Federparchi
Federazione Italiana Parchi e Riserve Naturali


PARCHI
Rivista della Federazione Italiana Parchi e delle Riserve Naturali
NUMERO 53



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Voci Verso La III Conferenza

Pianificazione e aree protette, parola d'ordine: semplificare

Si auspica lo snellimento del sistema: un solo piano nella legge nazionale come in alcune regionali.

Una valutazione dei risultati della pianificazione dei parchi e delle aree protette nel nostro paese non può non tener conto di come sono andate e stanno andando le cose nella pianificazione nel suo complesso. E siccome anche vicende recenti sono lì a ricordarci che la programmazione o pianificazione ai vari livelli non se la passa tanto bene dobbiamo ‘contestualizzare’ questa riflessione senza rinunciare a individuare e cogliere le specificità.


Come molti altri aspetti istituzionali la pianificazione ha avuto stagioni felici e comunque fertili con risultati tuttavia spesso deludenti tanto che la nuova programmazione - solo per ricordare gli anni che segnarono la nascita delle regioni - finì nel ‘libro dei sogni’. Ciò nonostante l’idea che il sistema istituzionale dallo stato agli enti locali dovevano ricorrere a strumenti di pianificazione –basta ricordare lo sforzo per indurre i comuni a dotarsi di una piano regolatore- non lasciò sul campo solo delusioni e amarezza.
Quando nel '91 il parlamento varò la legge quadro sulle aree protette di quella stagione però non restava molto salvo la novità introdotta alla fine degli anni settanta da quelle regioni che, senza aspettare la legge nazionale, avevano istituito i parchi regionali. Quest'ultimi per la prima volta (rispetto alle esperienze dei parchi storici) dovevano dotarsi di un piano ‘sovraordinato’ agli strumenti di pianificazione territoriale sia comunali che provinciali. Il legislatore nazionale si trovò quindi - grazie a quella che Scalfaro avrebbe poi felicemente definito ‘supplenza costituzionale’ - in un certo senso la strada spianata. Ma l’idea di un piano ‘sovraordinato’ sancito da una legge nazionale suscitò reazioni e timori che furono in parte superati prevedendo non uno bensì due piani. Un piano di carattere fondamentalmente ambientale coerente con le finalità di tutela assegnate agli enti parco e un piano socio-economico che in un certo senso ‘recuperava’ aspetti che molte amministrazioni soprattutto locali temevano sarebbero stati penalizzati e sacrificati “sull’altare delle politiche di protezione”.
L’art 7 della legge quadro sintetizzava le materie, il terreno, le fonti di finanziamento a cui avrebbe dovuto ispirarsi concretamente il piano non a caso affidato alle particolari attenzioni delle comunità del parco piuttosto che a quelle dell’ente parco. Forse non tutti ricordano che l’art 7 fa riferimento al restauro dei centri storici, al recupero di nuclei abitati rurali, opere igieniche e molto altro ancora a conferma di una nuova concezione e visione delle tematiche ambientali. Fu questo anche un modo - credo oggi possa esser detto senza tanti giri di parole - per tranquillizzare le amministrazioni locali le quali temevano che la ‘specialità’ del parco e la ‘sovraordinazione’ del piano avrebbe espropriato in qualche misura l’ente elettivo di importanti competenze e prerogative per assegnarle ad un ente non elettivo. I due piani servirono insomma a sbloccare una situazione che rischiava di impantanarsi un’altra volta.
A 17 anni dall'approvazione della legge è giunto però il momento di fare un bilancio di quella scelta e vedere cosa deve essere confermato e cosa invece è bene e necessario rivedere. Il rinvio in tutti questi anni di qualsiasi discussione seria sulla legge 394 (una delle poche peraltro che ha funzionato) ha impedito una verifica che oggi non può più essere rinviata se non vogliamo chiudere gli occhi dinanzi ai profondi cambiamenti ambientali in atto nel mondo. Che si fosse trattato di una soluzione piuttosto anomala non poteva certo sfuggire a nessun osservatore attento. Fino a quel momento nessun altro livello istituzionale o ente era stato chiamato a predisporre non uno bensì due piani.
In questa anomalia si poteva cogliere una precisa volontà e determinazione del legislatore a dotare i parchi di strumenti forti ed efficaci che ne connotassero un ruolo importante, che i parchi storici non avevano mai avuto e che era stato invece positivamente e concretamente collaudato dai parchi regionali. Quando si mise mano ai piani in una stagione in cui il pendolo della pianificazione si era ormai allontanato dal punto alto toccato anni prima a livello nazionale, emersero le difficoltà che riguardarono soprattutto il piano diciamo così più importante perché l’altro fu messo in lista d’attesa. Va detto che probabilmente anche la messa a punto del piano ambientale risentì del fatto che il parco era chiamato a dare risposte che era sempre più difficile catalogare come di tutela e protezione secondo canoni che mostravano già allora la corda, in particolare l’agricoltura. Risultò in molti casi non semplice decidere cosa avrebbe dovuto riguardare il piano ambientale mentre quello socio-economico veniva rinviato.
L’esito complessivo è poco entusiasmante. Sono pochi i parchi nazionali che hanno predisposto il primo piano e ancora meno quelli che hanno fatto anche il secondo e ancora meno quelli che se li sono poi visti approvare.
Un quadro insoddisfacente che vede anche in questo caso i parchi regionali in posizione migliore anche se in difficoltà. Qui naturalmente si torna a parlare di quella crisi riguardante le politiche di programmazione e pianificazione ai più vari livelli e comparti che segna ormai il passo. Vale per la legge nazionale sul governo del territorio, vale per i piani di bacino, vale per i piani o progetti previsti dalle legge 426; Alpi, APE, Coste etc, vale per i piani paesistici e molto altro ancora. Mal comune mezzo gaudio? Assolutamente no, ma è innegabile che questo clima culturale prima ancora che politico e istituzionale pesa e molto visto che per anni all'ordine del giorno più che i piani ci sono stati l’abusivismo,e i condoni di vario tipo e natura che hanno investito con effetti perversi anche molti parchi.
Il ruolo dei parchi è andato così via via opacizzandosi fino ad essere per lunghi periodi del tutto paralizzato dai commissariamenti a tappeto che hanno bloccato anche piani concretamente avviati.
Come ripartire
Forse vale la pena ripartire da un confronto seppur molto sommario tra la stagione che vide appunto l’affermarsi dei nuovi parchi regionali (che si conquistarono quella vetrina di cui avrebbe parlato Giulio Osti in un suo libro di meritato successo) e il momento presente. Di quella stagione di cui si avvalsero e fecero tesoro in anni più recenti alcuni parchi nazionali si sono scritte cose molto interessanti in libri e ricerche recenti dedicate ad anniversari. Si veda il volume sui 25 anni del Parco di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli, ma anche quello a cui ha messo mano il Parco delle Dolomiti Bellunesi e ai tanti altri contributi e ricerche che hanno interessato molte regioni e nelle quali il compleanno è stato occasione di un bilancio critico. Da esso emerge, sia pure in un contesto estremamente variegato, una costante e cioè che il piano del parco è stato il momento fondativo delle nuove aree protette. Ricordo uno slogan di quegli anni; il piano è il parco. Non lo si sarebbe certo potuto dire per i vecchi parchi storici. E fu fondativo per molti versi. Innanzitutto perché si doveva affermare il ruolo di un nuovo soggetto istituzionale e i nuovi arrivati raramente sono accolti a braccia aperte. Men che mai se questo nuovo soggetto è dotato di poteri e competenze destinate ad interferire, influire, condizionare decisioni e scelte in un campo, quello ambientale, che di difficoltà ne presenta già molte anche se riferite a specifici comparti e settori (inquinamento etc). Figuriamoci se si trattava di ricondurre anche ognuna di queste singole e complicate scelte ad un denominatore comune, appunto il piano del parco per di più affidato ad un nuovo arrivato e neppure elettivo.
Oltre che ai contributi ricordati consiglio di consultare la collezione di Parchi di quegli anni per toccare con mano cosa significò sul piano politico, culturale, istituzionale quella stagione. E quanto fosse vero che il piano era davvero una cartina di tornasole per il parco. Ho trovato tra gli altri, ad esempio, un articolo del '92 in cui si prendeva le mosse dal piano del Parco di Portofino predisposto dalla Regione in cui si riportavano le parole di Mario Fazio un giornalista che tanto avrebbe dato su questi problemi, il quale presentando un libro di Roberto Gambino diceva; ‘ I parchi naturali’, la pianificazione riguarda ‘un territorio largamente antropizzato come quello italiano, dove esistono condizioni ambientali e situazioni socio-economiche talmente differenziate da rendere del tutto astratte classificazioni rigide, indicazioni e graduatorie di valori altrettanto rigidi, zonizzazioni studiate a tavolino’. Era chiaro insomma che in ogni situazione dovevi misurarti senza presunzioni o pretese di una malintesa ‘sovraordinazione’ nel concreto e con tutti gli altri soggetti chiamati a loro volta a pianificare il comune, la provincia etc. Si può capire perciò anche senza scomodare i principi e le sentenze della Corte cosa significhi e in cosa consista quella ‘specialità’ del parco su cui in anni più recenti sarebbe per troppi versi e in troppe realtà calata la tela. Qui è il DNA dei parchi regionali che lungi dal danneggiare come allora fortemente e diffusamente si temeva l’operato, le competenze dei comuni o delle province, gli ha fatto bene perché li ha aiutati – potremmo persino dire- li ha ‘costretti’ e con le buone a misurarsi su questioni e aspetti che altrimenti sarebbero rimasti nel cassetto. Dove si faceva un buon piano del parco era più facile anche fare un buon piano regolatore; altro che esproprio dei comuni di cui allora ( ma ancora oggi) si temeva.
Oggi di quella stagione dobbiamo dirlo con molta franchezza e amarezza non rimane granché se non la consapevolezza che battere strade che evitino la sfida del piano crea sicuramente meno problemi e rogne ma rende assai meno efficace l’azione del parco, lo opacizza e lo emargina come purtroppo è avvenuto e avviene con effetti deprimenti anche in realtà avanzate. Ricordo che nel giugno del 2007 al festival dell’Editoria ambientale svoltosi a Pisa la presentazione di un libro curato dal Parco dei Nebrodi in cui si faceva il punto sui piani di alcuni importanti parchi nazionali.
Il quadro che ne emergeva e che trovava ulteriore conferma in un altro libro, “I parchi Nazionali: Agonia di un’idea?” (NdR. recensito in questo numero) di Paolo Francalacci e Giuseppe Mureto era sconfortante per due ragioni. La prima è che sono davvero pochi i parchi oggi impegnati seriamente nella pianificazione. La seconda è che anche quando con molta fatica e con risultati talvolta non esaltanti riescono a tagliare il traguardo e il piano passa all’esame della Regione per l’approvazione definitiva spesso se ne perdono le tracce. In qualche caso infatti il piano è fermo da anni. Se poi si aggiunge che gran parte dei parchi nazionali sono stati per lungo tempo commissariati è facile intuire che il risultato è davvero sconfortante. Di questo quadro poco allegro fornisce una chiave di lettura estremamente documentata e approfondita un altro libro ancora più recente: ‘Frammentazione e connettività. Dall’analisi ecologica alla pianificazione ambientale’, di Corrado Battisti e Bernardino Romano.
Nella presentazione Luigi Boitani afferma che non esistono altri libri del genere nel panorama italiano. Certo non ne mancano dedicati alle reti un tema assai di moda e neppure alla biodiversità sebbene nel nostro paese manchi ancora un piano nazionale. Ma qui le reti e la biodiversità sono ricondotte - credo sia questa la novità che lo rende importante e pressoché unico - alla pianificazione (specialmente, anche se non solo) dei parchi e delle aree protette. Infatti se le reti e la biodiversità sono oggetto di non poche ricerche e pubblicazioni altrettanto non si può dire per la pianificazione.
Il pregio del libro è quello di darci un'aggiornata rappresentazione di quel complicato contesto ambientale che registra rapidi e talvolta sconvolgenti e spiazzanti cambiamenti con i quali le istituzioni e i parchi debbono fare i conti. Dall’altro lato ci aiuta con grande chiarezza (che non viene meno neppure quando entrano in campo le indispensabili valutazioni e analisi tecniche) a cogliere le connessioni di una realtà molto frammentata. Intrecci e connessioni che riguardano la natura con le sue reti, corridoi, barriere (aspetti che sgombrano definitivamente il campo da qualsiasi residua concezione del parco come isola e ambiente separato) che tuttavia come avverte Boitani non deve farci confondere la ‘rete delle aree protette’ con la ‘rete di ambienti naturali!'. Il libro mette bene in luce anche aspetti e profili meno scontati ma di grandissima attualità anche per le aree protette a cominciare dal paesaggio E’ un aspetto purtroppo poco indagato sicuramente in ragione anche della ‘crisi’ della pianificazione nel suo complesso di cui stiamo parlando e della cui importanza ci offre uno spaccato di grande interesse il libro “Il paesaggio toscano tra storia e tutela” di Rossano Pazzagli ed in particolare il contributo di Antonello Nuzzo che rifacendosi all'esperienza toscana qui ripercorsa sulla base di una puntuale documentazione permette di cogliere nella concretezza del piano del parco di Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli di Cervellati la ‘connessione’ che si riuscì a stabilire in anni ormai lontani tra tutela della natura e tutela del paesaggio. Quella riflessione che si attaglia anche a molti altri parchi non solo toscani (e che era già presente in molte legislazioni regionali) appare ed è di grandissima attualità visto quanto è stato previsto e deciso al riguardo con il nuovo Codice sui beni culturali e il paesaggio che nel marzo ha avuto il placet di senato e Camera.Su quel testo non erano mancate polemiche e soprattutto da parte delle regioni erano state sollevate obiezioni e critiche soprattutto riguardo le implicazioni derivanti dalla piena ‘riappropriazione’ come è stato da più parti detto delle competenze dello stato in materia indispensabile per rimediare alle prove poco edificanti delle regioni e degli enti locali. La Conferenza stato-regioni presentò infatti una serie di proposte emendative tacendo però su un punto decisivo che sembra essere passato inosservato ai più. Infatti ci si è rallegrati che il testo abbia modulato meglio il rapporto regioni - sopraintendenze (il volto dello stato!) ma su due articoli ‘bomba’ silenzio assoluto.
Lo Schema di decreto legislativo recante disposizioni correttive e integrative del codice dei beni culturali e della paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, in relazione al paesaggio all’art 144 stabilisce che «I comuni, le città metropolitane, le province e gli enti di gestione delle aree naturali protette conformano o adeguano gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesistici secondo le procedure previste dalle leggi regionali».
Se a qualcuno non fosse chiara la portata di questa norma ricordiamo che la legge quadro del 91 stabilisce, al pari delle leggi regionali, che i piani dei parchi riguardano anche la parte paesaggistica che da anni e non solo in Toscana rilasciano i nulla osta in materia. Dopo il gran parlare sul paesaggio che non è più costituito da punti panoramici e pezzi isolati, ma si integra e raccorda a tutti gli effetti con il territorio - natura compresa - ecco di nuovo la scissione. L’art 146 dice quasi subito dopo che la regione esercita la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi dei propri uffici o può delegarne l’esercizio per i rispettivi territori, a province, ad ambiti sovracomunali appositamente definiti ai sensi delle vigenti disposizioni sull’ordinamento degli enti locali ovvero ai comuni. Da questa formulazione neppure Mandrake riuscirebbe a tirar fuori dal suo cappello i parchi i cui piani –in tanti sembrano averlo dimenticato- sono piani ‘speciali’ proprio in quanto ispirati ad una politica di tutela anche del paesaggio. Ecco un caso di sconcertante silenzio (salvo un recente documento di Federparchi) che conferma che si può far danno ai parchi con le politiche alla Matteoli ma anche con decisioni meno rozze e grossolane solo apparentemente più indolori.
Non possiamo stupirci quindi che in questo clima siano maturati provvedimenti micidiali come il decreto ambientale sfornato dalla Commissione dei 24 particolarmente dirompente per la legge 183. E tuttavia è giusto sorprenderci di questo silenzio dinanzi al ripristino della sovraordinazione del piano paesistico su quello del parco a cui era stato assoggettato. Specie queste ultime normative hanno avuto in più situazioni effetti immediati e negativi come nel caso del parco fluviale istituito agli inizi del 2007 dalla Regione Piemonte a Cuneo subito impugnato dalla Avvocatura di stato.
Anche nelle regioni questo clima involutivo - e non poteva che esser così - ha prodotto effetti negativi che in qualche caso ha visto anche leggi di regioni all’avanguardia come la Toscana rosicchiare talune prerogative della specialità per ricondurle ad una ‘normalità’ che ne sbiadisce il ruolo anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio.
A fronte di questa situazione niente affatto esaltante non credo basti ‘rilanciare’ o ripartire da dove le cose si sono incagliate quasi si trattasse semplicemente di ripristinare le norme disattese o mal gestite. Intanto perché i fatti hanno confermato che due piani rappresentano per tutti gli enti una prova estremamente ardua e alla fine impossibile da superare. I piani costituiscono anche sotto il profilo procedurale un passaggio davvero complicato che richiede di norma tempi piuttosto lunghi che sempre meno si attagliano alla velocità e portata dei cambiamenti specialmente in campo ambientale. Complicazioni che si duplicano quando i piani da fare sono due.
Tanto è vero che anche regioni come la Toscana che per i piani socio-economici si sono per tempo dotate di uno strumento specifico di indirizzo regionale per facilitare il compito non hanno conseguito i risultati sperati. C’è dunque un'esigenza di semplificazione, di snellimento che non può più essere ignorata. Questo attiene ancora alle procedure, alle modalità operative che d’altronde riguardano anche molte altre norme e non soltanto quelle relative ai parchi e alle aree protette. I due piani sancivano una separazione, un prima e un dopo, tra la tutela ambientale e le sue implicazioni socio economiche. Quante volte ci siamo sentiti dire specie dal movimento ambientalista che prima dovevamo pensare e preoccuparci del compito più importante, il piano ambientale, che veniva prima di ogni altro intervento e considerazione e poi solo dopo anche del resto.
Insomma le finalità vere del parco risiedevano nel primo piano le altre nel secondo. Le prime avevano la precedenza; alle altre si sarebbe provveduto se ci fosse stato spazio e possibilità. La situazione era ben sintetizzata dal titolo di un convegno svoltosi a Camogli nel 2005; “La conservazione tra tutela e business”. A parte la scelta bizzarra del secondo termine per indicare l’economia era quel “tra” che ormai mostrava la corda. Il tra stava appunto a significare un prima e un dopo e quindi in buona sostanza una separazione tra i due momenti di cui i due piani sono l’espressione normativa. Questa separazione oggi non ha più senso e non certo perché come talvolta si dice vogliamo annacquare, sbiadire le finalità del parco. Al contrario oggi un'efficace politica di tutela della biodiversità terrestre e marina come del paesaggio ha come condizione indispensabile l’intervento incisivo ed efficace sulle scelte economiche che riguardano la pesca come l’agricoltura, le energie rinnovabili come il turismo. E queste scelte non sono separabili e da rimandare a due piani diversi e distinti.
Ecco perché deve esserci un solo piano nella legge nazionale come in quelle regionali.

Renzo Moschini