della nostra comunità e del suo divenire.
In questo processo, anche la lingua cambia e riflette i cambiamenti, i contatti, le contaminazioni, che ne rappresentano la vita e la vitalità.
Nell’epoca della globalizzazione che tutto vorrebbe schiacciare, annullando le differenze, la lingua diventa l’avamposto per difendere non soltanto un insieme di parole e di grammatiche, ma soprattutto modi di vivere, di stabilire relazioni e rapporti, di pensare, di sentire.
Di essere ed esistere.
Le lingue madri sono questo. Qui come in Africa, in Australia, in Sudamerica e in ogni angolo del Pianeta.
Con la biodiversità, la diversità culturale rappresenta un bene supremo da difendere. Il connubio con le aree protette diviene quindi collaborazione del tutto naturale. Che i nostri parchi debbono perseguire con eguale rispetto e attenzione, ricercando e conservando quelle testimonianze e quei saperi che sono archiviati nelle parole del territorio piuttosto che nella memoria scritta o orale degli abitanti delle aree loro affidate. Solo così, si costruisce un futuro durevole, basato sulla consapevolezza delle necessità di difendere i beni che ci sono affidati e che richiedono una gestione che sappia farsi carico delle capacità del Pianeta a cominciare dai territori in cui viviamo.
Una coerenza di pensiero e di comportamento che, se diventerà patrimonio diffuso e condiviso della coscienza di ognuno e di tutti, potrà davvero divenire efficace più dei proclami e dei “manifesti” che, molto spesso, salvano le coscienze, ma lasciano le cose come stanno. Perché è battaglia difficile e impegnativa richiedere ai Governi misure efficaci per un futuro sostenibile; ma spesso lo è ancora di più pretenderlo da se stessi. Educare alla sostenibilità, almeno per i parchi e le aree protette, vuol dire cominciare proprio da lì.

Nota:
I riferimenti di base per le notizie sui gruppi linguistici minoritari sono tratti dalla documentazione del Centro Internazionale sul Plurilinguismo.

Valter Giuliano