Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 52 - GIUGNO 2008



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Annibale Salsa

Presidente Club Alpino Italiano

Socio della Sezione di Savona dal 1977, è Presidente generale del Club Alpino Italiano dal maggio 2004. All'interno del Sodalizio, sorto a Torino il 23 ottobre del 1863, che oggi vanta oltre 300.000 Soci distribuiti in 487 Sezioni e 312 Sottosezioni ha, in precedenza, ricoperto diversi incarichi.

Annibale Salsa, nato il 13 Ottobre 1947 a Savona, piemontese per parte di padre e ligure per parte di madre, ha cominciato a praticare intensamente le montagne a cavallo delle due regioni, per poi effettuare salite classiche sulle principali vette delle Alpi occidentali, dalla Val Tanaro all'Ossola, impegnative traversate sci-escursionistiche e, soprattutto, lunghi trekking attraverso l'intero arco alpino percorrendo le montagne di tutti gli otto Stati delle Alpi e del Giura franco-svizzero, con qualche breve puntata anche in Appennino.
Docente di antropologia filosofica e di antropologia culturale presso l'Università di Genova, ha svolto attività didattica e scientifica presso la Clinica universitaria di psichiatria dell'Ateneo genovese. Membro dell'Istituto internazionale di ricerche fenomenologiche e di studi avanzati nelle scienze umane dell'Università di Belmont - Massachussets (USA), è stato relatore in importanti Congressi scientifici presso le Università di Salisburgo, Santiago di Compostela, Francoforte sul Meno, Berna, Ginevra, Lugano, Nizza. E' responsabile scientifico dell'Unità operativa "Frontiere culturali e fenomenologie religiose nelle Alpi" nell'ambito del progetto strategico "I segni dell'uomo nelle terre alte" del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); ha collaborato e collabora con Centri studi nazionali ed europei; è membro del comitato scientifico della rivista "Il vaso di Pandora" (psichiatria e scienze umane). Già Presidente del Gruppo di Lavoro Popolazione & Cultura della Convenzione delle Alpi, Accompagnatore di Escursionismo Onorario, membro accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, ha pubblicato saggi ed articoli nei settori della teoria generale della cultura, dell'antropologia psichiatrica e dell'antropologia alpina. E' appena uscito il suo volume Il tramonto delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, pubblicato dall'editore "Priuli & Verlucca", che affronta il tema del disagio esistenziale delle vallate alpine nell'attuale fase postmoderna sospesa tra globalizzazione dell'economia e dei mercati e rischi di omologazione culturale. Il saggio si sofferma sull'identità alpina e sulla sua crisi, tra richiami alla tradizione e necessità di modernità, fornendo utili spunti per l'analisi storica del territorio sociale delle nostre montagne e suggerimenti sui possibili indirizzi verso il futuro. Abbiamo incontrato il Presidente generale del Cai, Annibale Salsa, a Torino, in occasione della prima edizione di "Alpi 365" il nuovo salone della montagna e gli abbiamo rivolto alcune domande sulle situazione generale dell'ambiente montano e sul contributo che parchi e aree protette possono dare alla nuova stagione delle nostre terre alte, da giocare sul terreno del possibile incontro virtuoso tra cultura e ambiente, innovazione e tutela, modernità e tradizione.

Il Cai da sempre fu coinvolto nelle proposte di tutela dell'ambiente. Questa sensibilità rimane?
«La sensibilità su questi temi è parte fondante del Club Alpino Italiano. Pensiamo che la difesa dell'ambiente, attraverso il sistema dei parchi e delle aree protette, sia uno dei nostri compiti istituzionali. Abbiano sottoscritto anche il progetto Ape e abbiamo tutte le carte in regola per sedere ai tavoli della concertazione ambientale. La nostra concezione del parco non fa riferimento solo alla difesa degli aspetti naturali, ma vede la difesa del territorio attraverso i parchi come momento di una più ampia interazione tra l'aspetto naturale e la dimensione umana e sociale. E' per noi un aspetto caratterizzante in quanto la nostra vocazione ambientalista non nasce per effetto dell'ambientalismo di emergenza, ma da una tradizione mentale che fa originariamente riferimento agli aspetti estetici.
Questo percorso si è in seguito modificato e adeguato anche alle emergenze, ma noi siamo fautori di una tutela attiva e non passiva meramente vincolistica e di congelamento dello stato di fatto. Per noi il parco è un'occasione affinché le popolazioni locali siano protagoniste e ne colgano l'opportunità. Dunque il problema non è sì o no al parco ...: sì ma come; l'attenzione si sposta al come».

La tutela delle terre alte -per usare una vostra efficace espressione- è dunque necessaria...
«Più che necessaria. È indispensabile, fondamentale.
Spopolamento e abbandono sono stati e rimangono problemi fondamentali che, se non affrontati con energia e con sistemi innovativi, rischiano di rendere inefficace ogni sforzo di rilancio delle nostre montagne. Uno dei riferimenti possibili per arrestare il fenomeno viene spesso individuato nel turismo che già in passato ha segnato una stagione felice per l'economia alpina, ma che ha portato con sé anche profonde contraddizioni proprio per la diversità delle forme con cui si è presentato: dapprima rispettoso e delicato, poi via via più arrembante e volgare, indifferente all'ambiente naturale e culturale. Oggi è in atto un ripensamento, guidato da una evoluzione di pensiero e di comportamenti che hanno originato, tra l'altro una carta del turismo sostenibile».

Le guide alpine, gli accompagnatori di mezza montagna, le guide naturalistiche possono trovare nuovi spazi e nuovi ruoli in questa prospettiva di futuro turistico? Come si può immaginare il cambiamento professionale che è oggi richiesto?
«Penso che occorra ripensare le tradizionali pratiche di conoscenza della montagna del Club Alpino, mettendo al centro l'escursionismo culturale e naturalistico. Si tratta di una mia convinzione profonda che sostengo da tempo, anche per portare a un necessario "sdoganamento" dell'escursionismo rispetto a una visione dell'alpinismo un po' elitaria. Insisto sui due aggettivi, naturalistico e culturale, per una visione dell'ambiente come ecosistema nel quale interagiscono la natura e la presenza umana. Quest'ultima è importante non solo per gli aspetti della tenuta demografica, ma anche come costruttrice del paesaggio culturale, del paesaggio agrario che contraddistinguono le Alpi, ma anche gli Appennini.
Personalmente, anche come studioso, caldeggio il neoruralismo come fenomeno che si sta già verificando in molte realtà d'oltralpe e rappresenta una soluzione al problema dell'esodo massiccio dalle montagne. Il fenomeno del neoruralismo sta riportando generazioni di giovani in montagna a sostegno del fatto che montanari si diventa, non necessariamente si nasce; è una identità acquisita non una identità genetica ascritta».

Il ruolo del montanaro diventa fondamentale e va reinventato in maniera moderna, per un presidio cui non si può rinunciare, senza ripercorrere strade dubbie come quelle, echeggiate negli anni Settanta, che prefiguravano la professione del "giardiniere di montagna", relegando, di fatto, i montanari a figure subalterne ai desideri delle città e all'immaginario dei loro abitanti, compreso il bisogno rassicurante di un ambiente intatto nelle componenti ambientali e fermo alla nostalgia di un'arcadia perfetta popolata dal "buon selvaggio"...
«Era una concezione profondamente errata che rimanda alla filosofia della tutela passiva; il presidio attivo ha bisogno di investimenti economici e rifugge da quell'assistenzialismo che poi presta il fianco alle critiche pesanti che sentiamo in queste settimane nei confronti delle Comunità montane o di altri soggetti accusati di voler difendere e conservare, immutata, la situazione attuale. La montagna è un territorio che ha delle potenzialità, e queste vanno sostenute e promosse. Ma bisogna crederci. Ho sempre sostenuto che la cosiddetta marginalità delle montagna è un falso problema perché è una marginalità geografica che non va confusa con quella culturale. Quindi stiamo ben attenti a non considerare le Alpi e le montagne come luoghi marginali perché la geografia fisica li ha posti lontani dalle città e dalla pianura. Il problema è culturale: se noi poniamo la montagna al centro dell'attenzione perché ha ricadute positive sulla pianura e sulla città, allora la marginalità scompare, ci accorgiamo che è una categoria mentale, non fisica».

Salendo di quota, c'è una parte estrema delle terre alte che sempre più è l'unico territorio che ci rimane di una natura intatta, veri e propri "santuari della natura" per i quali si invocano misure di tutela rigorosa che conservi una sensazione di wilderness anche per le generazioni future. Pensi sia possibile sostenere una politica di tutela e di conservazione di questi luoghi oppure, come sempre più spesso accade, nulla può fermare una società che avanza non sempre portando civiltà...
«Laddove non ci sono più segni di paesaggio culturale, allora il paesaggio naturale si difende con la "wilderness bianca" di quota, cosa che non solo non è possibile nella media montagna ma addirittura può essere controproducente. La fascia cacuminale, estrema, sommitale come i grandi crinali delle Alpi può sostenere questo tipo di tutela estrema».

Mario Rigoni Stern sostiene -e lo abbiamo scritto nell'intervista comparsa sullo scorso numero di "Parchi"- che l'accesso motorizzato alla montagna si dovrebbe escludere dal punto in cui arrivano i servizi dello Stato come, ad esempio, la consegna della posta. In una società sempre più prostrata davanti al totem dell'automobile, il tema sta diventando di stringente attualità e c'è chi invoca l'accesso a qualsiasi luogo, quasi si trattasse di un diritto garantito di per sé e sancito dal semplice possesso del mezzo privato. L'argomento che viene speso a sostegno di questa posizione è che tutti hanno il diritto di poter godere delle bellezze della natura e non solo qualche ardimentoso alpinista o camminatore. Per essere ammessi si è disposti anche a pagare il pedaggio, purché si possa salire. Come vedi il problema e come pensi possa essere affrontato, proprio nel cuore delle nostre montagne dove pure qualche sperimentazione di regolamentazione è già in atto?
«Il problema è discusso e anche all'interno del Cai ci sono posizioni diversificate a seconda delle sezioni territoriali, da quelle più severe ad altre più sfumate e, ad oggi non vi è una linea ufficiale.
Personalmente penso che invocare, in questo caso, un "diritto di tutti" significa far ricorso al concetto di uguaglianza astratta che è la peggiore delle diseguaglianze. In realtà anche se non si ha accesso a un luogo si fruisce in termini di uguaglianza di un ambiente intatto, non alterato e dunque le ricadute in termini di eguaglianza sono comunque garantite. Una frequentazione eccessiva con mezzi motorizzati dell'alta montagna è sempre dannosa, fatti salvi i diritti di chi deve passare per lavoro, soccorso, etc… Non mi pare comunque si tratti di una forma eticamente corretta di eguaglianza».

Un altro tema caldo, quanto ad accessibilità, questa volta alpinistica, riguarda i punti di appoggio in quota, rifugi e bivacchi. Le politiche di "valorizzazione" turistica della montagna invocano la necessità di implementare la rete esistente con nuove costruzioni. Il fenomeno investe anche i parchi e le aree protette. Il Club alpino ha, in questo settore, assunto una decisione molto precisa, ma restano altri soggetti, pubblici e privati, che non sembrano sentire ragione.
«Infatti, da anni abbiamo adottato una moratoria sulla costruzione di nuovi rifugi che riteniamo più che sufficienti. Un ripensamento è in atto per quanto riguarda le strutture di media montagna per le quali ho lanciato il progetto "rifugi come presidi culturali". E' necessario ripensarne la funzione culturalmente coraggiosa; non è più possibile che si limitino al ruolo di luoghi in cui pernottare per l'indomani salire in cima, fare un'escursione o riprendere il cammino di un trekking. Pensati in una logica ottocentesca, con un reticolo viario limitato oggi hanno bisogno di essere rifunzionalizzati partendo dal fatto che la montagna si affronta in un altro modo. Ecco che allora ne dobbiamo fare dei presidi culturali che siano una vetrina del territorio, con iniziative che consentano di conoscere la cultura materiale (prodotti artigianali, enogastronomici...) e immateriale (convegni iniziative culturali, montagna terapia) locale: il rifugio come vera e propria "casa del territorio" che possa avvicinare tutti, anche i non Soci, alla montagna facendone conoscere il territorio della media montagna nelle sue diverse qualità. Se non si avrà il coraggio di imboccare questa strada, si rischia di chiudere».

Vorrei affrontare ora il tema dell'alpinismo internazionale e delle sue responsabilità come elemento perturbatore dell'ambiente naturale e spesso anche economico sociale e culturale di montagne nelle quali la sua irruzione ha modificato pesantemente -per fini quasi sempre solo di gioco, sportivi- abitudini, usi, costumi, tradizioni. In qualche caso, per fortuna pochi, ha addirittura violato il modo di essere e di pensare di popolazioni che con la montagna hanno un inteso rapporto spirituale; mi riferisco alla salita di luoghi simboli e inviolabili della cultura locale. Questi fatti sono da considerare ineluttabili, come parte di una storia che, pervasa dall'innato desiderio di esplorazione e di scoperta, tutto travolge o nella ricerca di nuovi spazi di azione sarebbe stata possibile qualche regola etica in più da parte del mondo alpinistico?
«Intanto sono convinto che l'alpinismo sia una pratica di conoscenza e non solo un fatto sportivo; dunque si ripete ciò che è accaduto ai tempi dell'esplorazione, da parte inglese, delle Alpi, quando si è aperto un capitolo importante di conoscenza per la fascia alta delle montagne che non aveva mai attratto l'interesse dei montanari. L'esplorazione delle parti alte delle nostre montagne, pur sviluppandosi con obiettivi di conoscenza scientifica e non solo per cimento sportivo, ha svolto un ruolo, dal punto di vista dell'antropologia del simbolico, di profanazione della sacralità della montagna, introducendone una nuova forma, vale a dire la sacralità del rispetto ambientale.
Dopo la fase meramente esplorativa conoscitiva le associazioni alpinistiche dovrebbero avere il dovere morale di proporre per le montagne un'etica di rispetto ambientale che superi il concetto di terreno di gioco che a me non è mai piaciuto: la montagna non è una Disneyland e non può essere ridotta a terreno di gioco ma deve essere terreno di esplorazione, di conoscenza e di rispetto territoriale e ambientale».

Numero chiuso?
«Abbiamo delle riserve. Non siamo mai stati favorevoli alle chiusure. Semmai il problema è la chiusura culturale, che noi dobbiamo combattere favorendo la formazione, l'educazione, per andare in montagna in maniera più consapevole. Credo che i grandi flussi vadano regolamentati ma attraverso forme da studiare con grande attenzione».

Sul rispetto della sacralità e dell'impegno a non salire i luoghi simbolo?
«Siccome come ho detto prima sposo l'idea di Massimo Mila (musicologo e storico dell'alpinismo, sua la Storia dell'alpinismo ndr) di alpinismo come forma di conoscenza e non di gioco credo che gli alpinisti come esploratori, per certi versi anche dell'inutile, debbano porsi dei limiti, perché il senso del limite è nella cultura dell'alpinista. Il limite non è solo oggettivo, materiale, è anche culturale proprio nell'ottica della consapevolezza».

Alpi e Appennini sono sufficientemente protetti dal sistema dei parchi e delle aree protette o occorre trovare una alternativa anche rispetto alla stessa idea di parco, con nuove soluzioni per garantire la tutela di ambienti e paesaggi così preziosi?
«Debbo confessare, con molta franchezza che la parola parco non mi piace tanto; ne faccio una questione semantica perché la parola parco rimanda a una questione ludica, all'idea del divertimento, dal parco divertimenti. Andrei dunque alla ricerca di una nuova denominazione per evitare che la parola inneschi, in certe corporazioni o in movimenti che strumentalizzano la gente in buona fede, l'idea che ci si trovi in un luogo di sfogo domenicale dei cittadini. Per il bene dell'ambientalismo e degli obiettivi di tutela bisognerà fare lo sforzo di trovare una tematizzazione del concetto di parco slegandolo da questa visione distorta e trovare un'altra denominazione per indicarla in maniera più cogente ed evitare i problemi connessi. Quanto all'attuale situazione credo che se ben condotta la rete delle aree protette sarebbe sufficiente anche perché è impensabile trasformare tutto in parco; non sarebbe un bene. Bisogna poi evitare il dualismo "dentro il parco, fuori dal parco": noi dobbiamo educare i cittadini a comportamenti rispettosi sia dentro che fuori. L'idea che al di fuori del perimetro di un'area protetta ci si trovi davanti alla res nullius. Il parco deve essere l'occasione per educare a un rispetto che vada fuori, permeando l'intera cultura al rispetto, fino ad arrivare a una educazione tale per cui i parchi cessino di essere necessari».

Il Club Alpino Italiano è stato storicamente tra i sostenitori e a volte anche tra i promotori dei parchi nazionali. Oggi ci sono aree che, a vostro giudizio, andrebbero segnalate per una maggior tutela?
«Sono stato, di recente, in visita nel Nord est, nell'entroterra carsico, alle spalle di Trieste. Lì c'è la Val Rosandra che ha dei valori ambientali e storico culturali legati anche alla storia dell'alpinismo -con le imprese di Kugy e poi di Comici- che meriterebbe un intervento in questa direzione. Mi sono assunto personalmente l'impegno di sostenere le iniziative delle nostre sezioni locali, territorialmente interessate, visto che tocca a loro agire a livello di parchi regionali mentre noi abbiamo competenze nazionali. Anche sulle Alpi Liguri ci stiamo impegnando per far sorgere il primo parco sovranazionale ligure-piemontese-francese».

Monte Bianco, Monte Rosa, Monviso, Dolomiti... non valgono lo sforzo di iniziative internazionali per una tutela speciale?
«Direi di sì. Le Alpi sono una realtà sovranazionale. Non ce lo dobbiamo dimenticare e bisogna sempre tenerne conto. Anche il discorso della suddivisione delle Alpi, rientra in una logica superata; siamo usciti dalla visione sciovinistica del passato e ci troviamo di fronte a uno spazio transfrontaliero che deve parlare una sola lingua. Non si può continuare a pensare in termini di Alpi italiane. Lo possiamo fare per l'Appennino che ha bisogno di una politica nazionale, ma per le Alpi non si può e non si deve. Nel rispetto della diversità culturale, della diversità statuale, come indica la Convenzione delle Alpi, la politica deve essere negoziata con tutti i paesi che le compongono».

Perché a tuo giudizio proprio uno strumento importante, forse indispensabile, per il futuro durevole della bioregione alpina, come la Convenzione, ha incontrato così tanti ostacoli che ne hanno sin qui rallentato il cammino? Perché stenta ad essere accettata, fatta propria, condivisa?
«Indubbiamente vi sono problemi per alcuni protocolli attuativi. Penso a quello sui trasporti che proprio in Italia incontra moltissime resistenze a causa di una lobby dell'autotrasporto che nel nostro paese -in cui l'auto insieme al calcio è l'oppio del popolo- è molto potente. Poi rimangono altri Protocolli che debbono superare alcune difficoltà. Penso a quello sul tema "popolazioni e cultura" che ho presieduto io, dove per ragioni diverse, legate alle storie dei diversi Stati nazionali, ci sono concezioni che devono trovare un terreno comune di incontro. Sul tema delle minoranze linguistiche -cui tengo molto, al punto che sono stato ambasciatore di convivenza in aree come appunto la Val Rosandra che citavo prima, piuttosto che in Alto Adige/Südtirol caratterizzate di un passato irredentista che ha provocato molte incomprensioni- bisogna ancora lavorare molto non solo nelle realtà più note, come la Svizzera che è organizzata in Confederazione con un proprio ordinamento di rispetto linguistico che fa riferimento alla territorialità, ma ad esempio in Francia dove le leggi ammettono le parlate locali purché non siano quelle dei Paesi confinanti... La diversità dei principi e delle regole pone indubbiamente dei problemi, per i quali occorre trovare una qualche uniformità di soluzione».

Approfondiamo la questione particolarmente spinosa dei trasporti, specie nelle Alpi, tu come vedi la situazione?
«Sono da sempre un sostenitore del trasporto su rotaia, un appassionato di cose ferroviarie, per cui non ho dubbi. In Italia purtroppo la situazione non è rosea come in alcuni paesi vicini, perché non si è mai creduto nella ferrovia, perché il trasporto su rotaia denuncia trent'anni di arretratezza dunque bisogna lavorare per creare una adeguata cultura di utilizzo del treno ma al tempo stesso fornire dei servizi che siano adeguati. Il problema è quello di passare dalla strada alla rotaia soprattutto per il trasporto delle merci che è veramente traumatico. I grandi corridoi delle Alpi sono i più inquinati, al punto da costituire un paradosso per territori che dovrebbero avere la migliore qualità dell'aria. Bisogna dunque avere il coraggio di portare su ferrovia le merci che oggi viaggiano sui Tir».

Per farlo, c'è bisogno dell'alta velocità anche nel transito attraverso le Alpi o lì si può anche rallentare, rispettare la lentezza della montagna per un trasporto slow, che consenta anche di rinunciare a infrastrutture dall'impatto troppo pesante che in territorio alpino diviene insostenibile?
«Ho sempre sostenuto, dichiarato, scritto che le Alpi come tutti i territori di montagna hanno bisogno della lentezza e non della velocità. Nelle epoche storiche in cui vi è stato disinteresse per la montagna -e per le Alpi in specifico-, è prevalso sempre il criterio dell'attraversamento veloce.
Non è tanto il problema dell'alta velocità ferroviaria di oggi, quanto di una concezione che risale alle antiche strade consolari romane, costruite non per "fare" le Alpi ma per attraversarle, intendendole unicamente come ostacolo di natura, come barriera. Se invece noi consideriamo le Alpi come luogo di valore, allora dobbiamo cambiare il modello. Per cui, ad esempio, la logica delle autostrade in area alpina rientra nello stesso paradigma dell'attraversamento veloce. La montagna non ha bisogno di attraversamenti veloci, ha bisogno di attraversamenti lenti in cui ci si possa fermare e guardarsi intorno. Ribadisco comunque che nell'alternativa autostrada/ferrovia, sono fermamente schierato a favore di quest'ultima».